Anche quest’anno, come ho fatto in occasione della scorsa edizione, ho visitato Photoquai, la biennale di immagini consacrata alla “fotografia non occidentale”.
Due anni fa scrissi che la mostra mi era sembrata una sorta di trionfo dell’accademismo moderno, e che solo pochi autori si discostavano da una media complessivamente deludente e lavori fondamentalmente manieristici. Anche quest’anno l’impressione generale è piuttosto negativa. Nella recensione di Photoquai 2009 pubblicata sul suo ottimo blog eyecurios, Marc Feustel arriva a conclusioni analoghe alle mie:
Il pericolo di festival organizzati per rappresentare la “fotografia non occidentale” è che i lavori vengano scelti per corrispondere a ideali occidentali esoticizzati, ovvero di ritrovarsi con una collezione di reportage fotogiornalistici sulla povertà e le privazioni del terzo mondo. […] La maggior parte dei lavori era da dimenticare, e alcuni fotografi presentati dovrebbero essere citati in giudizio per crimini di Photoshop contro la fotografia.
Condivido almeno in parte la prima critica, ma soprattutto mi trovo perfettamente in accordo per quanto riguarda il resto della citazione: la maggior parte dei lavori esposti sono anche a mio vedere veramente di scarso interesse e piuttosto amatoriali. Inoltre, come ho sottolineato l’anno scorso, l’impressione generale è che a Photoquai vengono privilegiate fotografie “ad effetti speciali”. Che si tratti di ritocco con Photoshop, dell’uso delle toycamera, o di una qualunque altra tecnica di ripresa o di elaborazione non ha poi molta importanza. Il punto è che nella maggior parte dei casi la tecnica diventa autoreferenziale, diventando l’unica giustificazione dell’immagine. Per un pubblico inesperto le immagini possono sembrare stupefacenti, ma se si ha un minimo di cultura fotografica ci si rende immediatamente conto della “facilità” di molti lavori presentati.
Oltre a questo eccessivo peso della tecnica sul contenuto, alcune fotografie ripropongono per l’ennesima volta idee veramente trite e ritrite, viste e riviste fino alla nausea, ed è veramente incredibile che fotografie così poco innovatrici vengano proposte in una festival parigino di prestigio. Basta citare i paesaggi che sembrano modellini di Esteban Pastorino Diaz o alle foto in cui Mouna Karray si sostituisce ad altre persone (lavori che varrebbe la pena aggiungere alla lista accennata in L’ironia del nuovo, fra tradizione e innovazione).
Infine, come sottolineato da photoculteur, se si desidera visitare la totalità del festival, senza limitarsi all’esposizione sul Quai Branly, la cifra da sborsare è decisamente eccessiva, molto più elevata di festival fotografici di vero spessore e fama incontestabile.
Nonostante quest’impressione negativa di fondo, come l’anno scorso molte fotografie di Photoquai valgono la pena di essere viste, ed è presente anche qualche piacevole scoperta, fra cui un paio di perle di rare bellezza. Ho molto apprezzato il reportage di Ilan Godfrey, per la durezza e sincerità dello spaccato di vita che riproduce, le fotografie misteriose e ben curate delle messe in scena di Gohar Dashti, dove una giovane coppia è colta in situazioni surreali e alienanti, le finestre scure e popolari di Julio Bittencourt, le belle immagini in bianco e nero dei ghiacci polari scattate da Joyce Campbell, così diverse dall’Antartide a colori che siamo abituati a vedere. Altri autori di livello sono: Pierrot Men, Daniela Edbourg, Masato Seto, Abbas Kowsari. Infine una piacevole sopresa è stata (ri)trovare le foto di Myrto Papadopoulos.
I miei due fotografi preferiti di Photoquai sono però due autori cinesi: Lu Guang e A Yin. Il primo, nonostante qualche sospetto di autenticità delle immagini che circola su Internet, è un fotogiornalista indipendente pluripremiato per le sue fotografie che di fatto trovo veramente intense e spettacolari. Tutto l’opposto rispetto alla maggior parte dei fotografi esposti a Photoquai: la tecnica oltre ad essere impeccabile è finalmente al servizio della fotografia, e quello che fa la qualità dell’immagine è soprattutto l’eccezionalità dei luoghi e delle situazioni, unite alla forza dello sguardo di Lu Guang, e non qualche effetto speciale di pessimo gusto. Stessa qualità elevatissima e stesso discorso vale per A Yin, che firma uno splendido reportage sugli ultimi nomadi mongoli. Un bianco e nero certamente classico ma perfettamente funzionale alla rappresentazione di questo mondo pittoresco e purtroppo in declino. In ogni caso -al di là dell’interesse puramente etnografico- alcune fotografie sono di un’intensità e forza indimenticabile.
Alla fin fine, bastano questi due fotografi per dirsi che la visita a Photoquai valeva la pena.
Ciao,
L’articolo e’ interessante e tra l’ altro mi ha fatto scoprire un paio di fotografi di livello, almeno per quello che io ritengo sia “di livello”.
Non mi trovo d’accordo pero’ su quello che dici su Joyce Campbell e Daniela Edburg;non mi raggiungono proprio . Ma si tratta di una mia personale divergenza sul senso di Estetica presente nelle loro opere .
Mi permetto di far sorgere il dubbio che la coppia ripresa dalla fotografa Gohar Dashti sia una coppia iraniana e non araba; il tema del suo progetto sono la resistenza e la “voglia” di normalita’ in una situazione di guerra come quella tra Iran e Iraq ed essendo lei Iraniana suppongo abbia scelto una coppia del suo Paese di origine.Dico questo perche’ conosco la suscettibilita’ degli iraniani ai quali non piace essere presi per arabi , essendo indoeuropei come noi.
Bell’articolo ed ottimi i links.
Paolo Romani
Ciao e grazie mille per i complimenti e la segnalazione, ho subito corretto l’articolo!
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