Fotografia di Mauro Baldassarri
© Mauro Baldassarri

Testo e foto di Mauro Baldassarri.

 

Polaroid. Tutto si fa passato così in fretta che io faccio il revival di ieri.

Così cantava nel 1986 Davide Riondino riferendosi a una tecnologia fotografica che a metà degli anni ’80 del secolo scorso poteva ancora a buon diritto dirsi attuale.

“Scatta e rivedi”: l’evoluzione del “voi premete il pulsante e al resto pensiamo noi” di Mr. Eastman cui è stato azzerato il fattore T. Il Tempo, che intercorre fra lo scatto e la visione del risultato finale.

La fotografia entra così nell’era della velocità, della sincronicità.

Le fotografie monumentali, realizzate negli studi, in posa, con l’abito della domenica, avevano già perso la loro sacralità travolte dalla rivoluzione del “rullino” e, prima ancora, da quella della Kodak, ma è il “pack” di Edwin H. Land a proiettare lo scatto dell’otturatore nella contemporaneità.

Con lo sviluppo istantaneo si completa anche il percorso di avvicinamento delle masse alla fotografia, liberata ora anche dall’ultimo ostacolo tecnico che si frapponeva tra lo scatto e la fruizione dell’immagine: lo sviluppo e la stampa. Allo stesso tempo però si compie anche il definitivo allontanamento della fotografia dal “lavoro” del fotografo, funzionale (anche) a determinarne il “valore”.

La cesura più radicale avviene però nei confronti del Tempo, per contrastare l’erosione del quale la fotografia (che “val più di mille parole”) si era alacremente adoperata. Produrre immagini fotografiche, prima ancora di essere Arte, è stata funzione di sostegno al ricordo, alla documentazione, al sentimento: strumento di resistenza allo scorrere del tempo, che cancella la memoria. Rivedere le fotografie era atto diacronico, che si compiva solo a distanza (di tempo, e di spazio): occorreva il tempo tecnico per le operazioni di sviluppo e stampa prima di vedere le immagini prodotte e quindi, sicuramente, sarebbero state viste “altrove” rispetto a dove erano state scattate. Rivedere le immagini diventava quindi anche rinforzo (della memoria, degli affetti).

L’azzeramento del Tempo muta sostanzialmente la prospettiva. Con la Polaroid tutto si fa passato così in fretta. Basta un “click”. Pochi istanti e “l’Istante” appena trascorso è già storicizzato sul quadratino dal bordo bianco, pronto a essere rivissuto, appunto, istantaneamente. Pronto a essere rievocato (forse) nelle ore successive e a essere archiviato (talvolta), insieme agli altri “monumenti” fotografici. Magari per ricomparire, decontestualizzato, dopo qualche anno.

Dopo la Polaroid continua, ora, a bastare un “click”. L’i-coso di turno registra fedelmente il nostro istante in una sequenza di zero e di uno per metterlo immediatamente in condivisione su LCD con chi dell’istante ha partecipato e, poco dopo, con il resto del mondo in rete sociale.
Un click, pallido residuato acustico di un passato elettromeccanico, al quale la contemporaneità digitale si aggrappa alla ricerca di un’identità riconoscibile (pensiamo a quanto ci sembra innaturale non sentire il suono dell’otturatore, al punto che è riprodotto artificialmente nelle compatte).

Tempo, memoria, identità: azzerato il tempo, non serve più l’immagine come rinforzo del ricordo e del sentimento. Cessa quasi anche di essere documento, che in quanto tale è prodotto, prova obiettiva, di un’attività “altra” da quella di conservazione della memoria. Meno che mai è monumento, caratterizzato dalla forte intenzionalità di essere strumento del ricordo e della celebrazione, da tramandare nel tempo futuro.

Elevato all’istantaneo, prima, e al digitale, dopo, l’atto di scattare fotografie si trasforma culturalmente: si fa contemporaneità, compresenza, sincronicità, superandosi, cioè potenziandosi, anche sul fronte della sacralizzazione dei fatti cui la macchina fotografica partecipa attivamente rendendoli “eventi”.
Bastava che in una circostanza data fosse presente una fotocamera per scatenare quella “comune reazione sociale alla presenza della macchina fotografica” che Ortoleva ha ben spiegato. Adesso in ogni momento siamo circondati da obiettivi; ogni istante, o quasi, dell’esistenza è fissato o fissabile. Ogni istante diventa Evento; e ogni evento lascia dietro di sé una scia di immagini.

Le fotografie “presenza feticcio del XX secolo” e “miglior surrogato della presenza reale” vengono quindi quasi a perdere la loro ragione di essere, la loro funzione di supporto, o surrogato, della memoria, sovraesposte, è il caso di dire, letteralmente da loro stesse.

Servono, invece, come rinforzo “qui e subito” dell’identità e dell’esistenza, sempre più smarrite e confuse, in costante pericolo: l’oblio è in agguato.
Siamo (non importa cosa: qui, famosi, belli, vincenti, divertenti); basta un attimo e non siamo più. E allora l’immagine deve essere veloce, a T=0, altrimenti il rinforzo non funziona, diventa memoria, ma quella interessa meno: l’esigenza è adesso.

Se siamo fortunati diventiamo revival, altrimenti ci aspetta l’oblio. Lo sappiamo, e cerchiamo di ignorarlo, ma ci facciamo i conti. E ci scattiamo fotografie.

“Facciamoci la foto” diventa così attività orizzontalizzata nel range di possibilità dell’essere, qui e ora (non tanto diversa, formalmente da “mangiamo un gelato” o “sediamoci li”). E’ facile, non bisogna aspettare per rivederla, è praticamente a costo zero ma è preziosissima nella toolbox emotiva e di straordinaria valenza esistenziale. La fotografia, istantaneità documentale, Diventa atto rassicurante del presente, ci conferma che siamo, adesso (non “eravamo”), proprio li.

E che forse, almeno per oggi, abbiamo speranza di continuare ad essere.

Domani, se tutto va bene, sarà revival.

Suggerimenti fono-bibliografici

  • D. Riondino, Polaroid, in Tango dei miracoli, 1986
  • J. Le Goff, Documento/Monumento, in Enciclopedia, Einaudi, Torino 1978, vol. V
  • P. Ortoleva, La Fotografia, in Introduzione alla storia contemporanea, La Nuova Italia, Firenze, 1984
  • E. Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, 1956 – Milano 1967 (Ed. It.)