“When you’re young, you spend time in museums…then the street becomes your museum, because the museums mislead you” — Walker Evans

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“A sessant’anni di distanza, il viaggio di Agee e Evans nel cuore dell’America più vera rimane un’opera fondamentale che trascende gli anni e le generazioni: un immenso paesaggio con figure, dove gli inganni che la coscienza e la percezione giocano all’osservatore sono indagati con un’attenzione tanto spietata quanto è pudica e rispettosa quella riservata all’esperienza degli osservati”.

Una citazione tratta dal libro “Let Us Now Paraise famous Men”, datata 1935, ci introduce alla scoperta dell’atto rivoluzionario di Walker Evans, tracciando una parabola che inverte la condizione temporale, trascinandoci nell’ottocento pittorico francese, fino alle gesta di Camille Corot e al realismo artistico della scuola di Barbizon. Evitando digressioni forzate, cerco di mantenere la “retta via” della fotografia, concedendomi qualche excursus al fine di documentare la compresenza di due realtà così apparentemente lontane, in realtà quasi collegate da una rivoluzione condivisa. Potrebbe trasformarsi in un Evans vs Corot, se con versus, intendiamo una implicazione e contaminazione di lavori e filosofie di ricerca che appartengono ad entrambi gli artisti. Storicamente Evans viene considerato il fotografo della grande depressione americana del ’29. Scatti che evidenziano una devastazione fisica e psicologica, un progressivo abbrutimento della persona massacrata dalla povertà, colpita da un un tornado di meta-spazzatura che travolge nomi e cognomi, abitazioni, caselle postali, segnali stradali, campi di grano. Evans documenta, collaborando con il F.S.A (Farm Security Administration), organizzazione governativa che ha come fine il monitoraggio economico delle zone rurali colpite dalla depressione, le condizioni economiche delle classi più povere .

Foto di Walker Evans
Walker Evans – Famiglia di mezzadri 1936

Evans ci mostra volti affamati, scavati dalla fame, trasformati dalla disperazione. Volti che il governo non ama vedere, soprattutto se messi in contrapposizione con le gigantesche insegne luminose che pubblicizzano ciò che la popolazione non potrà mai possedere, stimolando così un’acredine profonda e atavica. Il nostro fotografo viene licenziato dallo stesso governo che gli aveva affidato l’incarico proprio perché la sua documentazione si contrappone alla stessa politica governativa. Gli scatti sono “scomodi”, taglienti, perturbanti nell’accezione freudiana: “una cosa (o una persona, una impressione, un fatto o una situazione) viene avvertita come familiare ed estranea allo stesso tempo cagionando generica angoscia unita ad una spiacevole sensazione di confusione ed estraneità”. Primi piani privi di censura di bambini uccisi dalla fame, trasfigurati nell’espressione, nella postura, nell’equilibrio scenico. Evans morde lo spettatore, e come una belva feroce lo costringe a vedere, confrontarsi con una realtà alienata e fisicamente deteriorata. Ora, questa parte del lavoro del fotografo americano ha un peso oggettivamente rilevante nella storia della fotografia contemporanea, ma il nostro interesse deve focalizzarsi su un particolare, una lavoro del quale Evans si occupa nel 1955, “The Beauty of Common Tools”. La cifra di questa breve dissertazione prende spunto da questo lavoro che ha cambiato in modo “fondazionale” il nostro modo di vedere e percepire la realtà. La conditio sine qua non che ci permette di proseguire, è l’abbandono temporaneo di Evans per occuparci brevemente del pittore francese Camille Corot, mostrandone la prospettiva di lavoro che lo accomuna, in anticipo di un secolo, con la rivoluzione artistica del fotografo di Saint Louis. Corot appartiene al realismo pittorico francese della metà dell’Ottocento. Paesaggi e strutture architettoniche accecate da una luce ingestibile, assoluta, invasiva. Una dimensione cromatica in cui i colori stabiliscono le regole del gioco, edificando lo spazio ed il tempo. Lontani da una prospettiva “magica”, Corot dipinge ciò che vede, eliminando orpelli ed elementi, mostrando la natura nel proprio delirante splendore. Qui, effettuiamo una sterzata, occupandoci del lato rivoluzionario del francese, la sua stanza segreta, dalla quale coglie una prospettiva diversa, un lato celato che sintetizza in modo completo la travolgente natura innovativa del suo lavoro: “La cattedrale di Chartres”, opera del 1830, dipinta prima del grande rogo che la avrebbe ridotta ad un esile frammento sospeso.

Dipinto di Camille Corot
Camille Corot – La cattedrale di Chartres 1830

Il dipinto mostra, ad un primo sguardo un elemento facilmente comprensibile e visibile. Il soggetto del dipinto, la cattedrale appunto, è stata trascinata in secondo piano. Osserviamo due contadini che si riposano e covoni di grano che “impallano” l’edificio. Corot non chiede di scegliere. Corot decide. Decide di invertire il soggetto, di defraudarlo di significato, adombrarlo in lontananza. Perché? Perché costringere lo spettatore a sporgersi, cambiare posizione, cercare di cogliere il soggetto principale che è stato volutamente nascosto? Forse la cattedrale non è il soggetto. Sbagliamo, ci interroghiamo, ma tralasciando quella stanza segreta, dimenticando che possiamo optare. Ci è concessa una alternativa. Ok, la “riabilitazione del quotidiano” è il vulnus dell’opera di Corot. I fattori e covoni di grano vengono muniti di piedistallo, impacchettati e trasportati in una galleria virtuale.

Qui, in questo nuovo spazio, vengono venduti come opere d’arte. Sono opere d’arte, perché la rivoluzione di Corot è mostrare il “quotidiano” come opera d’arte, vera ed unica strada verso la comprensione dell’eternità come momento possibile solo all’interno dell’arco dei giorni. Qui Camus avrebbe da aggiungere qualche tonnellata di critica, ma non essendo presente, ci limitiamo a parlare di ciò che conosciamo.

Foto di Walker Evans
Walker Evans – No Title 1936
Dipinto di Camille Corot
Camille Corot – Il Colosseo 1826

“Riabilitazione del quotidiano”. Teorizzazione apocalittica sul principio di una diversa visione della realtà. Back to Evans. Nell’opera “Common Tool”, Evans mostra scatti di martelli, pinze, viti, chiodi.

Foto di Walker Evans
Walker Evans - Common Tools 1955

Negli scatti degli anni ’20, le immagine del ponte di Brooklyn, non mostrano il ponte come esempio di grande ingegneria/architettura, qualità estetica assoluta. Del ponte, Evans ci mostra i tiranti in acciaio, i bulloni a grandezza umana, la recinzione pensata per evitare incidenti di percorso. Ogni dettaglio è mostrato, ingrandito, trasformato. Ogni “dettaglio” è riabilitato, ricontestualizzato, evidenziato. Siamo di fronte a quella “riabilitazione del quotidiano”, che abbiamo trovato in Corot, nella cattedrale nascosta, come nella veduta del Colosseo, osservabile da un punto di vista ribaltato, disconnesso, dal quale l’enorme struttura si intravede, del tutto intercambiabile con qualsiasi altra architettura. Deve esserci una motivazione se ogni cosa porta a Cezanne. A proposito del quale, in una serie di epistole alla moglie, Rilke scrive:”come ho potuto rimanere cieco così a lungo, ed ora, finalmente vedere”. Rilke aveva assistito alla retrospettiva del 1907 a Parigi , dedicata a Cezanne. Il pittore della Saint Victoire, gli insegna a vedere da una finestra così segreta, una sorta di spazio virtuale, precursore della Cloud di Jobs, alla quale si ha accesso solo se forniti del codice esatto, a prova di hacker. Così, Evans-Corot ci mostrano ciò che non avremmo mai potuto conoscere. Abbattono su di noi la dimensione quotidiana come primo ed ultimo spazio in cui è possibile “vedere” con lenti e filtri non ancora in vendita.

Foto di Walker Evans
Walker Evans – Brooklyn Bridge 1929

Soundtrack article: Andrew Weatherall & Ivan Smagghe – Live at the Twelve day of Tbar, London, 9/12/2009.