Antonioni Chung Kuo

Da alcuni giorni a Parigi fa caldo, ma il cielo rimane velato e grigio, la foschia a tratti si addensa in nuvoloni grigi e sembra minacci di piovere. Ho accettato con piacere allora quando ieri pomeriggio un amico mi ha proposto di andare a vedere al Champo un documentario sulla Cina di Michelangelo Antonioni: Chung Kuo, Cina.

Michelangelo Antonioni è l’autore di Blow-up uno dei miei film preferiti e la Cina è una delle mie grandi passioni attuali, quindi non potevo assolutamente lasciar passare un’occasione come questa.

Le aspettative infatti non sono state assolutamente tradite. È vero che il documentario è molto lungo, in totale più di tre ore e mezza, e alcune parti -a mio vedere soprattutto quelle nelle scuole- sono un po’ lente. È necessario quindi armarsi di un pizzico di pazienza se si vuole vederlo tutto di un fiato. Ma a parte questo, per il resto devo dire che su tutti i fronti è un entusiastico pollice in su.

Innanzitutto salta agli occhi una caratteristica che, in quanto fotografo, ho apprezzato particolarmente: il film è straordinariamente vicino alla fotografia, mostrando bene come cinema e immagine fissa siano cugini veramente stretti. E per giunta un tipo di fotografia molto vicino a quella che amo. Il film infatti è molto diverso ad altri documentari, come per esempio quelli che ho recentemente visto sulla Cina (vedi La fotografia nei documentari di Hu Jie). In questi ultimi viene costruita una vera e propria storia, principalmente tramite le interviste ai testimoni oculari dei fatti, alle esperienze in prima persona, e viene data molta importanza alla correttezza delle informazioni, a stabilire la realtà e la verità storica.

Antonioni Chung Kuo

Chung Kuo, è certamente un documentario, ma l’oggettività pura mi pare scivoli in secondo piano piano. A parte il fatto che non è chiaro quanto appartenga alla Cina autentica e quanto sia stato preparato e servito dal regime su di un vassoio apposta perché venga filmato, si ha comunque la forte impressione che Michelangelo Antonioni e la sua troupe passeggino per la Cina di allora a caccia di immagini, di impressioni, di storie certo, ma di storie che sono soprattutto il riflesso dei propri pensieri negli occhi delle centinaia di cinesi incrociati, storie che sono più gli appunti e i ricordi del viaggiatore, lo stupore di fronte a tanta umanità sconosciuta, a tanta vita, così varia e diversa. Approccio questo vicinissimo alla fotografia di strada, alla ricerca di chi prende una macchina fotografica e va in giro a cercare i propri aggregati di senso nel caos che lo circonda. Le persone del film poi non parlano quasi mai con il regista, non ci sono mai interviste. Le sequenze sono in generale accompagnate da una voce fuori campo, ma le spiegazioni e i commenti non compongono assolutamente la vera trama dell’opera. Spesso la voce tace, lascia che le immagini proseguano da sole per decine di minuti, i filmati evolvono, si sentono solo i suoni delle città. A parte la componente temporale aggiuntiva, mi pare veramente si possa dire che in questo caso tutto ciò avvicini tantissimo il cinema fotografia vera e propria.

La fotografia del film poi è francamente splendida. Certo, i soggetti sono interessanti e pittoreschi, questa poi è una delle poche testimonianze della Cina all’apice della rivoluzione culturale, ma la maniera di filmare è veramente quella di un maestro. Tantissime numerosissime sequenze sono piccole, magnifiche fotografie animate, in cui si ritrova per certi versi una certa Cina che somiglia a quella fotografata in seguito da Yann Layma. I tantissimi volti estremamente espressivi delle persone che riempono le strade, l’allegra confusione di giunche e navi nel porto di Shanghai, con la sua umanità affollata sugli scafi di mille imbarcazioni, le fabbriche dai macchinari assordanti che sono i perfetti precursori di quelle viste nel film di Burtynsky, il vecchio pechinese che incredibilmente riesce a fare i suoi esercizi di Tai Chi mentre pedala sulla sua bicicletta, le bellissime ragazze che sembrano tutte avere la pelle liscia e perfetta, i capelli annodati nelle due classiche trecce e sembrano essere tutte giovanissime (la voce fuori campo ci informa in seguito che la metà della popolazione cinese ha meno di vent’anni) splendide ragazze sulle quali Antonioni indugia numerose volte, i bei campi coltivati di Henan con i suoi lunghi canali, il fiume che si perde nel cielo rosa dietro all’imponente ponte di Nanchino…

Antonioni Chung Kuo

Piccolo dettaglio tecnico: i colori pastello e un po’ irreali delle vecchie pellicole, mai soprasaturi, con le ombre bluastre aperte e solo di rado veramente dense, le alte luci quasi mai bianche, i cieli grigi, e quella caratteristica curva di contrasto che ne danno il sapore tutto particolare, sono veramente magnifici. Sarà che risvegliano una certa malinconia nostalgica per gli anni 70, sarà che sanno di vecchio e di ciò che non ci sarà più, ma viene veramente voglia di fare fotografie con esattamente quella resa cromatica. Altro che inseguire la fedeltà dei colori, la gamma tonale più ampia possibile e il grano più fine. Purtroppo gli still che accompagnano questo articolo non possono assolutamente rendere giustizia alla bellezza del film, vista l’eccessiva compressione dvix.

Al di là delle considerazioni strettamente fotografiche Chung Kuo di Michelangelo Antonioni è veramente un film che vale la pena vedere. Sicuramente “le guide” avranno convogliato la troupe su percorsi il più possibile prestabiliti e controllati, cercando di dare un’immagine precostituita ed epurata della “nuova Cina”, a volte poi sembra quasi di sentire emergere una punta di pregiudizi italiani nei confronti dell’Asia, quindi è naturale chiedersi quanto sia naturale e oggettiva questa testimonianza. Nonostante questo le storie raccontate e le persone ritratte sono spesso toccanti, costituendo un film colmo di fascino e umanità. Inoltre Michelangelo Antonioni fa spesso prova di grande umiltà, come quando nel ristorante dice “Non è facile accettare l’idea che i cinesi abbiano inventato tutto, anche le fettuccine”. Oppure durante la visita al villaggio che non era preparato, dove nessuno aveva mai visto un occidentale prima, e la telecamera passa da un volto all’altro, visi che sembrano svuotati da ogni sentimento, se non quello della diffidenza. E Antonioni dice:

Presto ci accorgiamo che gli stranieri, i diversi, siamo noi. Al di qua della macchina da presa, restiamo per loro come degli oggetti sconosciuti e forse per loro anche un po’ ridicoli. È un colpo duro per il nostro orgoglio di europei. Per un quarto dell’umanità siamo così sconosciuti da incutere timore. I nostri occhi sono tondi, i capelli ricci, i nasi lunghi e ossuti, la pelle è sbiadita, i gesti stravaganti, la foggia dei vestiti goffa.

Insomma, un altro titolo da aggiungere alla lista degli imperdibili, per chi si interessa alla Cina e alla storia, ma soprattutto per tutti quelli che amano la bella fotografia. In Chung Kuo di Michelangelo Antonioni ce ne è veramente tantissima.