
© Valentino Albini
Valentino Albini è un fotografo che da molti anni si dedica anche al collage in tecnica mista. La materia prima sono le pagine delle riviste, che vengono rielaborate in modo estremamente vario: abrasioni, aggiunta di elementi eterogenei, scolorimenti, inchiostri, e via dicendo.
Personalmente sono sempre stato interessato ai lavori che si pongono alla frontiera fra più arti visive, o che utilizzano la fotografia come base di partenza, come elemento di un processo creativo di più ampio respiro. Il risultato di Valentino Albini certo è lontanissimo dalle fotografie di partenza, fotografie che molto probabilmente sono passate attraverso innumerevoli vicissitudini e ritocchi addirittura prima di esser stampate sulle pagine di una rivista, per poi finire fra le mani di Valentino Albini e passare uno stadio di trasformazione ancora più radicale, venir reinventate completamente, creando il mondo poetico e sognante di Valentino Albini.
Invece di discutere unicamente di fotografia, ecco un’intervista dedicata soprattutto ai suoi collage.
Fabiano Busdraghi: Come hai iniziato a fotografare? Quale è la tua storia di fotografo?
Valentino Albini: Non so sinceramente quando ho iniziato, l’unica cosa che posso dirti a 50 anni appena compiuti è che non sono nemmeno a metà strada. Già da piccolo a sei/sette anni facevo preoccupare i miei genitori per come andavo in trance davanti alle immagini della televisione… e ti parlo di quella in bianco e nero che avevano in pochi a Reggio Calabria dove sono nato e vissuto fino a 9 anni. Avevo costretto i miei genitori a comprarla perché quando andavo dalla nonna, dall’altra parte della strada, dovevano venirmi a recuperare perché mi aggrappavo alla ringhiera della finestra al piano terreno per vedere la TV della vicina, e dimenticavo la nonna.

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Fabiano Busdraghi: Che cosa rappresenta per te la fotografia?
Valentino Albini: Non ho mai pensato che la fotografia sia in debito con me. Ho sempre creduto di esserne semplicemente un mezzo, uno strumento più o meno efficace che ha scelto per mostrarsi, per vivere una vita propria… nonostante me. Perciò mi reputo fortunato e onorato per questo.
Tutto ciò che ho fotografato e fotografo non sono io a sceglierlo completamente, credo che siano le “cose” a permettermi o meno di rappresentarle attraverso la fotocamera o gli altri mezzi espressivi che uso. A volte la sintonia con esse, con i segni, con la luce, con la materia è totale e allora anche le mie immagini mi sorprendono e io amo essere sorpreso. Quando invece non accade, allora significa che non sono in grado di leggere con gli occhi e con il cuore ciò che mi viene svelato o peggio… che nulla mi viene mostrato.
Fabiano Busdraghi: Come abbiamo visto in “Fotografia e verità” spesso si sente dire, di fronte ad una fotografia manipolata, ritoccata al computer o cui sono stati fatti degli interventi esterni “Ma questa non è fotografia”. Il problema è che è estremamente difficile definire che cosa sia la fotografia.

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Credo che sarebbe meglio allora smettere di chiedersi se un’immagine è fotografica o meno, perché la domanda è mal posta, a causa della natura intrinsecamente ibrida della fotografia e la risposta impossibile a darsi. Forse sarebbe opportuno chiedersi come produrre immagini belle e interessanti, senza insistere troppo sulla loro natura ontologica.
Ecco perché i tuoi collage sono in linea con i contenuti di Camera Obscura. Per quanto mi riguarda, anche se l’immagine fotografica è soltanto una base di partenza, queste immagini fanno sempre parte di quel grande universo cui appartengono le fotografie “dirette”. Semplicemente ti poni al limite fra ciò che comunemente è percepito come fotografia tradizionale e, diciamo, arte visiva pura. Attualmente sono sempre più numerosi i lavori di questo tipo, i livari che esplorano le frontiere fra mondi solo apparentemente diversi. Un universo ancora in buona parte da esplorare e che mi interessa particolarmente.

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Sei d’accordo con questa visione delle cose? Oppure percepisci i tuoi collage come profondamente diversi dai tuoi lavori più puramente fotografici? Come viene percepito questo punto dai tuoi interlocutori?
Valentino Albini: Sono assolutamente d’accordo Fabiano.
Quando tu dici che forse sarebbe opportuno chiedersi come produrre immagini belle e interessanti hai ragione e io aggiungerei che più di ogni altra cosa devono essere “proprie”, frutto di una ricerca interiore e della titolarità di un linguaggio individuale. La mia produzione di immagini personali non è mai stata solo un esercizio estetico o un atto di piaggeria verso il mondo più o meno vasto a cui è stato e sarà permesso di vedere.
Ho però constatato che ci sono due modalità di approccio, la prima è rappresentata da chi desidera sentirsi accreditato come fotografo quindi sente di dover delimitare i confini nella quale il suo lavoro deve essere riconoscibile e riconosciuto, la seconda a cui appartengo io non si definisce e si svincola dallo strumento utilizzato.
Anche io come te da molti anni ritengo superato il problema digitale/analogico, non ha senso ormai come abbiamo scritto sopra perdere tempo a discutere degli strumenti se questo ci distrae dai contenuti.
C’è un passo (che cito di seguito con umiltà) in un piccolo libricino, che ho letto e porto sempre con me per poterlo rileggere in continuazione che si intitola “Lo sguardo oscillante oltre l’occhio fotografico” di Luciano Eletti che credo sia fondamentale per capire la ricchezza di un approccio più intimo e più profondo con il mondo della rappresentazione visiva: “…Se il vedere è un pensare implicito e per lo più inconsapevole, l’immagine fotografica è un modo di pensare, un vedere carico di pensiero…”

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Non c’è altro da dire in merito a mio parere sulla natura della fotografia.
Per quanto riguarda alcuni dei i miei lavori più figurativi in tecnica mista è naturale e giusto che non vengano percepiti come “fotografia”, perché essa è solo una delle componenti che il gesto artistico alla base della loro produzione coinvolge direttamente. Il mio soggetto non è l’immagine fotografica in se ma la pagina della rivista che la contiene, il contenitore con le sue valorialità di materia, comunicazione e concetto del tempo.

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Fabiano Busdraghi: La maggior parte delle tue immagini sono accompagnate da un titolo. Non il classico “paola01” “uomo e cane” ma frasi lunghe, articolate, fantasiose, poetiche, citazioni, epiteti sorprendenti, parole visionarie e sibilline. Devo dire che la maggior parte dei tuoi titoli sono veramente azzeccatissimi, e a mio gusto aggiungono una interessante dimensione aggiuntiva all’immagine, diventando parte integrante di questa. Addirittura presenti spesso i tuoi lavori con una cornice sulla quale è scritto a grosse lettere il titolo. Da dove viene questa esigenza di aggiungere la parola all’immagine? Quanto è importante l’una e l’altra? I titoli sono una chiave di lettura o aggiungono al contrario domande al mistero dell’immagine? Come viene recepita questa tua scelta?

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Valentino Albini: Si hai ragione, è una mia personale convinzione metodologica la dichiarazione letterale di quanto i miei sogni e i miei incubi mi suggeriscono riguardo a ciò che mi è stato permesso di vedere e di tradurre in immagine.
Questo però non significa porre una interpretazione univoca, dare un’unica chiave di lettura anzi, proprio come dici tu, spero aggiungano domande invece che offrire risposte. Io credo che l’arte sia più grande degli artisti stessi, quindi quanto è visibile per me in un’opera può essere invisibile per altri e viceversa, posso essere stato io stesso ad aver messo inconsciamente segni a me impercettibili ma che fanno parte del mio modo di esprimermi.
Attribuendo un titolo ad una mia opera scelgo di indicare una via che ho visto io senza però impedire che altre strade possano essere scorte e percorse da altre sensibilità. Quando accade significa che più vasto è il segno che il mio lavoro è riuscito a tracciare e più grande è la mappa che io stesso credevo di aver disegnato.

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Fabiano Busdraghi: Osservando le tue immagini mi sembra di poter dire che la fruizione si fa soprattutto su un piano emotivo diretto. Sono poetiche, toccanti, semplici ed essenziali, direttamente comprensibili e questa è una cosa che mi piace molto, perché personalmente sono un po’ in conflitto con l’arte concettuale pura che ha imperato durante gli ultimi decenni. Il concetto naturalmente è essenziale, una motivazione forte, ma credo che le fotografie non debbano chiudersi nell’incomunicabilità del cerebrale puro. Sei d’accordo? Cosa pensi di questo argomento?
Valentino Albini: Hai colto bene il senso dei miei lavori, la mia storia, le mie radici, il mio linguaggio primario appartengono al figurativo. Ho cominciato nella mia stanzetta a ritagliare figure e sfondi che riassemblati diventavano nuove, scoprivo e creavo nuovi mondi da materia che apparteneva ad altro e questo destrutturare e ricreare mi ha sempre affascinato.

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Le pagine delle pubblicazioni che uso desidero cambino la loro mappatura originale basata sulle significazioni e sul tempo di durata del messaggio, in altri termini trasformo ciò che era destinato a comunicare un messaggio preciso (pubblicitario o documentaristico) e per un tempo preciso (la permanenza settimanale o mensile in edicola) in un segno che trascenda da queste caratteristiche principali che ne hanno motivato la creazione. Il mio lavoro si basa sulla trasfigurazione, sul cambiamento di quanto avviene sotto le mie mani e i miei occhi. Gli inchiostri tipografici si mescolano, la materia che consumo muta aspetto, cambio gli indirizzi, il basso diventa alto e viceversa, ciò che era a sinistra non è detto che lì rimanga, modifico i punti cardinali e una nuova strada si apre. A volte come per le mie immagini fotografiche le opere nascono da progetti precisi, a volte sono esse stesse che si rivelano attraverso me. Mi interessano i cambiamenti che avvengono nella materia, a ciò che accade alla carta che tratto e che coloro e non necessariamente all’immagine che vi era contenuta, una sorta di alchimia rigeneratrice, un accesso alla rinascita piuttosto che alla clonazione dell’oggetto dei desideri.

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Anche la mia fotografia oltre che i collage e le opere in tecnica mista appartengono al linguaggio metaforico, al ciò che è visibile ma che assume significati diversi a seconda di come i suoi componenti sono enunciati. La mia è un’arte meticcia senza determinazioni o confini, non amo le scatole ben ordinate sugli scaffali con le etichette che ne precisano il contenuto.
Per quanto riguarda l’incomunicabilità del concettuale posso solo dirti che lo ritengo un argomento molto spinoso, per comprenderlo veramente bisognerebbe avere una cultura vastissima e oggettiva, scevra da ogni personalizzazione che si traduca in facili e banali dichiarazioni sul mi piace/non mi piace. Ci sono artisti che hanno nel concettuale l’unica forma originale di espressione artistica e il non comprenderli è un mio torto non il loro, ci sono altri che invece usano il concettuale come maschera per il nulla …perciò credo proprio non sia argomento semplice e io personalmente non mi sento in grado di affrontarlo, posso solo cercare di avvicinarmi per tentare di comprenderlo.

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Fabiano Busdraghi: Ho conosciuto e stimato i tuoi primi collage, dall’aspetto surreale ma ancora fotografico e realistico, come per esempio in Il vento non torma mai indietro a cogliere ciò che ha disperso. Col tempo le tue opere sono evolute, le tue prime immagini mi sembrano più vicine a delle visioni, quelle recenti più vicini al sogno e al ricordo. La materia del collage è più elaborata, siamo molto più lontani dal fotorealismo. Puoi dire due parole a proposito di questa evoluzione?
Valentino Albini: Mi sto staccando sempre più dal figurativo per concentrarmi sull’essenza del mio lavoro cioè trasformare la materia primaria del contenitore (la pagina della rivista) inserendogli altri e nuovi contenuti (con la miscelazione degli inchiostri, con l’abrasione, ecc.).
Vorrei fosse ben chiaro a chi le guarda su internet e non dal vero che le mie opere non sono fotomontaggi ma collage in tecnica mista, sopratutto in questo periodo più maturo della mia vita e del mio linguaggio artistico.

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Fabiano Busdraghi: Tutti i fotografi hanno delle “foto non fatte”. Immagini che per limiti tecnici, lentezza, mancanza di materiale adeguato, errori non vengono scattate, e sono perse per sempre. A volte anche per scelta, si vede la fotografia ma si preferisce lasciare la macchina fra le mani, e guardare solo con gli occhi per godersi appieno la realtà. Personalmente mi affeziono spesso a delle “foto non fatte”, diventano un piacevole ricordo alla stregua di quelle vere. Ci puoi raccontare una tua “foto non fatta”?
Valentino Albini: Quanti megabyte hai a disposizione per la risposta? A parte gli scherzi di immagini mnemoniche è piena la mia vita e lì probabilmente devono restare.
Posso però dirti che tanti anni fa in macchina guardando fuori dal finestrino ho visto un’immagine nitida, precisa…mia. Non guidavo io quindi il viaggio ha continuato e anche la mia mente riviveva in perpetuo ciò che avevo visto. Dopo una decina di chilometri non ho più resistito e ho chiesto di tornare indietro. Ho fatto la foto e una volta sviluppata e stampata era lei. Era esattamente ciò che avevo visto, era ciò che mi era stato permesso di vedere e che si era irresistibilmente inciso sulla mia retina.

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Fabiano Busdraghi: La storia invece di una delle immagini che accompagnano l’intervista.
Valentino Albini: “Il peso di questo fardello laverà i vostri peccati” è un’opera a cui sono molto legato perché da anni prima ancora di questo odierno uso strumentale della violenza sulle donne ho voluto tradurre con la mia arte ciò che da uomo ritenevo di dover comunicare. Il mio grande disagio verso l’approccio machista che la società ha sempre inculcato nei maschi. Ho ritenuto di dover dichiarare che sono perfettamente cosciente che le donne portano questo fardello al posto nostro perché gli uomini non vogliono prenderne coscienza. Infatti ho accompagnato la mia opera con questa frase: “Non posso scusarmi a nome dei miei simili, ma posso farlo con la mia arte. In onore di tutte le donne che nel mondo, portano il peso dell’imbecillità maschile. Violentate, uccise per un rifiuto, costrette a coprirsi con veli di stoffa o di ipocrisia”.

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Fabiano Busdraghi: Come si concilia il lavoro di fotografo professionista con i propri lavori personali? Vivi ogni lavoro come espressione pura della tua creatività, oppure le commissioni implicano un compromesso troppo pesante? In che termini si pone il lavoro di fotografo pubblicitario vis-à-vis della tua passione personale per la fotografia?
Valentino Albini: Oggi mi occupo professionalmente di grafica e fotografia archeologica ma sono stato per molti anni fotografo pubblicitario e sempre la creatività è stata messa in gioco, a volte completamente perché anche il layout era mio, altre volte la creatività era nella la scelta dell’illuminazione, delle tonalità cromatiche e così via. Posso dire che non ci sono mai state fotografie dove la mia creatività per quanto in misura marginale non sia stata coinvolta. E’ ovvio che nei miei lavori personali invece tutto è messo in gioco ma con il rigore e la conoscenza che la mia professione mi permette, quindi come vedi anche qui le cose si mescolano come sempre.

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Fabiano Busdraghi: Insegni anche fotografia all’univeristà. Che rapporto hai con l’insegnamento?
Valentino Albini: Ho insegnato per tanti anni all’Istituto Europeo di Design di Milano e per molte altre istituzioni pubbliche e private compresa di recente l’Università degli Studi di Milano e l’insegnamento è stata ed è una delle più belle esperienze che mi siano mai capitate. Insegnare è uno scambio ma deve essere fatto con grande generosità, non è soltanto ciò che sai che viene messo sul tavolo ma una parte importante è anche ciò che da te gli allievi possono e devono rubare. Devi lasciare tutte le porte aperte, devi far vivere in loro attraverso ogni tua parola, che sia essa una tecnica di ripresa o di comunicazione, l’entusiasmo e la conoscenza che ti motivano a stare li. Ho sempre cercato di insegnare ai miei allevi a vivere alla frontiera perché è là che succedono le cose. Li ho sempre spinti a viaggiare accanto al finestrino e sotto la maniglia del freno di emergenza, sempre pronti a tirarlo per scendere ogni qualvolta si senta il desiderio di farlo, in ogni viaggio sono più importanti le fermate della stazione di arrivo.

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Fabiano Busdraghi: Un fotografo di cui ami particolarmente il lavoro e perché.
Valentino Albini: Sono tanti i fotografi che amo e ho amato e mi è difficile risponderti senza fare una lista chilometrica. Ognuno di essi mi ha sorpreso, attirato, coinvolto e per questo il loro lavoro è anche diventato parte di me. I fotografi che hanno avuto grande importanza sulla mia crescita appartengono agli anni 70/80: Helmut Newton, Richard Avedon, Giovanni Gastel, Herb Ritts, Paolo Gioli, Gianpaolo Barbieri, Aldo Fallai… Sono quasi tutti fotografi di moda e io ne ho fatta pochissima, è stato il loro modo di usare la fotografia che mi ha guidato.
Uno solo però lo ritengo un Maestro immortale: Mario Giacomelli.
La sua fotografia è come una macchina del tempo, riesce a non fermarsi a quanto ha ripreso in quella frazione di secondo ma ti proietta nel futuro di quanto accadrà ma di cui lui non sarà testimone. Prendi ad esempio i suoi scatti più famosi: “Io non ho mani che mi accarezzino il volto” oppure “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, un lavoro fotografico che è capace di mostrarti un momento e contemporaneamente di spalancarti la porta su quanto avverrà dopo quel fugace scatto dell’otturatore che si apre e si chiude è straordinario. Io ogni volta che lo vedo ho i brividi. Questa è secondo me pura poesia.
Fabiano Busdraghi: Quale libro stai leggendo in questo momento? Che musica ascolti? Qualche film amato?
Valentino Albini: Il libro che sto leggendo ora si intitola…veramente sono due e tutti e due trattano il mondo dell’arte: “Processo All’arte” di Stanislas Fumet e “Arte e produzione” di Pierre Restnay.
Per la musica spazio dall’Hi Pop al Rock ma Carlos Santana è il mio preferito per come sa fare piangere di dolore o di nostalgia la sua chitarra.
I film che amo sono troppi e per sembrare vecchio e scontato citerò Blade Runner e per cercare di apparire più contemporaneo: Moulin Rouge di Baz Luhrmann.

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Fabiano Busdraghi: Su cosa stai lavorando in questo momento? Come si differenzia rispetto ai tuoi lavori precedenti? Hai qualche progetto per il futuro che non hai ancora iniziato?
Valentino Albini: Al momento sto lavorando ad un unico progetto che coinvolge però diversi linguaggi e che posso dire legati alla conquista di un unico obiettivo che mi sono posto cioè una maggiore “consapevolezza”.
Questa definizione può sembrarti enigmatica e ambigua, o forse banale ma in realtà è ciò su cui sto lavorando adesso, prima su di me e poi attraverso le mie opere di questo periodo.
Quando scrivo “maggiore consapevolezza” intendo la comprensione cosciente del gesto artistico in quanto parte imprescindibile dell’opera tanto quanto i contenuti stessi. Il supposto che meglio veicoli i contenuti del mio sentire e la traduzione in segni che ne rappresentino il mio linguaggio artistico e personale.
mi sono permessa di inserire in un post del mio blog uno dei suoi meravigliosi collage, ovviamente citando la fonte e le caratteristiche dell’opera.
Spero di averle fatto cosa gradita, in caso contrario provvedeò a togliere l’immagine senza problemi.
L’indirizzo è il seguente, ed il post sarà visibile dal 10 luglio 2010.
La ringrazio e la saluto
great.star
Valentino è un grande e le sue cose bellissime. Confesso di esser già stato su questa pagina e probabilmente ci tornerò, dunque grazie anche a Fabiano
Questo è esattamente quello che cerco di fare con CO-mag. Non mi piace il consumismo culturale che va per la maggiore, la frenesia della novità, visitare sempre contenuti nuovi, senza mai soffermarsi più di tanto. Credo sia importante creare dei punti di riferimenti, delle pagine sui cui si abbia voglia di tornare.
Ciao Damiano, Sono onorato per la stima che contraccambio con molto piacere.
Ciao Fabiano,Se le esigue tracce sulla sabbia del tempo che lasciamo dietro di noi scomparissero con le maree non avremmo speranza di sopravvivere alla memoria. Grazie per quello che fai
Valentino
Caro Valentino, alla fine anche se ci vediamo spesso un legame rimane, come dici te. E poi mi sa che tornerò presto in Italia, quindi sarà più facile rincontrarsi di nuovo. Se poi vogliamo fare uno scambio virtuale, ricorda che queste pagine sono sempre a tua disposizione per condividere i tuoi pensieri e i tuoi bellissimi lavori.
A presto e un grande abbraccio
Fabiano
Sono arrivata qui per puro caso perché cercavo vocaboli italiani per tradurre l’espressione inglese “altered photographs” e ho trovato questa interessantissima intervista con un grande artista. Non solo ho trovato della terminologia che mi è utile, ma adesso voglio anche leggere (o rileggere) qualcosa di Saffo!
La cosa che più mi ha colpito è che uno dei lavori di Valentino Albini si intitola “Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi”. Per moltissimi anni ho vissuto a San Francisco dove c’era una casa la cui facciata di due piani era completamente dipinta con questa frase. Purtroppo un giorno il dipinto è sparito, forse ad opera di nuovi proprietari.
Grazie per una piacevolissima lettura.
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