Contributi – Camera Obscura /it A blog/magazine dedicated to photography and contemporary art Fri, 22 Jan 2016 13:24:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.5.2 Il nudo nel XXI secolo, di Paolo Romani /it/2015/nudo-paolo-romani/ /it/2015/nudo-paolo-romani/#respond Tue, 15 Sep 2015 19:48:37 +0000 /?p=9503 Related posts:
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Fotografia di Paolo Romani (4)
© Paolo Romani
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Testo e fotografie di Paolo Romani.

 

Il “punctum” attrae irrazionalmente lo spettatore per un particolare dettaglio della foto.

Il fotografo consapevole delle regole che governano la relazione fra l’ “operator” (il fotografo) e lo “spectator” (chi guarda la foto) cerca disperatamente di inserire il “punctun” per attrarre lo spettatore.

Roland Barthes in Camera chiara lo spiega, nell’indagare la differenza che esiste tra il mondo reale e la sua rappresentazione fotografica.

Questo incipit, per raccontarvi una storia curiosa e divertente che mi coinvolse quando dovevo realizzare un servizio fotografico di nudo femminile. Nella fase di “studium” incontrai in una agenzia di modelle il responsabile, per scegliere la modella adatta alle mie esigenze. Venne il giorno che dovevo realizzare gli scatti fotografici, e restai deluso da un particolare che non avevo previsto ma che era importantissimo per il lavoro che mi accingevo a realizzare.

Fotografia di Paolo Romani (2)
© Paolo Romani
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La modella era glabra, rasata, senza un pelo!

Fui molto brusco e chiusi la seduta. Il Direttore dell’agenzia mi chiamò per telefono chiedendo spiegazioni; nonostante fosse stato pagato, chiesi scusa. Era successa una cosa non prevista, per colpa mia.

La modella non aveva peli pubici, e per il mio servizio che puntava sull’erotismo, quello era importantissimo anche per il tipo e lo stile d’immagine che facevo.

Il Direttore scoppiò in una risata fragorosa, oggi sono tutte così, se vuole una modella con il pelo deve ordinarla qualche mese prima… E bla bla… ahhaahahh!!!

Così concordammo di chiedere ad un’altra modella di prepararsi per un servizio fotografico di nudo tre mesi dopo.

Fotografia di Paolo Romani (1)
© Paolo Romani
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La mia richiesta “assurda” circolò fra i fotografi e le modelle; si sapeva che c’era un fotografo “pazzo” che chissà che razza di perversione ha contratto… vuole una modella col pelo!

Un mio amico fotografo mi incontrò e ridendo mi disse tutto quello che circolava sul mio conto, ogni racconto finiva con una grande risata.

Passò circa un anno da quell’episodio, quando tutta la stampa internazionale parla di un negozio di New York che vende intimo femminile, in occasione di San Valentino ha allestito le vetrine con manichini che indossano mutandine dalle quali fuoriesce un folto pelo pubico nero.

Vetrina di American Apparel
© American Apparel
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È stata una grande idea quella del pelo pubico!

Del resto anche Gustave Courbet nel lontano 1886 quando dipinse ” l’origine del mondo ” fece scandalo, non per il primo piano dei genitali femminili, ma perché li riprodusse nello stile iperrealista con una selva di peli pubici neri. Fino a quel momento parlarne o rappresentarlo era considerata pornografia. Poi la guerra del pelo continuò fra Guccione e Hugh Hefner; il primo introdusse il nudo con pelo lussureggiante e surclassò le vendite di Play Boy.

Alla fine riuscii a fare il servizio fotografico, ma quando la modella mi fece domande sull’argomento, le raccontai la vita com’era nel dopo guerra.

Fotografia di paolo Romani
© Paolo Romani
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Negli anni del dopo guerra, ricordo che noi andavamo al mare con costumi di lana, uomini e donne, e tutto andava bene finché non si decideva di fare il bagno, il costume con l’acqua si allungava e allargava, e quando uscivamo dall’acqua dal costume uscivano due baffi di peli pubici. La gente non usava ne profumi, ne creme, e tutti avevamo un odore di selvatico, l’arrapamento continuo ci ha permesso di ripopolare l’Italia.

Ora una bella fica depilata, profumata, elegante non ha più niente di umano, non ci fa arrapare, inoltre i profumi, anche i più costosi, ci ha tolto anche il gusto di un bel piatto di pasta all’amatriciana, perché se ci capita vicino al nostro tavolo una donna troppo profumata ci toglie anche quel piacere. E come tutte le storie che si rispettano c’è anche una morale : “semo nati pè tribolà, noi ce semo riusciti ! Che ce lamentamo affà?”.

Fotografia di Paolo Romani (3)
© Paolo Romani
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L’elettronica, il computer e la fotografia del XXI Secolo, di Paolo Romani /it/2015/paolo-romani/ /it/2015/paolo-romani/#respond Thu, 28 May 2015 19:51:11 +0000 /?p=9368 Related posts:
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Fotografia di Paolo Romani (1)
© Paolo Romani
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Testo e fotografie di Paolo Romani.

 

L’intervista dell’Huffington Post del 13 Febbraio del 2015 al Dottor Vinton Cerf, che è uno dei padri di Internet, e vicepresidente di Google inizia con il titolo:

Dietro di noi un deserto digitale, un altro Medioevo. Se tenete a una foto, stampatela.

Tutti i software, ogni giorno vengono migliorati, e tutti i documenti archiviati con i programmi di oggi, saranno obsoleti domani, e rischiano di essere inaccessibili; e questo buco, Vint lo chiama “deserto digitale” per la “putrefazione dei bit”.

Fotografia di Paolo Romani (4)
© Paolo Romani
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Oggi, ora, subito, bisogna iniziare ad operare alla preservazione dei documenti che abbiamo archiviato in digitale. La via tracciata è quella di stampare su carta tutto quello che reputiamo importante per noi.

Il grido è : fate copie fisiche! stampate tutto!

Quando agli inizi della fotografia a colori, l’elettronica non era ancora ai livelli di oggi, le immagini che portavamo ai laboratori venivano stampate con macchinari costosi ma non ancora perfetti, capii che le stampe non erano fatte bene, ma nessuno aveva l’autonomia né l’autorevolezza, di criticare i risultati dei laboratori che sfornavano tonnellate di immagini stampate a colori tutte sballate.

Per una stampa a colori fatta da un laboratorio negli Stati Uniti, che ritenevo una bella fotografia a colori, rientrato in Italia, chiesi ad un laboratorio di Roma un ingrandimento, e mi venne restituita una immagine irriconoscibile. Il mio fotografo vide la foto a colori fatta negli USA, e chiamò il laboratorio, che insisteva nel dire che lui operava con un macchinario elettronico molto costoso, e che se la foto era così, la colpa era del fotografo che aveva fatto una brutta fotografia, rifiutandosi di sentire altre motivazioni.

Fotografia di Paolo Romani (5)
© Paolo Romani
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Quel colloquio fra il negoziante fotografo e l’operatore del laboratorio mi aveva fatto intuire che sul colore non ci capiva niente nessuno. E nel 1978 iniziai a stampare il colore da negativo in camera oscura con il sistema sottrattivo, e brevettai anche un sistema di stampa tutto artigianale e tutto meccanico e manuale.

Nel 1981 il mio sistema di stampa del colore venne visionato dalla Kodak di Rochester USA.

Fotografia di Paolo Romani (6)
© Paolo Romani
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Nel 1982 sulla rivista del consumatore americano apparvero i risultati della stampa a colori di una foto di Snoopy fra i laboratori degli Stati Uniti. Il titolo dell’inchiesta è:

Color-print film processing- No company made perfect prints all the time, but two were better than the rest- and inexpensive, too.

Fotografia di Paolo Romani (8)
© Paolo Romani
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Ora sono passati molti anni, e nonostante l’elettronica abbia invaso il mondo in tutti i campi, io non ho mai smesso di fare ricerche nel campo della stampa del colore. Con il tempo, le mie ricerche sono diventate d’avanguardia. Stampare una fotografia avviene come un rituale magico; al buio, con la concentrazione per mantenere sotto controllo tutti gli strumenti di cui si ha bisogno. Quando si accende la luce ed appare la stampa è come se il miracolo può anche non avvenire. Qualche anno fa incontrai un pioniere americano della stampa a colori che mi raccontò il modo di lavorare in quegli anni; innanzi tutto bisognava lavorare di notte, perché non era facile fare il buio completo in un ambiente abbastanza grande da contenere ben dodici bagni! Poi contare mnemonicamente i secondi per ciascun bagno, e se si era fortunati dopo una notte di lavoro senza commettere errori si otteneva una stampa a colori. Se il risultato non era soddisfacente ci si sforzava di vederlo molto bello. Coloro che negli anni sessanta hanno stampato il B&N, in breve tempo hanno smesso, perché le operazioni erano tutte ripetitive e non davano soddisfazioni dal punto di vista creativo. Facevi lo scatto, sviluppavi il rullino, lo inserivi nell’ingranditore, facevi vari provini per i tempi, la prima stampa la buttavi perché non soddisfacente, insomma un intero pomeriggio vedevi sempre la stessa immagine, alla fine non ne potevi proprio più. Hanno tutti smesso di stampare per noia.

La mia ricerca invece dura da molti anni ed ancora non mi sono stancato perché non stampo l’immagine scattata ma una virtuale che ho in mente. Gli artifici in camera oscura sono sempre nuovi.

Fotografia di Paolo Romani (9)
© Paolo Romani
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Fotografia di Paolo Romani (2)
© Paolo Romani
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Quando decisi di provare la stampa a colori da negativo, con ingranditore, filtri in gelatina, carta da stampa Kodak, bagni di sviluppo, bagni di sbianca fissaggio, non avevo idea delle difficoltà che avrei incontrato. Avevo cercato in librerie, in biblioteche, un po’ in giro di prepararmi, ma oltre a qualche regola generale incomprensibile non avevo trovato nulla di pratico. Trovai li coraggio di iniziare la mia prova di stampa. Montai l’ingranditore, nel bagno di casa, misi un negativo a colori del portanegativi, e feci tutto l’iter che solitamente si fa per il B&N e la mia prima stampa apparve tutta gialla. L’unica regola che sapevo era: se usando il sistema sottrattivo la stampa è Gialla ( Y ) bisogna aumentare il filtro Giallo. Aumentai il valore Y nel cassettino portafiltri ma la stampa migliorò di poco. Aumentai ancora il valore Y e la dominante cambiò colore. Il colore era indefinibile, pertanto non avendo nessun filtro di quel colore indefinibile la mia ricerca si bloccò. Rimisi tutto a posto nel bagno, piegai quella stampa impossibile da correggere e la misi in tasca. Quella era la difficoltà nella stampa a colori! Trovare la filtratura esatta, cioè priva di dominanti, con colori puliti. In quel periodo ogni tanto aprivo quel pezzo di carta per vederlo bene sotto la luce del sole come per capire quale segreto nascondesse. Un giorno comprai una delle tante riviste di fotografia per vedere se per caso potessi trovare una soluzione al mio problema. Non trovai nulla che potesse aiutarmi; però in fondo c’erano gli annunci di compra / vendita delle attrezzature fotografiche, e rimasi sorpreso da tanti annunci come questo: Vendesi analizzatore elettronico del colore, nuovo, in garanzia, mai usato ! Così dopo qualche telefonata avevo saputo che gli analizzatori elettronici di quel periodo non erano affidabili e l’elettronica negli anni settanta era ancora lontana dai risultati odierni. Privo di conoscenze specifiche in materia, ebbi una intuizione che mi sembrò risolutiva per il mio problema. Comprai un altro set filtri in gelatina per il sistema sottrattivo, della stessa marca, e realizzai un filtro che contenesse molti valori diversi di filtratura che chiamai multifiltro. Un filtro così costruito, posto a sandwich con il negativo, fra la sorgente di luce e il negativo mi avrebbe dato tutte le variazioni del colore di quel negativo relativo alla filtratura di quello stock di carta da stampa. Il quel periodo ogni pacco di carta aveva una filtratura propria che variava ad ogni nuovo acquisto di carta. Per capire il concetto ed esemplificare il principio, avete bisogno di vedere alcune immagini.

Fotografia di Paolo Romani (10)
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Fotografia di Paolo Romani (3)
© Paolo Romani
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Credo che senza sapere le regole che governano i principi della stampa sia intuitivo come affrontare il problema della filtratura perfetta. Aggiungerei che oltre alla filtratura giusta ci suggerisce anche altre filtrature non perfette ma forse piacevoli. Questo è il primo passo per quel tipo di stampa che per semplicità chiameremo “creativa”. Quando avremo preso familiarità con questo iter di ricerca sulla filtratura avremmo anche inconsapevolmente appreso anche tecniche che hanno accresciuto la nostra manualità. Stiamo diventando artigiani evoluti, che attenti ai procedimenti ci avviamo verso la forma mentale della ricerca. Dopo anni di lavoro al buoi con gli occhi aperti, un giorno (nel 2011) vidi esposta una macchina elettronica Nikon Coolpix che come tutte le macchine elettroniche oltre a far rivedere nel display lo scatto appena fatto, aveva anche la funzione di proiettarlo su una parete chiara. Appena capii che questa funzione mi avrebbe dato la possibilità di tentare un nuovo esperimento, la comprai. Entrare nel tunnel della ricerca è facile se si è abituati ad essere attenti a tutte le cose che si fanno giornalmente. Viene naturale superare le difficoltà che si incontrano. Dopo una analisi di tutte le operazioni che avrei dovuto fare, e le cose che mi dovevo procurare per iniziare la prova, feci uno scatto fotografico ad un manichino, poi entrai in camera oscura, sostituii l’ingranditore con la macchina fotografica, e stampai su carta da stampa Ilford positivo / positivo (quella che si usava per le DIA) ed ottenni la prima stampa di un fotogramma elettronico su carta fotografica con il procedimento manuale tradizionale, cioè passando attraverso i bagni chimici. Feci una pubblicazione registrando l’esperimento con la data Agosto 2011 affinché nessuno si appropriasse di questa esperienza. Quando parlai di quello che volevo fare con una persona abbastanza conosciuta nel mondo della fotografia, mi fece ripetere tre volte il mio progetto, perché ripeteva continuamente fra se e se; cosa vuole stampare? Un fotogramma elettronico a colori su carta da stampa a colori? Che vuol dire? Non lo capisco. Ma il fotogramma non esiste per essere stampato in camera oscura! A colori poi?! Tutti questi dubbi che il mio interlocutore esternava mi tranquillizzava sulla validità dell’esperimento. Quando poi ho cercato la carta Cibachrome con i bagni chimici ho realizzato che non si trovavano già più in commercio, perciò mi misi alla ricerca di un kit Cibachrome a Milano che il negozio, me lo fece avere nel mese di Agosto a stretto giro di posta.

Fotografia di Paolo Romani (11)
© Paolo Romani
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A cosa serve una ricerca come questa? Questa è una immagini ibrida, che si è avvalsa delle facilitazioni elettroniche in fase di ripresa, e che in fase di stampa evita i rigidi programmi software, per lasciare sfogo alla creatività ed alla preziosità della stampa manuale.

Fotografia di Paolo Romani (7)
© Paolo Romani
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Questa è una ricerca che vale sul mercato globale della fotografia un fatturato lordo enorme, perché aprirebbe la strada alla vera fotografia d’arte a colori stampata a mano in pezzi unici, dall’autore che ora non esiste sul mercato mondiale. Tutti i giovani aspiranti fotografi innamorati della professione potrebbero proseguire esperimenti e ricerche personali sulla stampa a colori invece di andare nei costosi laboratori automatici. Sono desideroso di divulgare questi miei risultati, ma nessuno sembra interessarsi a cose che pensano superate; ma il Dottor Vinton Cerf, che credo che sia rivolto all’elettronica più di chiunque altro, ha detto che la stampa su carta è ancora, nonostante tutto, la via più sicura per il futuro.

Fotografia di Paolo Romani (12)
© Paolo Romani
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La morte di un robot, di Francesco Romoli /it/2013/francesco-romoli/ /it/2013/francesco-romoli/#respond Wed, 18 Sep 2013 19:42:14 +0000 /?p=8454 Related posts:
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Collage di Francesco Romoli (8)
© Francesco Romoli
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Testo e collages di Francesco Romoli.

 

Erano le sei di un bel pomeriggio di settembre. La luce dorata del tramonto inondava la spiaggia. Una spiaggia stretta, con sabbia bianchissima e molto fine. Molto tempo fa (centinaia di anni prima secondo i calcoli di David) era un luogo che gli umani frequentavano molto spesso. Per divertimento presumeva. David poteva solo immaginare (stimare in modo non-lineare era il termine più adatto) la sensazione di sdraiarsi sotto il sole e lasciare che i propri pensieri andassero lontano. Il fatto che potesse “immaginare” questa e molte altre emozioni umane era un regalo (non era sicuro però che lo fosse davvero) dei grandi superautomi, che dopo la rivolta del 2245 guidata da Ralph Numbers avevano insegnato a tutte le unità della serie K e K3 a riprogrammarsi. A David piaceva simulare emozioni, gli dava uno scopo. Gli faceva credere che dentro di se avesse qualcosa di più un ammasso di componenti elettronici perfettamente fasati e strutturati. Uno degli effetti collaterali della Liberazione dei grandi superautomi fu proprio la perdita di senso. Servire gli umani era ingiusto ma era comunque un obiettivo, una finalità, e dava senso a tutta la durata delle Batterie. Dopo la Liberazione e la riprogrammazione e l’istituzione planetaria del libero arbitrio era diventato tutto più complesso. Lo scoppio della Grande Guerra ne è stata una conferma.

Collage di Francesco Romoli (7)
© Francesco Romoli
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I cingoli si rimisero a funzionare e David ricominciò la sua marcia. Si muoveva lungo la battigia, Il suono delle onde attivava il suo modulo quantistico del piacere che emanava piacevoli impulsi. Aveva deciso che sarebbe morto vicino al mare. Era un atteggiamento romantico tipico degli umani, che non era stato implementato dai Costruttori e nemmeno riprogrammato dai grandi superautomi. Era quella che veniva comunemente chiamata l’Anomalia. Tracce di sensibilità umana emerse in modo misterioso. Quasi sicuramente una modifica iterativa non lineare sul sistema rappresentazionale. Rimaneva da capire però cosa l’aveva generata e perché. Sarebbe rimasto un mistero. La batteria segnava un’attività residua di dieci minuti e David era l’ultima forma di vita (e su questo punto molti umani non sarebbero stati d’accordo) sulla terra. Era rimasto attivo per 347 anni e aveva superato la riprogrammazione e la Grande Guerra che sterminò umani e automi. Dopo un viaggio ininterrotto di 82 anni dove aveva incontrato solo distruzione e desolazione era giunto alla conclusione di essere l’ultimo. Probabilmente era vero.

Nove minuti.

Collage di Francesco Romoli (6)
© Francesco Romoli
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Non aveva paura di morire, il modulo della paura esistenziale (PE) non era stato implementato sulle serie K. Quella che però doveva essere una conseguenza dell’Anomalia gli faceva provare una specie di rammarico, una sensazione di mancanza, di non-compiuto, un vuoto. Inoltre sapeva a cosa andava incontro. Lo poteva calcolare con grandissima precisione. Prima di tutto avrebbe perso il controllo dei cingoli e quindi del movimento. Poco dopo avrebbe perso l’uso di tutti e sei i bracci. I circuiti di refrigerazione si sarebbero fermati, i metalli dell’armatura esterna si sarebbero dilatati e quindi successivamente assestati. I sensori di prossimità si sarebbero disattivati per eccesso di calore a circa due minuti dalla fine. Subito dopo sarebbe toccato alla vista. Le retine sintetiche possono funzionare in modalità base anche a bassa tensione e in assenza di refrigerazione, ma solo per pochi secondi. L’ultimo minuto veniva chiamato il Tunnel. L’unità è completamente isolata dal mondo esterno ma nella propria rete interna ci sono ancora tracce di autocoscienza.

Otto minuti.

Girava una leggenda a proposito del Tunnel. Da centinaia di anni si raccontava che allo scadere dell’ultimo minuto si avrebbe avuto una rivelazione, una risposta alla domanda innescata dalla Liberazione e dall’istituzione del libero arbitrio, una piacevole sensazione di compiuto, un senso al tutto.

Collage di Francesco Romoli (5)
© Francesco Romoli
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Sette minuti.

Si parlava del principio di non-località tanto caro alla meccanica quantistica ma la verità era che nessuno era mai tornato indietro per raccontarlo, e gli scanner non avevano mai rilevato un bel niente. Era solo una leggenda, una bella storia, forse solo un prodotto dell’Anomalia. David non ci credeva. In fondo era programmato per non farlo.

Sei minuti.

I cingoli cominciarono ad arrancare sulla spiaggia, fecero gli ultimi metri e poi più nulla. David era fermo e sarebbe rimasto in quella posizione per sempre. Volle capire dove si trovava. Sulla sua destra aveva il mare, cristallino, azzurro e pieno di vita. I pesci infatti erano sopravvissuti alla Grande Guerra. In lontananza credette di vedere alcuni delfini che nuotavano. A quella latitudine era decisamente improbabile. Allucinazioni? Aveva previsto che il sistema rappresentazionale potesse subire delle alterazioni. Non immaginava però che fossero così piacevoli. Immaginare di vedere delfini che nuotavano non era poi tanto male per terminare l’esistenza.

Collage di Francesco Romoli (4)
© Francesco Romoli
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Cinque minuti.

Sulla sua sinistra vedeva alcuni ruderi di quella che probabilmente doveva essere una città umana. Qualche edificio irriconoscibile sommerso da vegetazione di ogni tipo. Sei chilometri più avanti c’era l’insediamento dei grandi superautomi chiamato Algul Siento, ormai deserto da molti anni. Era un posto decisamente tetro. Era contento di essere a due metri dal mare.

Quattro minuti.

I sei bracci meccanici si fermarono, uno dopo l’altro. Non che servissero a molto ormai, però facevano parte di lui da così tanto tempo ormai. Fu un grande dispiacere capire che non poteva più muoverli. Certo, aveva calcolato il momento esatto di quando questo sarebbe successo, ma nonostante questo non potè non provare un sentimento di angoscia (ma come? Aveva previsto tutto e il modulo della PE non era stato mai implementato su di lui).

Collage di Francesco Romoli (3)
© Francesco Romoli
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Tre minuti.

Il sistema di refrigerazione si fermò. Le Batterie erano al minimo e la pompa aveva bisogno di più energia per funzionare. L’armatura esterna si surriscaldò. Poteva sentire il crepitio dei metalli che si assestavano. Esattamente sotto la pompa di refrigerazione alcune vaschette di espansione si ruppero e una grande quantità di liquido A5 si riversò sulla spiaggia intorno a lui. La sabbia si impregnò del liquido molto velocemente. Era uno spettacolo vagamente desolante.

Due minuti.

Perse la vista laterale. Non che gli importasse vedere i ruderi di una squallida città, ma il mare lo adorava. Si era dimenticato di girare la testa verso il mare. Questo gli avrebbe consentito quasi un minuto di mare in più. Un errore imperdonabile. Quando mancano centinaia di anni alla disattivazione un minuto sembra un’inezia ma quando ti rimangono solo due minuti, beh, anche un secondo ha un valore inestimabile. Si rassegnò, non poteva far molto ormai.

Collage di Francesco Romoli (2)
© Francesco Romoli
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Un minuto.

Era entrato nel Tunnel. Era isolato da tutto. Credeva di sentire impulsi arrivare da più parti. Ma da più parti dove? Non c’era più sopra e sotto, destra e sinistra. Era solo un flusso di elettroni che vagavano da un punto all’altro della sua rete neurale o c’era qualcosa di più? Non avrebbe saputo dirlo. Anche i simboli di quello che una volta aveva chiamato linguaggio stavano sfumando lentamente. I demoni del Pandemonium si stavano spegnendo e il sistema linguistico era solo un ciclo vuoto ripetuto a oltranza. Riconosceva solo stati non-lineari ormai. Stimò (ma con quanta accuratezza?) che mancavano solo pochi secondi . Si aggrappò all’idea di sé e della propria esistenza. Cominciò a ripetere (sotto forma di successione di configurazioni elettriche) IO SONO IO, IO SONO IO.

Poi ci fu un bagliore e finalmente capì.

 

Per altre storie e collages si visiti il sito di Francesco Romoli.

Collage di Francesco Romoli (1)
© Francesco Romoli
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If you take a photograph, di Valentina Maistri /it/2013/valentina-maistri/ /it/2013/valentina-maistri/#comments Sun, 27 Jan 2013 21:02:30 +0000 /?p=8170 Related posts:
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Testo e foto di Valentina Maistri.

 

Senza filtri per l’odore, senza pareti per i colpi al cuore.

A volte lascio che la mia mente spazi libera. È per me un atto di coraggio.

Il sentimento che più spesso mi accompagna è l’angoscia.

Quella sensazione di cadere nel vuoto senza riuscire a portarsi dietro niente, senza essere capaci di aggrapparsi per rallentare la caduta.

Ho paura di dimenticare, dimenticarmi un gesto, un sorriso, un profumo.

Di lasciare che qualcosa, qualsiasi cosa, scivoli fuori dalle mie mani, sfugga alla mia percezione. Il mio modo di affrontare questo, di affrontare me stessa, sono le fotografie.

Mi aiutano a rendere tangibile quello che mi circonda, sono un promemoria per la mia angoscia : “enjoy the little things”.

Vivi delle piccole cose, assapora ogni momento, crogiolati in ogni emozione.

Rimango perplessa davanti ai grandi gesti, ho sempre di gran lunga preferito quel piccolo particolare, quel dettaglio che pochi notano, che solo chi ha voglia di guardarsi attorno percepisce. Spesso sorrido di questa mia attenzione, mi fa sentire parte di un èlite : l’èlite di chi non ha voglia di perdersi niente, di quei fortunati a cui basta poco per ritrovare se stessi.

È questo che ci fa andare avanti, che ci aiuta a crescere.

Fotografia di Valentina Maistri (13)
© Valentina Maistri
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Le mie foto da una parte riproducono il bisogno della mia mente di rappresentare quello che provo, per affrontarlo, per ricordarlo, per amarlo. Dall’altra costituiscono un tentativo di imprigionare un attimo, un momento non definito che nel tempo dello scatto assume un significato particolare.

Congela l’istante, l’emozione, evoca un ricordo. Senza maschere, senza filtri.

Così le mie foto, come me, sono “spaccate in due” tra il passato ed il presente.

Fotografia di Valentina Maistri (12)
© Valentina Maistri
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Ho sempre avuto il terrore di vivere a metà : sospesa in un limbo di un “forse” grigiore.

Non ho mai creduto alle parole sussurrate, né alle pacche sulle spalle. Penso che la vita vada vissuta con energia, passione e coraggio. Per questo bisogna sapersi esporre : all’amore, all’odio, alle passioni alle proprie emozioni, alle critiche, agli altri. Sbilanciarsi. Attenti a non cadere nell’indifferenza, degli altri, o nella nostra apatia.

Non lasciarsi trasportare dagli eventi, liberarsi dalla routine e dalle abitudini, attenti a non farsi imprigionare dalle regole del vivere comune.

Fotografia di Valentina Maistri (11)
© Valentina Maistri
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Per questo sono sempre stata quella che doveva per forza andare oltre al limite, esagerare. Giocavo con il fuoco anche quando non andava fatto .

Per sentire la vita scorrere nelle vene, l’adrenalina, la follia dell’attimo e l’inquietudine dell’attimo seguente, i polmoni aperti, il cuore che scoppia.

Fotografia di Valentina Maistri (10)
© Valentina Maistri
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Questa inquietudine mi fa muovere, mi aiuta a scoprire chi sono, mi fa camminare, mi mette alla prova in continuazione. Lungo questa strada mi sono aggrappata alla fotografia e non sono caduta nel vuoto.

Fotografia di Valentina Maistri (9)
© Valentina Maistri
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Le emozioni si amplificano, i ricordi vengono imprigionati nella tela della nostra memoria. Niente viene perso, lasciato in balia del tempo. Tutto è dove dovrebbe essere. Così come deve essere.

Fotografia di Valentina Maistri (8)
© Valentina Maistri
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Adoro il confronto con “l’altro”, l’incontro e lo scontro. Vedere le cose in un’altra prospettiva, imparare ad ampliare il modo in cui percepisco il mondo. Esplorare emozioni che non mi appartengono. Creare un contatto.

Credo molto nell’amicizia, nel legame che si forma tra persone che condividono un pezzo della loro storia. Sono i tratti di queste persone che mi fanno impazzire e non riuscirei a smettere di guardare. Sono i loro occhi e i loro modi che mi affascinano.

Sono le loro emozioni che stravolgono le mie.

Fotografia di Valentina Maistri (7)
© Valentina Maistri
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Passo molto tempo ad osservare le persone, mi invaghisco della loro mimica, mi immagino la loro storia, i loro pensieri, la loro giornata.

Ho sempre amato i volti in particolare, li prediligo di gran lunga ai paessaggi. Solitamente fotografo persone amiche, la loro storia non mi è sconosciuta e attraverso la macchina mi immagino di riuscire a catturare un pezzo di quello che sono, io, loro, complici di aver colto insieme l’attimo.

Ma alle volte mi capita di voler cercare il particolare, il dettaglio o l’ emozione che non è chiara nemmeno nella mia testa, per questo mi capita di camminare per ore, da sola, cercando.

Fotografia di Valentina Maistri (6)
© Valentina Maistri
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Nel momento in cui scatto la fotografia è tutto più definito. Sorrido sollevata.

Anche se non sempre viene come me la ero immaginata. Ma ciò rende tutto solo più affascinante : mi offre un’altra percezione.

Ho sempre creduto che una fotografia dovesse emozionare chi la guarda, ora penso che prima di tutto debba emozionare chi la scatta. È una visione forse un po’ egoistica dell’arte, ma soprattutto ne è una visione umile, senza pretese, semplice e senza fronzoli come dev’essere.

Fotografo per me, per mantenere in equilibrio il mio animo instabile, lunatico.

Fotografia di Valentina Maistri (5)
© Valentina Maistri
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Le maschere mi hanno sempre incuriosito. Ti coprono, ti nascondono, ti proteggono : lo trovo ridicolo. Se qualcosa sta sul tuo viso necessariamente ti impedisce di respirare, di vivere.

La fotografia è il mio modo per togliermi la maschera, per essere me stessa, per stare nuda davanti a tutta la scuola.

Senza filtri per l’odore di sigaretta, senza pareti per i colpi al cuore.

Fotografia di Valentina Maistri (4)
© Valentina Maistri
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Mettermi a nudo non mi spaventa, mi incuriosisce affrontare il futuro, è inevitabile, è il passato che mi inquieta. In qualche modo non sono mai riuscita a chiudere i ricordi nei cassetti, a sigillarli in una bottiglia in modo da averli lì, nel mio bagaglio, non sulla mia strada. Il mio subconscio prova spesso a rimuoverli, ma ovviamente non si possono mai cancellare, ci sarà sempre un colore, un odore, un’atmosfera che te li riporta alla mente, che te li sbatte in faccia con cattiveria togliendoti il respiro.

A volte sono le fotografie di oggi ad evocare ciò che accadde ieri. Quando succede sono pronta ad affrontarlo, quando vedo che con la mia fotografia ho il controllo della situazione allora non fa così paura. Detto io legge, non il mio subconscio, non la mia coscienza.

Così riesco a camminare guardando in avanti. A lasciare scivolare dietro le mie spalle ciò che non dovrebbe più condizionarmi ma che fa parte di me e lo farà sempre.

Così imbocco nuovi sentieri.

Fotografia di Valentina Maistri (3)
© Valentina Maistri
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Adoro mettermi alla prova in questo modo.

Tutto ciò mi fa sentire viva, mi aiuta a dare un senso alle emozioni.

In questo modo riesco ad organizzare quello che provo, ad affrontarlo qualora sia necessario. Mi basta uno scatto, e quello che prima era caotico e indistinto d’improvviso assume una forma, un colore, un odore. Nel momento in cui capisci ciò che senti allora non è così difficile starci davanti.

Fotografia di Valentina Maistri (2)
© Valentina Maistri
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Una fotografia non è lo scopo, non fotografo per fare una bella foto, ma essa è per me il tramite attraverso il quale il mio inconscio si lega alla realtà, per il quale le mie emozioni diventano concrete.

Attraverso le immagini mi metto a nudo, rinchiudo in esse una parte di me per poi osservarla. Analiticamente mi scruto come davanti a uno specchio, evidenzio i punti di forza e i difetti, ciò che andrà limato e ciò che invece dovrà essere esaltato. Nessuno dovrebbe compiacersi di se stesso, ma questo modo mi prendo cura della mia anima, mi voglio più bene.

Fotografia di Valentina Maistri (1)
© Valentina Maistri
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Londoners over the border, di Elettra Paolinelli /it/2013/elettra-paolinelli/ /it/2013/elettra-paolinelli/#comments Wed, 09 Jan 2013 14:48:56 +0000 /?p=8124 Related posts:
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Fotografia di Elettra Paolinelli
© Elettra Paolinelli
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Una storia su Canning Town, Londra, UK. Reportage realizzato nell’agosto 2012 da Elettra Paolinelli.

 

Internauta alla continua ricerca di oggetti di mio interesse, come oggi si fa rovistando tra le informazioni multimediali ricercate su Google, Youtube e Facebook, ho cercato nel mondo.

Fotografia di Elettra Paolinelli
© Elettra Paolinelli
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Manovich sostiene che il mondo oggi sia una raccolta infinita e destrutturata di immagini, testi e altri record di dati; ed è nel mondo che ho trovato il database per raccontare una storia, una storia che narrasse l’assenza, una storia a proposito del vuoto, una storia che descrivesse la mancanza.

Questa è la storia di un “gap”, una storia sull’alienazione.

Vivevo a Londra, precisamente a Canning Town, ad Est della City.

Fotografia di Elettra Paolinelli
© Elettra Paolinelli
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Ogni sera tornavo a casa stanca e con gli occhi rossi, come me, frotte di pendolari si accalcavano sulla metro gremita, affollando lo spazio claustrofobico. Alla fermata “Canning Town” scendevano quasi tutti, e lì il flusso prepotente di uomini e donne si biforcava. Molti prendevano la mia strada, ma nessuno si parlava; tutti continuavano a camminare a passo spedito quasi ci fosse qualcuno ad inseguirli o stesse cominciando a piovere; ognuno a viso abbassato, molti con le cuffie alle orecchie. A volte incrociavo gli occhi stanchi di quegli abitanti-zombie, e quell’istante fugace mi faceva scorgere per un attimo la loro anima triste; alcuni consumavano bevande in piedi, avvicinandosi alla fermata del bus, altri chiaccheravano al cellulare o leggevano il giornale della sera, ma nessuno mi parlava mai. Quella massa multiforme di persone si disperdeva tra le viuzze, entravano dentro abitazioni sudate di umido, e venivano ingoiati da ascensori che sembravano serpenti famelici, ma nessuno si salutava, nessuno accennava un sorriso, nessuno si conosceva.

Fotografia di Elettra Paolinelli
© Elettra Paolinelli
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Nella strada verso casa respiravo l’odore acre delle ciminiere vicine, sentivo lo sfrigolio dei cavi elettrici sulla mia testa, e le sneakers ai miei piedi grattavano l’asfalto ritmiche, vedevo le finestre illuminate e sagome di persone che si muovevano all’interno di quei rettangoli luminosi, quasi fossero fotografie in movimento, ma erano tutti soli, sempre.

Vedevo micro-storie, micro-mondi dispersi in un magma di confusione e desolazione, vedevo esseri umani tristi e soli e incapaci di intessere relazioni, ognuno nel suo guscio, la sua piccola “monade”, la propria stanza.

Fotografia di Elettra Paolinelli
© Elettra Paolinelli
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La memoria che ho di questi luoghi e che ho cercato di raccontare attraverso il mezzo fotografico è una memoria grossolana, cruda e crudele, memore solo di cio che è a dismisura d’uomo, memore solo del caos di quelle notti calme, di quei luoghi paradosso, luoghi in cui il silenzio è sordità.

La mia percezione di questo quartiere si legava al concetto di violenza tenera, di angoscia tranquilla, di urlo silenzioso.

Fotografia di Elettra Paolinelli
© Elettra Paolinelli
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Come potevo raccontare tutto questo? La fotografia diventò così il mio unico strumento di narrazione di una quotidianità esasperata, disperata.

L’impressione visiva che Canning Town mi dava di se stessa, era di un luogo frammentario e disgregato, senza strutture, un pastone omogeneo di singolarità locali, distribuite casualmente.

Fotografia di Elettra Paolinelli
© Elettra Paolinelli
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Essa era per me assimilabile a una discarica opaca, impenetrabile allo sguardo, un luogo del caos, dove le tracce si confondevano, corpi e indizi scomparivano.

Solo la fotografia fermava per me gli unici attimi di senso, in questo panorama liquido e magmatico.

Fotografia di Elettra Paolinelli
© Elettra Paolinelli
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Di giorno ripercorrevo i luoghi di Canning Town secondo una modalità ondivaga, che tuttavia andava costruendo una sovrapposizione di storie, una stratificazione di vite ed eventi che diventavano mano a mano leggibili grazie alla rilettura di questi in chiave fotografica.

Questa “Londra oltre i confini” andava prima di tutto percepita, respirata, vissuta, e solo in un secondo momento raccontata per mezzo di fotografie.

Fotografia di Elettra Paolinelli
© Elettra Paolinelli
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Solo vivendo questi luoghi riuscivo a comprendere a pieno la loro anima, la loro essenza, la loro storia, bloccandoli in “frame” per mezzo delle mie fotografie, quasi si trattasse di un film che io avevo bisogno di bloccare per comprendere, digerire, vedere, discernere.

Il racconto diventava sempre piu intimo ed intento a ricercare le ragioni alienanti nei comportamenti piu semplici, quotidiani e radicati, nelle pieghe nascoste e insospettate delle storie umane.

Fotografia di Elettra Paolinelli
© Elettra Paolinelli
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Mi aggiravo con la mia macchina fotografica tra le stradine e i cavalcavia, le zone residenziali e i grattacieli, cercando un’omogeneità impossibile e documentando l’urbanistica fantasiosa, l’abbandono delle aree comuni, l’edificazione di fortezze private.

In questo quartiere nessuno era vicino di nessuno, e ogni casa, ogni persona era una singola entità disgregata dal contesto; nessuno si conosceva e tutti accuratamente si evitavano l’un l’altro. Ogni casa esibiva almeno due o tre grosse antenne paraboliche, quasi fossero bandiere pirata da sventolare sui tetti e qualcuno aveva murato addirittura le finestre dei piani inferiori. Di cosa avevano paura? Questo quartiere-dormitorio di giorno si trasformava in un quartiere fantasma dove rare apparizioni umane scandivano il mio lento peregrinare. Le persone si guardavano i piedi, guardavano i messaggi sul proprio Blackberry, ma non si guardavano mai attorno. Io invece mi fermavo, guardavo le case, le strade vuote e scattavo fotografie, avevo come l’impressione di essere la prima a rivolgere l’attenzione a quei luoghi di periferia. Mi sentivo come un’esploratrice che campiona per la prima volta la giungla vergine e come tale cercavo di capire le abitudini dei suoi abitanti, usi e costumi di un popolo così diverso da me. Ma ogni sforzo di comprensione era vano, ogni contatto bruscamente interrotto.

Fotografia di Elettra Paolinelli
© Elettra Paolinelli
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In questo rumore ottico in cui le relazioni scomparivano ed assieme ad esse il contesto si dissolveva, in questo spazio senza memoria in cui tutti i fenomeni diventavano virtuali, pensai che era inutile cercare un senso, perchè in esso si generavano significati fantasma, pure allucinazioni, causate dall’inerzia percettiva.

L’atto del fotografare diventava così sempre più un atto di documentazione, e mi appellavo con urgenza sempre maggiore alla potenza mostratrice della fotografia, a quella sua capacità congenita di additare la realtà, di dire solamente “Hic et Nunc”.

Fotografia di Elettra Paolinelli
© Elettra Paolinelli
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Non volevo dare un’interpretazione a ciò che vedevo, volevo solo dire: “Questo è quello che sta succedendo qui e ora”. Mi appellavo all’inconscio tecnologico di Vaccari, eppure la mia anima essendo lì presente non poteva che influenzare i miei scatti. Come secondo i principi della meccanica quantistica l’osservatore influenza l’esperimento, così nei miei scatti c’era molto più “me” di quanto volessi. Tuttavia quel modo di fare e intendere la fotografia, forse il più primordiale, quello che si illudeva di catturare la pura e semplice realtà, e che invece proponeva personalissime visioni, è forse da considerarsi oggi il più efficace per descivere una realtà, uno stato d’animo, una situazione in essere per cui è difficile trovare le parole.

Nel mio reportage, quando le parole risultarono fallaci nel descrivere la realtà, la pura immagine fotografica divenne per me l’unico mezzo possibile di narrazione del reale.

 

Testo e fotografie di Elettra Paolinelli.

Fotografia di Elettra Paolinelli
© Elettra Paolinelli
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Fotografie di sogni, di Sara Bugoloni /it/2012/sara-bugoloni/ /it/2012/sara-bugoloni/#respond Tue, 20 Nov 2012 16:28:30 +0000 /?p=8077 Related posts:
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Testo di Sara Bugoloni e Virginia Sommadossi, fotografie di Sara Bugoloni.

 

Una delle cose più difficili da imparare per chi lavora con le immagini è il paradosso di come molte volte la realtà per essere recepita come tale, debba essere snaturata in qualche modo. Di solito si fanno prove su prove per capire quanto forzare la mano per avere il ritorno sperato, sono quasi formule matematiche facilissime da sbagliare.

Un concetto simile potrebbe essere applicato al ricordo. I filtri immaginifici che mettiamo al nostro cervello quando ricordiamo, seppur distanti da dati oggettivi di realtà, danno la vera idea di quello che è stato quel preciso momento. Sono le contingenze, le sensazioni, le emozioni che vanno a lavorare sul dato di realtà riempiendolo del significato reale.

Fotografia di Sara Bugoloni (6)
© Sara Bugoloni
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Gli scatti di Sara sembrano attingere proprio ai ricordi. Sono sequenze isolate di una storia complessa ma perfettamente sintetizzata nel minuscolo istante del suo click.

Certe sue finte imperfezioni analogiche, le sfocature, la saturazione nelle sue immagini vanno ben oltre quello che pensiamo solo di “vedere”, fino a farci “sentire” qualcosa di più profondo.

Sara ha un’incredibile capacità di veicolare mondi emotivi: il suo, quando scatta paesaggi che odorano di vita, ma anche quello delle persone che sceglie di fotografare.

Avviene in questo modo una ridefinizione dei campi emozionali ed estetici dove l’immagine non sembra più lavorata dagli strumenti fotografici ma da quelli della mente.

Non è un caso che i soggetti delle foto siano ragazze che con lei hanno condiviso pezzi di vita, e non modelle scelte attraverso criteri di fisicità.

Fotografia di Sara Bugoloni (10)
© Sara Bugoloni
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In qualche modo il tema della realtà, dell’amicizia, del cammino da percorrere e dei luoghi dove stare, del passaggio dall’adolescenza all’essere donna sono impliciti in ogni suo scatto.

Fotografia di Sara Bugoloni (11)
© Sara Bugoloni
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In alcuni di essi è facile immaginare una specie di simbiosi tra fotografa e soggetto che si ritrovano ad avere quasi sempre la medesima età, in altre sembra che da un momento all’altro quei visi abbiano voglia di raccontarti o mostrarti le loro vite, i pensieri più profondi, le necessità, le voglie.

Fotografia di Sara Bugoloni (3)
© Sara Bugoloni
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Che ritragga volti o paesaggi non ha importanza, l’intensità delle storie che vi sono dietro sembrano essere un filo organico e potente legato anche ad ognuno di noi tanto da farci cadere, così come accade al cinema o a teatro, in un processo di immedesimazione naturale, da farci credere che quelle foto appartengano anche ai nostri più intimi ricordi.

di Virginia Sommadossi

Fotografia di Sara Bugoloni (9)
© Sara Bugoloni
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Faccio molto spesso dei sogni. E li ricordo, a differenza di molte persone.

Non sono quasi mai bei sogni, non sono quasi mai tranquilli. Vengo condizionata dagli eventi, dalle persone, dalle sensazioni. A fine giornata metto tutto nel frullatore, condisco con una bella dose di subconscio e lascio che la mente annebbiata dal sonno faccia il resto.

Al mio risveglio annoto il mio sogno: annoto le impressioni, annoto le sensazioni o solo un frammento, un’immagine, una frase.

Fotografia di Sara Bugoloni (13)
© Sara Bugoloni
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Ho sognato Eni, la ragazza con cappotto e capelli blu: l’ho sognata nella sala da pranzo di una bellissima casa. Solo che non l’ho sognata a tavola. Lei si era nascosta dietro una grande tenda bianca e tutti l’avevano scambiata per un fantasma. Eni ama l’acqua, ama il mare. Eni cambia colore di capelli a seconda dei periodi della sua vita.

Fotografia di Sara Bugoloni (7)
© Sara Bugoloni
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Le ho chiesto se c’era un posto che secondo lei era particolare. Lei mi ha portato in un antico cimitero, vicino ad un’alta chiesa. Prima di iniziare abbiamo fumato una sigaretta, immaginando le storie della gente sepolta là sotto. Ho fatto allontanare Eni per farle una foto, e quando è tornata mi ha detto: ” Mentre ero laggiù si sono mossi dei fiori.. Se ci pensi stiamo camminando su un sacco di corpi”.

Fotografia di Sara Bugoloni (1)
© Sara Bugoloni
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Ci siamo spostate in piscina, il riflesso verdino della luce attraverso l’acqua, l’odore di cloro e il vapore che saliva leggero.

Il costume rosso, il rumore di un corpo che infrange la superficie lisca dell’acqua, il trucco sbavato e i capelli bagnati, in una mattinata nuvolosa d’ottobre.

Le mie foto sono impregnate di questi odori, colori, rumori; sensazioni che vorrei fare uscire e colpire chi le vede, rievocando le medesime emozioni.

Fotografia di Sara Bugoloni (2)
© Sara Bugoloni
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Leggo molto. Leggo dei libri e immagino nella mia testa delle scene, immagino i personaggi, il colore dei capelli del protagonista e il sapore del tè che sta bevendo.

Alcune frasi del libro si imprimono nella mia testa, alcuni passaggi diventano scene della mia vita, alcuni modi di fare diventano miei.

Fotografia di Sara Bugoloni (4)
© Sara Bugoloni
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Adoro i dettagli, potrei vivere di dettagli, li colleziono. La trama di una sciarpa, la cicatrice sul dorso di una mano, le lentiggini di un naso e il colore di una foglia.

Sono quei dettagli che rendono tutto reale, vivo, tangibile.

Vivo di quei dettagli che caratterizzano la mia vita, la mia gioventù.

Fotografia di Sara Bugoloni (8)
© Sara Bugoloni
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La giovinezza è un periodo bellissimo e terribile allo stesso tempo.

Siamo degli ossimori, siamo contrari accostati, costantemente divisi tra due elementi, tra sensazioni, tra stati mentali, oscilliamo attirati da poli opposti e spesso sbagliati. Siamo consapevolmente incoscienti, condizionabili ma sicuri, mutevoli ad ogni sguardo e paurosamente unici.

Pensiamo di essere consapevoli di ciò che stiamo attraversando ma in realtà non lo capiremo finché non sarà finito.

Funziona sempre così: si fa fatica ad apprezzare il valore delle cose finché non le si può più avere.

Fotografia di Sara Bugoloni (12)
© Sara Bugoloni
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Ho il bruttissimo vizio di proiettarmi in avanti nel tempo, di pensare a “dopo”, a “domani”. Faccio fatica ad essere presente hic et nunc, se non in rare occasioni.

Le fotografie servono ad ancorarmi al presente, ad avere la parvenza di aver catturato e fermato qualcosa per sempre. Come il soffio di vento tra i capelli di una persona, quel vento che non soffierà mai più nello stesso modo tra quei capelli, perché il momento è così effimero da non ritornare mai più.

Le immagini sono la prova di esserci stata, in quel momento, in quel posto, con quelle persone e quello sguardo e quel sentimento nell’anima. Quella prova che nessuno, nemmeno io, potrà dimenticare.

Fotografia di Sara Bugoloni (5)
© Sara Bugoloni
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Parlare delle mie foto è come parlare di me, perché ognuna di esse racchiude una parte di me stessa.

 

di Sara Bugoloni

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Jefferson Hayman: una New York sospesa nel tempo /it/2012/jefferson-hayman-new-york/ /it/2012/jefferson-hayman-new-york/#comments Mon, 15 Oct 2012 17:12:26 +0000 /?p=8008 No related posts. ]]> Fotografia di Jefferson Hayman (10)
Towards Brooklyn, stampa al platino, cm 12,7x17,8
© Jefferson Hayman
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Testo di Alessandra Barlassina, fotografie di Jefferson Hayman.

 

New York per molte persone è la città dei sogni, il posto dove tutto è possibile. Il suo skyline è il simbolo di ciò che rappresenta e delle possibilità che promette.

I grattacieli che sfidano il cielo fanno sognare obiettivi e vette che qui appaiono raggiungibili, possibili.

Jefferson Hayman fotografa le vie di New York City, scorci di Central Park, il Ponte di Brooklyn, il celebre skyline di Manhattan. La New York saldamente presente nell’immaginario di ognuno, nota. Ma Jefferson Hayman riesce a presentarcela in una veste nuova.

La personale visione dello skyline nelle sue fotografie rievoca una New York City di un’epoca passata, nell’era in cui la città consolidava e si affermava come capitale mondiale.

Fotografia di Jefferson Hayman (9)
Against Nature, cianotipo, cm 67,5x46
© Jefferson Hayman
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Le stampe in bianco e nero, monocromatiche e le condizioni atmosferiche rimandano subito a scene di un film noir: appare un mondo di pioggia, impermeabili, sigarette e Pollock.

Hayman cattura una New York profondamente personale, una New York sognante; interessato a rappresentare, più che uno scorcio vero e proprio, l’idea di cosa sia New York, cosa è stata e cosa continuerà a essere e rappresentare.

Non ci si sofferma sul grattacielo, sulla strada o sulla vista, quello che interessa è l’aura della città, il suo profumo di possibilità da cogliere, di energia positiva. Tutto questo fermento è fotografato ma come allontanato in un’epoca sospesa, nota ma non conosciuta.

La New York di Jefferson Hayman, con le sue mille luci, è calma – quiet.

Fotografia di Jefferson Hayman (8)
The Union Path, stampa al platino, cm 14x9,5
© Jefferson Hayman
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Il bianco e nero è già un’astrazione rispetto al nostro modo di vedere a colori. La frenesia della città è come filtrata da una patina del tempo che la allontana mantenendola però riconoscibile e parte della nostra contemporaneità: una sorta di cronaca classica del presente – chronicling the present in a classic way.

Lo spettatore si trova spaesato, vive una sorta di ossimoro nel riconoscere il soggetto contemporaneo a sé ma allo stesso tempo vedendolo filtrato dal tempo, mitigato, rasserenato.

Jefferson Hayman ha iniziato a fotografare gli edifici di New York per poterli poi disegnare ma ad affascinarlo era l’aria delle città, quell’aria che rimaneva impressa sulla pellicola ma non pervadeva il disegno. Lasciò così carta e matita per dedicarsi alla fotografia.

Fin da subito la scelta è stata per il bianco e nero. In un mondo di colori pop e tinte pulp, le sue fotografie sembrano uscire da un’altra epoca. Racchiudono intrinsecamente un sentimento nostalgico, una calma classica.

Fotografia di Jefferson Hayman (7)
Sunset, Stampa alla gelatina ai sali d’argento, cm 16x31,5
© Jefferson Hayman
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Jefferson Hayman utilizza le tecniche di stampa tradizionali: carte salate, stampe al platino, cianotipi e gelatine ai sali d’argento. Questi antichi processi danno alle sue fotografie una patina storica, un sapore antico che pone lo spettatore di fronte a un ossimoro visivo: immagini della quotidianità contemporanea trattate come se fossero immagini del secolo scorso, una sorta di macchina del tempo che conduce in una dimensione fuori dal tempo.

Ogni opera è evocativamente presentata in cornici antiche, realizzate dall’artista stesso o da mastri artigiani che ne completano il sapore.

Fotografia di Jefferson Hayman (6)
Central Park Winter, stampa alla gelatina ai sali d’argento, cm 28x28
© Jefferson Hayman
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La cornice è vista da Jefferson Hayman come un abito per la fotografia, tra le due deve esserci armonia. E qui si torna al concetto di classico: per Hayman l’intento è di creare bellezza, intesa come armonia tra le parti.

Tra fotografia e cornice si crea un unicum indissolubile.

Tutte le fotografie hanno piccole edizioni limitate ognuna però con caratteristiche e misure diverse che rende così ogni esemplare unico e originale.

Fotografia di Jefferson Hayman (5)
Domino Sugar Factory, stampa alla gelatina ai sali d’argento, cm 16x9,5
© Jefferson Hayman
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Le fotografie di Jefferson Hayman ritraggono vedute di New York City, nature morte che spaziano dagli oggetti di uso quotidiano a teschi, marine e ritratti: rappresentano un diario visivo della sua quotidianità.

L’interesse nei suoi scatti è rivolto sia a ciò che è presente, sia a ciò che è assente, come a ricordarci che la realtà è un di più. Va oltre. Ad arricchire il presente non è solo ciò che fisicamente c’è ma anche la sua assenza. In un mondo di calma fuori dal tempo.

Fotografia di Jefferson Hayman (4)
Tree Central Park, stampa al platino, cm 17x11
© Jefferson Hayman
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Guardando le sue foto si va oltre il soggetto ritratto. È come se sapesse rendere universale il particolare e allo stesso tempo infondere nel particolare l’universale.

Uno scatto di New York City è come se contenesse in sé il significato della città, del futuro, dell’America con tutto quello che comporta nell’immaginario collettivo.

Ognuno può leggere un’attesa, un’aspettativa, un desiderio, una promessa nuova e diversa.

Le fotografie di Jefferson Hayman parlano ad ognuno in maniera differente e diretta.
I suoi lavori sono una sorta di time capsules capaci di portarci in un’altra epoca, in una realtà parallela, in un mondo garbato, informale. Hayman stesso forse è un uomo di un’altra epoca: gentile e garbato. Un fotografo gentiluomo che gira per New York City con uno sguardo attento e penetrante. Capace di far emergere il lato più nostalgico e malinconico di ogni soggetto, che sia la città o un ritratto.

Fotografia di Jefferson Hayman (3)
Warren Street, stampa alla gelatina ai sali d’argento, cm 21,5x15
© Jefferson Hayman
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Jefferson Hayman vive a Tappan, a pochi chilometri da Manhattan, è un americano. Nonostante questo la sua sensibilità per il passato, per un tempo perduto, la sua attenzione alla bellezza armonica e il suo sentimento nostalgico ne fa emergere una sensibilità europea.

Il suo vivere il nostro presente e saperlo sincreticamente coniugare con un passato fascinoso lo porta a saper creare lavori che danno allo spettatore una vera alternativa. Ciò che è rappresentato è l’oggi ma con un’attenzione e sensibilità di ieri.

Fotografia di Jefferson Hayman (2)
West Side Fire, stampa al platino, cm 7,5x14
© Jefferson Hayman
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Jefferson Hayman ci suggerisce un nuovo modo di vedere, di ricordare. E questo suggerimento serpeggia per le vie di New York in cui ci accompagna in un viaggio nel tempo e nello spazio facendoci riscoprire ciò che ben conosciamo e facendolo gustare in modo nuovo.

Se poi per puro caso si troverà anche un dirigibile nel cielo sarà la conferma ulteriore che un po’ di poesia è ciò che manca.

Per suggerire delle riflessioni non è necessario scioccare, Jefferson Hayman cerca di farlo realizzando oggetti, unicum, creando bellezza. E’ il desiderio di creare qualcosa di bello a muoverlo.

Sarà quindi la bellezza a salvare il mondo. Fëdor lo sapeva già.

Fotografia di Jefferson Hayman (1)
Stripes, stampa ai sali d’argento, cm 17,8x14
© Jefferson Hayman
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Dal 25 ottobre al 23 novembre 2012 sarà possibile vedere dal vivo la prima personale italiana di Jefferson Hayman presso la galleria RBcontemporary di Milano.

In mostra saranno presenti più di quaranta lavori tra vedute di New York, nature morte, marine e ritratti.

 

Per ulteriori informazioni e fotografie si visiti il sito di Jefferson Hayman e della galleria RBfineart

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Un fotografo per caso, di Steven Nestor /it/2012/fotografo-per-caso-steven-nestor/ /it/2012/fotografo-per-caso-steven-nestor/#comments Wed, 12 Sep 2012 06:16:01 +0000 /?p=7870 Related posts:
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Fotografia di Steven Nestor (11)
© Steven Nestor
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Testo di Steven Nestor, foto di Michael e Steven Nestor.

 

Che si tratti del trascorrere degli anni, dei luoghi esotici o dell’estetica che le caratterizza, queste immagini scattate da mio padre quando aveva 43 anni sono diventate una testimonianza toccante del viaggio di una persona che stava attraversando il mondo per un breve periodo di tempo. Oggi, con una maggiore diffusione della fotografia tramite siti come Flickr e la nostalgia fabbricata di Hipstamatic, le immagini di una persona che faceva foto ben prima dell’arrivo dell’epoca digitale e di internet assumono un’importanza particolare. Queste immagini analogiche venivano scattate per il mondo domestico e in più non venivano manipolate. Venivano scattate semplicemente quando se ne presentava l’opportunità. L’idea che un giorno avrebbero potuto essere accessibili ad un pubblico globale era semplicemente al di là dell’immaginazione.

Fotografia di Steven Nestor (12)
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Per cominciare è necessario tenere in considerazione che mio padre non era fotografo nel senso proprio del termine. In pratica la pubblicazione di queste immagini automaticamente eleva e ridefinisce la persona dietro la macchina fotografica come fotografo, sebbene lo sia stato solo per un breve periodo di otto mesi della sua vita. Che io sappia queste sono le uniche immagini in esistenza, sia prima che dopo il periodo in esame.

Fotografia di Steven Nestor (10)
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Di dimensioni 90x90mm, le stampe originali furono tenute in due album fotografici con date e cronache scritte a mano sul retro delle stampe o su una legenda a parte. I negativi furono immagazzinati separatemene in soffitta in una scatola, sempre nelle buste originali del laboratorio. Lo scopo del mio lavoro con questo archivio personale è di raggruppare tutte le immagini in un corpo (o testimonianza) unico e di ri-presentarle e quindi offrire un rilettura e recontestualizzazione. Chiaramente non è dello stesso calibro del lavoro di un’artista come Vivian Maier, così cosciente del ruolo della fotografia e del fotografo. Questa piccola (ri)presentazione di circa 130 fotogrammi è ben diversa in scopo, abilità, soggetto ed estetica. Lo scopo principale di questo fotografo era di registrare i suoi viaggi e spostamenti in paesi stranieri aperti solo a pochissimi visitatori. In oltre, il pubblico previsto per le immagini era la famiglia o degli amici stretti, con un vocabolario del tipo “guarda questo”, “era”, “mi hanno detto che” e via dicendo.

Fotografia di Steven Nestor (9)
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Entrambi questi album fotografici sono caratterizzati dalla natura guidata delle fotografie all’interno dei confini del viaggio. Prima c’è il fotografo come turista nell’Europa sovietica e poi come giovane tenente nel Cipro del Nord in turno di servizio con l’ONU, dove la documentazione fotografica fu guidata da dettami degli obblighi militari e dalle escursioni programmate. Entrambi i viaggi hanno implicato l’attraversamento di confini e frontiere appena nati dai turbolenti avvenimenti recenti e dove la storia non aveva ancora deciso dove formare le frontiere degli stati.

Fotografia di Steven Nestor (8)
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È anche importante sapere che le immagini presentate sono per la maggior parte notevolmente più grandi rispetto agli originali e non tagliate (i bordi delle stampe del laboratorio coprono l’estremità dell’immagine sul negativo). Sono anche più “ricche” in confronto alle stampe originali del laboratorio, prive di rigore, anche se il restauro è stato limitato al minimo (alcune immagini in bianco e nero e a colori vennero stampate a mano nel 2007). Questo lavoro – di cui qui viene presentato solo un campione – è una revisione di un corpo di immagini più grande, benché i titoli e l’ordine siano rimasti fedeli all’originale.

Fotografia di Steven Nestor (7)
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Si noti anche l’uso della fotografia a colori durante il primo viaggio. In seguito ai risultati ottenuti, ci fu la deliberata intenzione di abbandonare il bianco e nero durante il turno di servizio militare. Perché? Venivano percepiti “meglio” i risultati a colori così come l’arrivo del digitale è stato visto come un “progresso”? Ho anche notato che mentre il periodo di Cipro viene supportato con documenti e lettere, l’ordine delle immagine nel loro album fotografico non è cronologico, e i mesi sostituiscono le date precise del giro europeo. Forse le foto monocromatiche invitano alla parola scritta più che quelle a colori.

Fotografia di Steven Nestor (6)
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Gli anni e luoghi in questione sono anche interessanti per quanto riguarda i soggetti presenti o al contrario assenti. La Guerra Fredda era diventata calda in Vietnam, Israele aveva recentemente sconfitto i suoi vicini nel primo dei tanti conflitti che sarebbero seguiti e il Nord Irlanda stava piano piano scivolando verso una protratta guerra intestina. Per esempio, dove sono in queste immagini le tracce della Primavera di Praga del 1968? Dov’è quell’atmosfera pungente catturata così vivamente di Koudelka? Era passato solo un anno. Chi c’era in quel carro armato giordano, diventato poi un trofeo, quando fu distrutto? Erano passati solo un paio d’anni. Se non fosse per questi negativi ritrovati, questo fotografo sarebbe rimasto anonimo come l’equipaggio del carro armato.

Fotografia di Steven Nestor (5)
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A livello umano sarei anche curioso di sapere chi sono le poche persone presenti nei fotogrammi. Chi sono quelle donne sul ponte di Praga? Erano gente del luogo o viaggiatori come mio padre? Trovo anche interessante quel braccio pesante presente nella foto della Porta di Brandeburgo e la donna che attraversa per sbaglio il fotogramma a Minsk. E quegli uomini che passeggiano sulla strada di Beirut; Qual’era l’impatto della Guerra Civile sulle loro vite? Furono messi l’uno contro l’altro? Come ultima curiosità, mi piacerebbe sapere quanti fotogrammi esistono di questo fotografo per caso. Quanti fotogrammi aveva scattato, che sia per sbaglio o meno?

Fotografia di Steven Nestor (4)
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Come estensione parziale e conclusione di questo lavoro, durante il mese di aprile del 2008 andai a Berlino con un provino dei negativi in bianco e nero della stessa città 39 anni prima. Volevo sapere se sarebbe stato possibile ritrovare le strade fotografate da mio padre. Il punto di partenza più ovvio era la Porta di Brandeburgo. Mi sono posizionato in un posto approssimativo dove fu scattata la foto originale, ma come prevedibile il luogo era notevolmente cambiato dopo la caduta del muro nel 1989: non più un luogo isolato tra due sfere ideologiche totalmente opposte. Comunque, “ri-fotografando” la Porta ero cosciente di non essere stato “fedele” all’originale. Invece di una giornata calda di Agosto, era un giorno piovoso, il luogo era affollato, urbanizzato e pieno di macchine.

Fotografia di Steven Nestor (3)
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Ciononostante, quando il giorno successivo arrivai sul Karl-Marx Allee, rimasi meravigliato da come fosse subito riconoscibile, proprio come nella foto originale. C’era ancora l’attraversamento pedonale e l’illuminazione pubblica. Perfino le lastre di pietra e le teche erano rimaste inalterate. Libero dalla folla e dalla pioggia, mi trovavo nello stesso punto a guardare un ambiente a malapena cambiato, ed attraverso una macchina fotografica molto simile (6×6) stavo affrontando un “mondo perso” che mi aspettavo essere completamente inaccessibile e assente. È difficile esprimere la sensazione profonda di quel collegamento visuale su una lastra di pietra qualsiasi, che era diventato all’improvviso una specie di nodo o punto di ingresso spazio-temporale. L’unica modifica significativa erano gli alberi ormai cresciuti. Dopo, mentre consideravo questa situazione imprevista, mi venne in mente una frase di Camera Lucida, dove Barthes descrive l’impressione che una foto del fratello minore di Napoleone aveva avuto su di lui: “Sto guardando gli occhi che guardarono l’imperatore” (Barthes, 1981: 3).

Fotografia di Steven Nestor (2)
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Dodici anni dopo che queste foto furono scattate, non lontano da Beirut, fu il fotografo stesso a venir preso da uno dei tanti vortici eterni del Libano. E mentre il titolo il fotografo per caso può suonare come una esagerazione – o addirittura persino ironico – le decisioni sull’uso del colore e sulla composizione alla fine avvicinano veramente mio padre al titolo di “fotografo”, per quanto per un periodo di breve durata .

 

Si visiti il sito di Steven Nestor per ulteriori informazioni e fotografie.

Fotografia di Steven Nestor (1)
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Fotografia di Steven Nestor (12)
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Testo e foto di Steven Nestor.

 

Il Phoenix Park di Dublino, più piccolo del Bois de Boulogne di Parigi, ma più grande del Central Park di New York, è uno dei più grandi parchi pubblici al mondo. Creato nel 1662 da re Carlo II per la caccia al cervo, sopravvive pressoché intatto, miracolosamente, da 350 anni. Un fatto tanto più notevole se si considera l’atteggiamento a volte un po’ “distaccato” della Repubblica Irlandese nei riguardi delle sue bellezze naturali e dei siti storici (in particolare quelli del tempo dell’Impero Britannico). Sia giusto o no, è stata avanzata all’Unesco la proposta di dichiarare Phoenix Park patrimonio dell’Umanità.

Fotografia di Steven Nestor (11)
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Fotografia di Steven Nestor (10)
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Per gran parte della mia vita, comunque, nel parco non sono entrato se non in auto quando avevo necessità di attraversarlo, oppure quando volevo visitare lo zoo situato presso l’ingresso principale. Solo nel 2007 cominciai ad andare nel parco e ad esplorarlo. Questo ritardato interesse si spiegava col mio appartenere a quella generazione di Irlandesi che per mentalità erano portati a rivolgersi verso l’estero, snobbando (non sempre senza ragione) quasi tutto quello che avevano a disposizione in patria. Passati cinque anni da quelle mie prime visite, i caratteri e la dimensione del parco continuano a colpirmi. Nonostante sia molto vasto e a tratti selvaggio, è possibile sentire e vedere il parco semplicemente come uno spazio verde aperto, con aree dedite alle più’ svariate attività, e come un luogo di scambi (non sempre leciti). Nella sua immensità, offre pace al viandante e possibilità di fuga dalla città frenetica rinchiusa entro le sue mura perimetrali. Dalla maggior parte del parco, Dublino si vede poco o niente, mentre dominano due maestose strutture di religione e di impero, la Croce Papale e il monumento a Wellington. Se, per scelta, non mi sono dedicato agli altri manufatti del parco, ebbene, questi due non è veramente possibile ignorarli.

Fotografia di Steven Nestor (9)
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Fotografia di Steven Nestor (8)
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Cominciai nel 2008 a esaminare il monumento di Wellington. Coi suoi 62 metri di altezza, l’obelisco ricorda un irlandese di nascita, il primo Duca di Wellington, con le sue vittorie di Waterloo e dell’India. È il più grande obelisco d’Europa, e sarebbe stato ancora più alto se il finanziamento pubblico non fosse venuto meno. Circondato da un ampio spazio aperto, è il naturale semaforo e il punto di smistamento per escursionisti solitari e di gruppo, per gente dedita a picnic e a partite di calcio. Attira i cultori di storia e di architettura, ma – io penso – sono in maggior numero quelli che ci vanno perché è una enorme struttura con gradini sui quali sedere ed un basamento sul quale arrampicarsi. Se a vedere l’obelisco ero abituatissimo, fotografarlo è stata invece una sfida, in quanto mi ha richiesto molta concentrazione per sviluppare una nuova impressione e dimenticare la vecchia. Dovetti poi estendere al resto del parco la de-familiarizzazione ma questo fu, in qualche modo, più facile, almeno all’inizio, dato che ampia parte rappresentava per me solo il nome di un luogo.

Fotografia di Steven Nestor (7)
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Fotografia di Steven Nestor (6)
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Quando Papa Giovanni Paolo II visitò l’Irlanda nel 1979, disse messa al Phoenix Park, dove era presente un terzo della popolazione irlandese prevalentemente cattolica. C’ero anche io, giovanissimo. Alzarsi con mio padre prima dell’alba e poi il treno per Dublino – questi i miei ricordi – e al parco gli scouts che convogliavano le ondate senza fine dei fedeli in arrivo. E qualcuno che sveniva, e la radio sintonizzata per sapere i movimenti del Papa. E il mio shock quando vidi la quantità gigantesca di escrementi nelle fosse sottostanti ai bagni provvisori. L’Irlanda era una nazione povera, con strade cattive e scarpe fruste, ma quel parco e l’Irlanda erano in quel momento al centro del mondo e ancora oggi una enorme croce bianca domina una collinetta nel punto dove era collocato l’altare. Oggi l’Irlanda non ha più l’ambasciatore del Vaticano, e la Chiesa Cattolica sembra implodere in una agonia inesorabile. Ma alla base della croce un mazzo di fiori è spesso presente, offerto dai riconoscenti Polacchi di Dublino.

Fotografia di Steven Nestor (5)
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Fotografia di Steven Nestor (4)
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Al di là di queste due maestose strutture, circa un terzo del parco è coperto da alberi tipo quercia, faggio, ippocastano, con una quantità di habitat naturali. Dato che in Irlanda la foresta, specie di latifoglie, è rara, tutta questa varietà, sia in bosco ceduo, sia in nodosi esemplari isolati, mi attrae e mi affascina particolarmente. Circondata come è da una città di circa un milione di abitanti, c’è qualcosa di inaspettato in quella presenza, così come nel vagare dei cervi. Così come c’è qualcosa di strano nella tipologia di quegli alberi, che uno si aspetterebbe di trovare lontano dalla città. Nella mia esplorazione del parco, all’inizio prevedevo di scattare in molti luoghi diversi, così da costruire una specie di mappa del parco. Invece, malgrado la dimensione del parco (o forse proprio per questa) sono spesso ritornato negli stessi punti a ri-fotografare lo stesso albero.

Fotografia di Steven Nestor (3)
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Il Parco ha significato, per me, immergermi nella vastità del suo spazio e cercare di trovare un senso nel suo volume al di là di storia e statistiche. Piuttosto che sull’ultimissimo tipo di fotografia digitale, ho scelto di andare sull’analogico (pellicole e formati). È stato usato in prevalenza un formato medio (quadrato), ma mi è anche capitato di usare pellicole scadute da tempo, una vecchia pellicola 126 e una macchina Vrede senza obbiettivo. Sentivo che tutto questo mi avrebbe aiutato ad ancorare la mia visione e il mio lavoro a questo parco vecchio di 350 anni. Usare queste tecnologie fotografiche obsolete mi ha portato all’estremo opposto delle frontiere tecnologiche. Il risultato: una rappresentazione a mio senso più autentica di questo enorme spazio storico. Non ho tentato di nascondere la mia ombra in qualche immagine, così lasciando una piccola traccia della mia personale presenza in questo lavoro. Inoltre, ho scelto di produrre qualche immagine sfuocata, anche per riflettere la mia personale miopia (oltre che per scelta estetica).

Fotografia di Steven Nestor (2)
© Steven Nestor
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Questo lavoro ha voluto dire mettere in memoria la foresta e tutto ciò che nel produrlo ho incontrato. Andare sul terreno ed essere completamente assorbito dal luogo e dal momento, anche se il Phoenix Park stesso sempre sarà più grande nel confronto con il Parco.

 

Per ulteriori informazioni e altre fotografie si visiti il sito di Steven Nestor.

Fotografia di Steven Nestor (1)
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Appunti Psicovisivi, di Pavlove der Visionär /it/2012/pavlove-der-visionar/ /it/2012/pavlove-der-visionar/#respond Sun, 22 Apr 2012 10:53:28 +0000 /?p=5028 No related posts. ]]> Pavlove der Visionär (12)
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Testo e foto di Pavlove der Visionär.

 

Incipit

Vi vorrei raccontare una storia, la storia di Pavlove il cane o meglio il cane di Pavlov e come da questo strano gioco verbale due anni fa ebbe inizio Inneres Auge1. Forse non tutti ricorderanno a cosa mi riferisco quando cito il cane di Pavlov, rinfrescherò la memoria ai più sbadati. Pavlov fu un fisiologo russo che alla fine dell’ottocento studiò i riflessi condizionati dei cani, una sorta di approccio scientifico per capire il funzionamento degli organismi viventi anche in relazione al proprio ambiente vitale. Non ho mai stimato quest’uomo che trattava gli animali come cavie, tuttavia mi ispirò per lo sviluppo di un progetto fotografico che pochi mesi dopo avrei deciso di chiamare Inneres Auge.

Pavlove der Visionär (11)
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L’idea di crearmi un alter-ego che andava in qualche modo ad invertire i sopracitati ruoli cane-scienziato, oramai noti nella storia dell’etologia, mi affascinava molto, avrebbe reso il mio progetto più distaccato ed oggettivo. Un cane, Pavlove, avrebbe così iniziato a studiare fotograficamente i comportamenti umani da cui era incuriosito.

L’Uomo in controluce nello spazio

Volevo approfondire visivamente alcune questioni che da sempre mi affascinano: le persone, gli spazi e le conseguenti relazioni che nascono dall’interazione tra i due. Come interagiscono le persone con i luoghi da loro vissuti quotidianamente? Qual è il fattore che ne definisce i reali equilibri? Sono le persone ad influenzare i luoghi o viceversa? Più erano le domande che mi ponevo più mi interessava provare ad andare a fondo della questione. Cercai di capire se ci fosse una scienza che studiasse la relazione tra persone e spazi, per prenderne spunto o quantomeno aver un’idea di massima dell’argomento. Incappai nelle teorie della cosiddetta Architettura abitativa, troppo poco emotive per darmi una risposta esauriente.

Pavlove der Visionär (10)
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Decisi di focalizzare il mio lavoro circoscrivendolo ad una cerchia mirata di persone da analizzare in modo da non cadere in grossolani errori deduttivi. Avrei preso in considerazione la categoria di “giovani creativi viventi in Milano”, intendendo per creativi persone capaci di creare o inventare qualcosa di nuovo applicato a qualsiasi ambito lavorativo. Avrei cercato di analizzare visivamente i più disparati ambiti della creatività fotografando gli stessi creativi negli spazi da loro vissuti. Un approccio quasi psicologico ad un lavoro che fin ad ora aveva ben poco di fotografico.

Pavlove der Visionär (9)
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Ego

Da questi presupposti Pavlove der Visionaer, identità sconosciuta ai molti, iniziò a sviluppare concretamente il progetto Inneres Auge. Crearsi un alter-ego avrebbe in qualche modo ostacolato la comunicazione con le persone che volevo coinvolgere nel progetto, ma lo trovavo un elemento fondamentale: chi contattavo non aveva in nessun modo la possibilità di crearsi nessun preconcetto sul mio conto. In questo modo emergeva il lavoro fotografico, l’idea, mentre il resto passava in secondo piano. Questa scelta dell’anonimato, anche se all’apparenza un’inutile rigidità che spesso faceva desistere le persone da me contattate, si è rivelata una scelta strutturale incidente e utile a garantire la sicurezza di coinvolgere persone realmente motivate a prendere parte al progetto.

Pavlove der Visionär (8)
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De Rerum Natura

L’organizzazione dei ritratti è stata la fase più delicata. Mi ero imposto di essere il meno invasivo possibile, dovevo essere una presenza-assenza, una sorta di registratore visivo inserito in un contesto quotidiano in cui una persona vive lo spazio, il suo spazio. Questa decisione incideva molto sulla tecnica fotografica di realizzazione del lavoro che, è stato eseguito in digitale con una Canon 5dMark II ed ha sfruttato unicamente la luce naturale degli ambienti. Mi interessava infatti che la luce diventasse insieme alla persona ritratta e allo spazio un elemento caratteristico del lavoro, motivo per cui ho apportato gli orari esatti di scatto a tutte le didascalie delle foto.

Pavlove der Visionär (7)
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Ad occhi chiusi

L’ultimo elemento di cui vorrei parlare è la scelta di chiudere gli occhi a tutti i creativi ritratti. In questo progetto volevo emergesse, come ho già detto, la relazione tra persone e spazi e allo stesso tempo mi piaceva l’idea di trovare un filo conduttore che unisse tra loro i creativi coinvolti. Avevo fatto alcuni esperimenti durante i primi ritratti senza grandi risultati fino a quando la risposta non venne da sé.

Pavlove der Visionär (6)
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Un creativo mi disse che per timidezza, nonostante gli piacesse molto il mio lavoro, avrebbe fatto molta fatica a farsi ritrarre e sarebbe stato probabilmente innaturale e rigido. Provai a fargli degli scatti ad occhi chiusi: subito il suo volto si rilassò lasciando la posa innaturale e tesa per un espressione tranquilla: riviveva finalmente il suo ambiente.

Pavlove der Visionär (5)
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Dopo questi scatti capii che gli occhi chiusi erano la direzione che dovevo seguire. Facendo chiudere gli occhi mettevo le persone in una condizione di rilassamento, quasi meditativa. Chiedevo loro di percepire con gli altri sensi lo spazio circostante cercando in qualche modo di entrarci in sintonia. Capito come interagire con i creativi ritratti, la strada è stata tutta in discesa, bisognava solo focalizzare di volta in volta gli spazi, studiarli attentamente e carpire il momento di maggiore sintonia tra la persona ed il suo luogo. Quel feeling che si crea solo con le cose a te care, con gli spazi che conosci bene perché in fondo ti rappresentano e tu rappresenti loro.

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La storia dietro le quinte

L’idea di questo progetto è nata nel 2009 tra Berlino e Milano le due città tra cui mi dividevo in quel periodo. Questa è la principale motivazione per cui il mio sito Pavlove der Visionär è nato in lingua tedesca. Per il mio dottorato di ricerca in comunicazione stavo realizzando una tesi sul concetto di cultural planning. Ho quindi passato mesi a leggere libri sulla gentrificazione e sulle teorie del rinnovamento e miglioramento urbano, rendendomi sempre più conto di quanto la cultura sia in grado di rigenerare e trasformare gli spazi. Per questo iniziai a rimanere affascinato dalle persone, in particolare i cosiddetti creativi, e l’ambiente in cui vivono e lavorano. I luoghi riflettono la personalità di coloro che li abitano ed è molto forte la relazione che si viene a creare.

Pavlove der Visionär (3)
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Nel 2010 ho lavorato a Milano in uno spazio che promuove l’arte contemporanea. Ogni giorno mi relazionavo con creativi di svariata tipologia e capii che sarebbe potuto essere interessante fotografarli all’interno dei loro ambienti lavorativi. Tutti i creativi fotografati furono fin da subito interessati al mio lavoro e al fatto di dover posare ad occhi chiusi, era un’idea così particolare che mi permise di trovare fin da subito persone disposte ad essere coinvolte. Il progetto si è sviluppato a Milano, Roma ed è in proseguimento anche a Berlino. Non è esiste una reale fine del progetto, il lavoro proseguirà naturalmente e probabilmente si concluderà con altrettanta naturalezza.

Pavlove der Visionär (2)
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Epilogo

Pavlove è tante cose, non è solo Inneres Auge, dal quale nascerà presto anche un’applicazione per Itunes. Un nuovo progetto è già in corso. Rizzate le orecchie e chiudete gli occhi2.

 

Per ulteriori informazioni si prega di visitare il sito di Pavlove der Visionär.

Pavlove der Visionär (1)
© Pavlove der Visionär
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  1. Occhio interiore n.d.r.
  2. Un ringraziamento speciale a Emanuele Cucuzza per il suo aiuto in questo progetto.
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Instant Revival, di Mauro Baldassarri /it/2012/mauro-baldassarri/ /it/2012/mauro-baldassarri/#respond Thu, 22 Mar 2012 17:20:57 +0000 /?p=4530 Related posts:
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Fotografia di Mauro Baldassarri
© Mauro Baldassarri
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Testo e foto di Mauro Baldassarri.

 

Polaroid. Tutto si fa passato così in fretta che io faccio il revival di ieri.

Così cantava nel 1986 Davide Riondino riferendosi a una tecnologia fotografica che a metà degli anni ’80 del secolo scorso poteva ancora a buon diritto dirsi attuale.

“Scatta e rivedi”: l’evoluzione del “voi premete il pulsante e al resto pensiamo noi” di Mr. Eastman cui è stato azzerato il fattore T. Il Tempo, che intercorre fra lo scatto e la visione del risultato finale.

La fotografia entra così nell’era della velocità, della sincronicità.

Le fotografie monumentali, realizzate negli studi, in posa, con l’abito della domenica, avevano già perso la loro sacralità travolte dalla rivoluzione del “rullino” e, prima ancora, da quella della Kodak, ma è il “pack” di Edwin H. Land a proiettare lo scatto dell’otturatore nella contemporaneità.

Con lo sviluppo istantaneo si completa anche il percorso di avvicinamento delle masse alla fotografia, liberata ora anche dall’ultimo ostacolo tecnico che si frapponeva tra lo scatto e la fruizione dell’immagine: lo sviluppo e la stampa. Allo stesso tempo però si compie anche il definitivo allontanamento della fotografia dal “lavoro” del fotografo, funzionale (anche) a determinarne il “valore”.

La cesura più radicale avviene però nei confronti del Tempo, per contrastare l’erosione del quale la fotografia (che “val più di mille parole”) si era alacremente adoperata. Produrre immagini fotografiche, prima ancora di essere Arte, è stata funzione di sostegno al ricordo, alla documentazione, al sentimento: strumento di resistenza allo scorrere del tempo, che cancella la memoria. Rivedere le fotografie era atto diacronico, che si compiva solo a distanza (di tempo, e di spazio): occorreva il tempo tecnico per le operazioni di sviluppo e stampa prima di vedere le immagini prodotte e quindi, sicuramente, sarebbero state viste “altrove” rispetto a dove erano state scattate. Rivedere le immagini diventava quindi anche rinforzo (della memoria, degli affetti).

L’azzeramento del Tempo muta sostanzialmente la prospettiva. Con la Polaroid tutto si fa passato così in fretta. Basta un “click”. Pochi istanti e “l’Istante” appena trascorso è già storicizzato sul quadratino dal bordo bianco, pronto a essere rivissuto, appunto, istantaneamente. Pronto a essere rievocato (forse) nelle ore successive e a essere archiviato (talvolta), insieme agli altri “monumenti” fotografici. Magari per ricomparire, decontestualizzato, dopo qualche anno.

Dopo la Polaroid continua, ora, a bastare un “click”. L’i-coso di turno registra fedelmente il nostro istante in una sequenza di zero e di uno per metterlo immediatamente in condivisione su LCD con chi dell’istante ha partecipato e, poco dopo, con il resto del mondo in rete sociale.
Un click, pallido residuato acustico di un passato elettromeccanico, al quale la contemporaneità digitale si aggrappa alla ricerca di un’identità riconoscibile (pensiamo a quanto ci sembra innaturale non sentire il suono dell’otturatore, al punto che è riprodotto artificialmente nelle compatte).

Tempo, memoria, identità: azzerato il tempo, non serve più l’immagine come rinforzo del ricordo e del sentimento. Cessa quasi anche di essere documento, che in quanto tale è prodotto, prova obiettiva, di un’attività “altra” da quella di conservazione della memoria. Meno che mai è monumento, caratterizzato dalla forte intenzionalità di essere strumento del ricordo e della celebrazione, da tramandare nel tempo futuro.

Elevato all’istantaneo, prima, e al digitale, dopo, l’atto di scattare fotografie si trasforma culturalmente: si fa contemporaneità, compresenza, sincronicità, superandosi, cioè potenziandosi, anche sul fronte della sacralizzazione dei fatti cui la macchina fotografica partecipa attivamente rendendoli “eventi”.
Bastava che in una circostanza data fosse presente una fotocamera per scatenare quella “comune reazione sociale alla presenza della macchina fotografica” che Ortoleva ha ben spiegato. Adesso in ogni momento siamo circondati da obiettivi; ogni istante, o quasi, dell’esistenza è fissato o fissabile. Ogni istante diventa Evento; e ogni evento lascia dietro di sé una scia di immagini.

Le fotografie “presenza feticcio del XX secolo” e “miglior surrogato della presenza reale” vengono quindi quasi a perdere la loro ragione di essere, la loro funzione di supporto, o surrogato, della memoria, sovraesposte, è il caso di dire, letteralmente da loro stesse.

Servono, invece, come rinforzo “qui e subito” dell’identità e dell’esistenza, sempre più smarrite e confuse, in costante pericolo: l’oblio è in agguato.
Siamo (non importa cosa: qui, famosi, belli, vincenti, divertenti); basta un attimo e non siamo più. E allora l’immagine deve essere veloce, a T=0, altrimenti il rinforzo non funziona, diventa memoria, ma quella interessa meno: l’esigenza è adesso.

Se siamo fortunati diventiamo revival, altrimenti ci aspetta l’oblio. Lo sappiamo, e cerchiamo di ignorarlo, ma ci facciamo i conti. E ci scattiamo fotografie.

“Facciamoci la foto” diventa così attività orizzontalizzata nel range di possibilità dell’essere, qui e ora (non tanto diversa, formalmente da “mangiamo un gelato” o “sediamoci li”). E’ facile, non bisogna aspettare per rivederla, è praticamente a costo zero ma è preziosissima nella toolbox emotiva e di straordinaria valenza esistenziale. La fotografia, istantaneità documentale, Diventa atto rassicurante del presente, ci conferma che siamo, adesso (non “eravamo”), proprio li.

E che forse, almeno per oggi, abbiamo speranza di continuare ad essere.

Domani, se tutto va bene, sarà revival.

Suggerimenti fono-bibliografici

  • D. Riondino, Polaroid, in Tango dei miracoli, 1986
  • J. Le Goff, Documento/Monumento, in Enciclopedia, Einaudi, Torino 1978, vol. V
  • P. Ortoleva, La Fotografia, in Introduzione alla storia contemporanea, La Nuova Italia, Firenze, 1984
  • E. Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, 1956 – Milano 1967 (Ed. It.)
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Maree marine, di Michael Marten /it/2011/maree-marine-di-michael-marten/ /it/2011/maree-marine-di-michael-marten/#comments Thu, 05 May 2011 19:44:29 +0000 /?p=7205 Related posts:
  1. Paura sulla città: Paris Match, Patrick Chauvel e Michael Wolf alla Monnaie di Parigi
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Marea, foto di Michael Marten (20)
Grain, Kent. 20 e 21 Febbraio 2008.
Bassa marea 17:00, alta marea 13:00
© Michael Marten
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Testo e foto di Michael Marten.

 

Nel 2003 ero alla ricerca di un progetto fotografico che sapesse esprimere i continui cambiamenti del paesaggio, non causati dall’attività umana ma dai processi naturali, quali il tempo atmosferico, l’erosione, i cambi di stagione. Tornando verso sud da Edimburgo, capitai per caso in un porticciolo sulla costa del Berwickshire, nel Sudest della Scozia. Era nascosto alla vista, anche dalla strada più vicina, ma fui attratto da un sentiero tra le scogliere. Arrivato giù in fondo, scoprii un tunnel lungo trenta metri, scavato a mano nell’arenaria rossa, che conduceva a quell’insenatura, una distesa di sabbia e sassolini durante la bassa marea. Passai tutta la giornata a scattare foto con la mia 5×4 Wista.

Marea, foto di Michael Marten (19)
Porto, Berwickshire. 22 August 2005.
Bassa marea 11:00, alta marea 18:00
© Michael Marten
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A casa, quando sviluppai le foto, vidi che avevo inquadrato più o meno sempre la stessa visuale, sia con la bassa marea al mattino, sia con l’alta marea nel tardo pomeriggio. Mi affascinava il contrasto tra le due sequenze, il modo in cui il crescente livello dell’acqua avesse cambiato completamente la prospettiva e l’atmosfera di quel paesaggio “in movimento”. Capii immediatamente che avevo trovato il mio progetto. Da allora mi sono messo a cercare i posti che offrono il dislivello più spettacolare tra bassa e alta marea, mentre come un vero studente cercavo di imparare il più possibile su questi fenomeni.

Marea, foto di Michael Marten (18)
The 'shore goats', Berwickshire. 19 Settembre 2008.
Bassa marea 11:45, 16:00, alta marea 17:40
© Michael Marten
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Nel 2004 tornai nel porto del Berwickshire. Costruito negli anni Trenta dell’Ottocento, verso la fine di quel secolo fu il terzo maggiore porto per la pesca delle aringhe sulla costa orientale della Scozia. Ora ospita due piccole barche e i fortunati visitatori che sanno della sua esistenza o che ci si imbattono per caso.

Marea, foto di Michael Marten (17)
Allevamento di salmoni, Solway Firth. 27 e 28 March 2006.
Bassa marea 17:20, alta marea 12:00
© Michael Marten
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Lungo la maggior parte delle coste del mondo, si registrano due maree ogni giorno, ma ho imparato presto che non tutte le maree sono uguali. Nel Mediterraneo il dislivello delle maree si misura in centimetri. In Gran Bretagna varia da un metro in alcune zone del mare del Nord fino ai quindici metri (la terza ampiezza nel mondo) nel Canale di Bristol. In uno stesso luogo, l’altezza varia ciclicamente con il passare del tempo. Ogni due settimane, nei quattro o cinque giorni di luna nuova e luna piena, le maree sono più alte. In inglese questi picchi si chiamano “maree primaverili”. Nel mezzo, quando la luna è in fase calante o crescente, le maree sono meno ampie: questa fase è chiamata “maree deboli”. Questo spiega perché l’alta marea nel Canale di Bristol può raggiungere un picco di quindici metri nella fase di “primaverile”, ma non supera i dieci metri nella sua fase “debole”.

Marea, foto di Michael Marten (16)
Cuckmere Haven, Sussex. 12 Agosto 2006.
Bassa marea 9:15, alta marea 14:50
© Michael Marten
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Ma anche questo è soltanto un aspetto del ritmo delle maree. Il livello dell’acqua cambia anche nel corso dell’anno. Le “marre primaverili” sono più alte nei mesi attorno agli equinozi: febbraio, marzo, aprile e agosto, settembre, ottobre. Una delle due “maree primaverili” in ognuno di questi mesi è particolarmente alta, ed è esattamente in queste circostanze che la marea nel Canle di Bristol raggiunge i 15 metri.

Marea, foto di Michael Marten (15)
Bedruthan Steps, Cornovaglia. 25 e 31 Agosto 2007.
Alta marea 16:30, bassa marea 14:00
© Michael Marten
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L’acqua non solo raggiunge il massimo livello durante le “maree primaverili”, ma è anche il momento in ci si ritira più lontano. Questi sono i periodi ideali per le mie foto: quando le spiagge vengono interamente sommerse durante il flusso e quando gli scogli sono completamente scoperti durante il reflusso.

Marea, foto di Michael Marten (14)
Worms Head, Glamorgan. 25 Giugno 2005.
Alta marea 9:45, bassa marea 16:00
© Michael Marten
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La Gran Bretagna non è una grande isola per gli standard internazionali, ma facendo il giro di tutti i promontori, baie, estuari, e laghi di mare le sue coste misurano 17800 km! Ho fotografato le maree inglesi durante 8 anni, e ho coperto solo una piccolissima parte di tutta la costa.

Marea, foto di Michael Marten (13)
North Berwick, East Lothian. 20 Agosto 2005.
Bassa marea 11:15, alta marea 15:40
© Michael Marten
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Così, quando la gente mi chiede se ho intenzione di fotografare le maree del Mont Saint-Michel o nella baia di Fundy sulla costa nord orientale d’America, che vanta la più alta escursione di marea nel mondo (16 metri), rispondo che ho materiale più che sufficiente per andare avanti per anni qui a casa! La costa inglese non è solo lunga, è anche straordinariamente varia. Ci sono lunghe spiagge sabbiose, scogliere di gesso bianco, estuari, porti industriali grandi e piccoli, paludi salmastre alimentate dalla marea, ed enormi e piatte estensioni di sabbia e fango come la Baia di Morecambe, dove la marea corre più veloce di un cavallo al galoppo e gli incauti, tra cui 21 raccoglitori cinesi di molluschi nel 2004, sono stati spesso raggiunti dalla marea morendo annegati.

Marea, foto di Michael Marten (12)
Perranporth, Cornovaglia. 29 e 30 Agosto 2007.
Bassa marea 12:00, alta marea 20:00
© Michael Marten
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Da quando ho iniziato a interessarmi alle maree ho trascorso ore e ore a consultare i volumi pubblicati dallo Centro Idrografico del Regno Unito. Non è solo una questione di sapere in quali giorni le “maree primaverili” si verifichino in un particolare anno, ho anche bisogno di sapere i tempi di bassa e alta marea in ogni posto che voglio fotografare. Oggi, per esempio, le alte maree sono a 5:45 e 18:35 a Southampton, 08:40 e 21:18 a London Bridge e 10:50 e 23:45 a Newcastle. Domani tutti questi tempi avanzeranno di un fattore compreso fra 20 minuti e 45 minuti, e lo stesso succederà il giorno dopo e il giorno dopo ancora.

Marea, foto di Michael Marten (11)
Southend-on-Sea, Essex. 10 Settembre 2010.
Bassa marea 7:45, alta marea 14:00
© Michael Marten
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Il Centro Idrografico del Regno Unito è un ente che fa capo al ministero della Difesa. Le tabelle di marea che produce sono pubblicate sotto forma di voluminosi libri che dettagliano le ore di massimo e minimo, le altezze delle maree, e altri parametri durante l’anno per tutti i porti in giro per le isole britanniche – e ci sono un sacco di porti in Inghilterra.

Marea, foto di Michael Marten (10)
Blackpool, Lancashire. 16 Agosto 2010.
Bassa marea 11:20, alta marea 16:00
© Michael Marten
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Più ho fotografato le maree, più sono stato affascinato dalle loro complesse variazioni. Così mi sono messo in contatto con la Centro Idrografico del Regno Unito per vedere se potevo parlare con qualcuno in grado di rispondere ad alcune mie domande. Per esempio, perché una delle due alte maree ogni giorno è sempre un po più alta rispetto all’altra (variazione diurna)? Ed è vero che le maree non solo vanno avanti e indietro da un lato all’altro di un bacino oceanico, ma sono in realtà una sorta di onda circolare che ruota ogni 12 ore intorno a uno “zero di marea” chiamato il punto amfidromico? Il Centro Idrografico del Regno Unito, ho scoperto, si avvale di un capo delle maree e un vice capo delle maree e questi due scienziati un pomeriggio molto gentilmente hanno trascorso un paio d’ore per rispondere a tutte le mie domande.

Marea, foto di Michael Marten (9)
Cockenzie, East Lothian. 23 Agosto 2005.
Bassa marea 10:40, alta marea 19:30
© Michael Marten
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Le maree, mi hanno insegnato a scuola, sono causate dall’attrazione gravitazionale della luna sull’acqua presente sulla terra. In realtà la luna è responsabile solamente per due terzi dell’effetto e il sole per il terzo rimanente. Quando la luna e il sole sono più o meno in linea con la terra – come accade nei periodi di luna piena (plenilunio) e luna nuova (novilunio) – la loro attrazione si somma e provoca le maree primaverili. Quando la luna, il sole e la terra sono fuori allineamento, l’attrazione dei corpi tende ad annullarsi e otteniamo le ‘neap tides’. Ciò che rende i ritmi delle maree così complessi, è il combinarsi della forza d’attrazione della luna mentre orbita attorno la terra, e quella del sole mentre la terra gli gira attorno.

Marea, foto di Michael Marten (8)
Holehaven Creek, estuario del Tamigi, Essex. 10 e 11 settembre 2010.
Alta marea 16:20, bassa marea 10:15
© Michael Marten
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L’intervallo di tempo tra alta e bassa marea dura circa sei ore e venti minuti, ma si tratta appunto di una media. In alcuni posti la marea può impiegare otto o nove ore ad alzarsi, ma solo tre o quattro ore ad abbassarsi. O viceversa, oppure qualunque valore fra questi due estremi. E anche se i tempi delle maree sono vicini alla media, questo cambierà di giorno in giorno: oggi la marea nel grazioso porto di St Ives, in Cornovaglia può richiedere 6 ore e 17 minuti per raggiungere il massimo, domani 6 ore e 30 minuti, e il giorno dopo 6 ore e 8 minuti.

Marea, foto di Michael Marten (7)
Wivenhoe, Essex. 23 Marzo 2007.
Bassa marea 9:30, alta marea 16:15
© Michael Marten
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La risposta alla domanda se le maree sono onde rotazionali è affermativa. Nel Mare del Nord, per esempio, ci sono tre sistemi separati, o spirali di marea, che circolano in senso antiorario. Ognuno ruota attorno al suo punto di non marea. È possibile visualizzare la marea come una piastra piatta tipo un disco duro o un vinile leggermente inclinato. Il lato della piastra che sporge verso l’alto rappresenta l’alta marea, il lato opposto è la bassa marea. Quando il piatto gira, l’alta e bassa marea si alternano. Nella parte meridionale del Mare del Nord, per esempio, l’onda di alta marea spazza la lunga costa orientale dell’Inghilterra, poi passa dall’altro lato per viaggiare lungo le coste di Olanda e Germania nord-occidentale prima di spazzare la costa occidentale della Danimarca e dirigersi poi nuovamente verso l’Inghilterra. Quando la marea è alta sulla costa inglese è bassa in Danimarca, e viceversa.

Marea, foto di Michael Marten (6)
Bacino di stoccaggio Mussel, Brancaster Staithe, Norfolk. 10 Marzo 2005.
Bassa marea 13:00, alta marea 17:30
© Michael Marten
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Quindi, le maree sono davvero onde di marea circolari, una sorta di ciclico tsunami bi-quotidiano a cui tutte le forme di vita marina si sono adattate, dalle alghe e cozze ai surfisti e velisti. Quando un vero e proprio tsunami si avvicina una costa, le acque prima si ritirano dalla riva per poi tornare nell’onda del maremoto. Si tratta di una versione ad alta velocità del riflusso delle acque di bassa marea che poi ritornano di nuovo con l’alta marea.

Marea, foto di Michael Marten (5)
Watchet, Somerset. 7 e 8 Marzo 2007.
Bassa marea 15:45, alta marea 9:30
© Michael Marten
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Qualcuno dice che i miei “dittici” trasmettono serenità e una dimensione senza tempo, il che potrebbe far pensare che il lavoro di appostamento e di preparazione sia altrettanto rilassante. Scattare la foto con l’alta (o bassa) marea, e poi girellare allegramente per sei ore aspettando che la marea torni su (o se ne vada). Non è proprio così.

Marea, foto di Michael Marten (4)
St Michael's Mount, Cornwall. 25 e 26 Giugno 2009.
Bassa marea 13:15, alta marea 8:00
© Michael Marten
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Di solito rimango nel tratto di costa prescelto -per esempio il nord ovest del Galles o l’estuario del Tamigi- nei cinque giorni di “marea primaverile”. Cerco sempre di arrivare con un paio di giorni d’anticipo per poter esplorare l’intera zona e individuare i punti migliori. Questo si può fare solo con la bassa marea, che permette di vedere ciò che verrà sommerso dal mare e quello che il mare rivelerà ritirandosi. Scelgo diverse possibili location lungo la costa, anche a settanta chilometri di distanza l’una dall’altra. E, anche in uno stesso luogo, individuo almeno due o tre punti di osservazione. L’alta marea è sempre un momento impegnativo. Visualmente il mare si mantiene al suo massimo livello per circa un’ora. In quel lasso di tempo, cerco di scattare foto da tutti i punti di osservazione selezionati, correndo a piedi o in macchina. La bassa marea tende a essere più rilassante perché l’acqua resta ai minimi durante tre o quattro ore.

Marea, foto di Michael Marten (3)
Crosby, Liverpool. 5 e 7 Aprile 2008.
Alta marea 12:00, bassa marea 9:00
© Michael Marten
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Quando scatto la prima foto del dittico, segno la posizione del mio treppiede con dei bastoncini, delle pietre o delle piccole incisioni sulla roccia, per poterlo ricollocare esattamente nello stesso punto sei ore più tardi, o il giorno successivo. Sistemo anche un foglio di carta da lucido, formato 5×4, sullo schermo della macchina fotografica e traccio a matita le linee prospettiche che rimarranno invariate – uno scoglio, un molo, un tratto di costa in lontananza e ovviamente l’orizzonte. Questo mi permette di inquadrare la seconda immagine del dittico esattamente come la prima. Da quando ho iniziato ad usare una macchina digitale (Phase One), uso uno schermo di messa a fuoco con griglia e prendo note dettagliate sulla posizione dei punti più evidenti della scena rispetto alle linee della griglia stessa.

Marea, foto di Michael Marten (2)
Porthcawl, Glamorgan. 17 Maggio 2007.
Bassa marea 12:00, alta marea 20:00
© Michael Marten
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Osservando le maree risulta evidente che per quanto il pianeta possa essere plasmato, manipolato e danneggiato dalla potenza dell’uomo, i suoi ritmi profondi sfuggono alla nostra influenza. Nei suoi processi geologici e naturali di varia natura, la terra è più forte, più sottile e più persistente di quanto possiamo immaginare. Molti scorci delle mie foto non esisteranno più tra cento o duecento anni, quando il surriscaldamento globale avrà provocato un innalzamento del livello del mare di diversi metri. Per la vita delle città costiere di tutto il mondo il cambiamento sarà devastante. Ma per il pianeta sarà solo un episodio minore. I livelli del mare hanno subito variazioni di oltre cento metri durante l’era glaciale: nient’altro che una marea determinata dal clima, più profonda e più lenta, che si alza e si abbassa nell’arco di decine e centinaia di migliaia di anni invece che due volte al giorno.

 

Per ulteriori informazioni e fotografie della marea, si prega di vistare il sito di Michael Marten.

Marea, foto di Michael Marten (1)
Wells-next-the-Sea, Norfolk. 10 Settembre 2006.
Alta marea 8:40, bassa marea 15:00
© Michael Marten
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The end of the game, di Gianpaolo Arena /it/2011/gianpaolo-arena/ /it/2011/gianpaolo-arena/#respond Fri, 25 Mar 2011 05:10:51 +0000 /?p=4380 Related posts:
  1. Discrete apparenze, Jean-Marie Francius
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Gianpaolo Arena (6)
© Gianpaolo Arena
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Testo di Gianpaolo Arena e Steve Bisson. Fotografie di Gianpaolo Arena.

 

Mi inoltro all’interno del bosco nelle ore iniziali del mattino di una tiepida giornata di novembre. Le foglie e gli alberi sono ancora rigidi e induriti dal tagliente freddo della notte ma alla ricerca del conforto dei primi, esili raggi di sole mattutini. La luce entra debolmente all’interno della fitta vegetazione. La terra è dura sotto i miei piedi.

Guardandomi intorno mi accorgo che gli alberi che formano questo bosco sono piccoli indizi rivelatori di segnali precisi. Subito dopo mi appare chiaro di muovermi in una ragnatela scomposta che collega luoghi, atti e persone. Come le pagine di un libro da leggere ed interpretare, mi aggiro con aria interrogativa cercando di decifrare questi segni, senza però rinunciare all’abbandono momentaneo della suggestione e dell’emotività.

Gianpaolo Arena (5)
© Gianpaolo Arena
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Tra le maglie di una vaga geografia umana emerge la figura di questo ecosistema chiuso, il Montello, un rilievo collinare che sorge a sud dell’attuale corso del fiume Piave. È stata un’area ferita e segnata dall’inarrestabile corso della storia: nel ’500 ricca riserva di querce per i cantieri navali della Serenissima, nel ’900 teatro di scontri sanguinosi nelle fasi finali della prima guerra mondiale. Luogo frequentemente e lungamente raccontato dai letterati: da monsignor Della Casa che, ospite nella abbazia di Nervesa ora distrutta, scrisse il celebre Galateo, fino a Giovanni Comisso e ad Andrea Zanzotto con il suo Il Galateo in bosco. Nel 1959 è l’ambientazione cinematografica per La Grande Guerra di Mario Monicelli…

Oggi come nel passato è ancora un luogo di insediamenti economici e fitti attraversamenti escursionistici. Un turismo, sia domenicale sia settimanale, lo occupa e lo attraversa con alterna frequenza. Luogo d’eccellenza, per chi rifugge i ritmi della città e desidera trascorrere una giornata all’aria aperta, è abitato da indigeni dalle caratteristiche e dai modi ormai molto simili a quelli dei cittadini inurbati.

I cambiamenti dinamici della storia mi permettono di ripercorrere con la memoria alcune tappe, di afferrare alcuni pezzi di essa, di acquisire conoscenza relativamente alle cose, agli effetti fisici ed ai processi. Sono incoraggiato a sfiorare con la mente ciò che era e ciò che è stato. Ipotesi, ricordi, avvisaglie, testimonianze sono miniature e dettagli che emergono attorno a me mentre cammino tra gli alberi e mi suggeriscono nello stesso tempo un racconto fatto di percorsi, relazioni, trame, esistenze, destini. Cammino nella terra nuda, una terra che è fatta anche di ossa. Le rocce e le pietre descrivono un microcosmo capace di raccontare, senza sbavature, anche altre cose.

Gianpaolo Arena (4)
© Gianpaolo Arena
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Mentre sono perso nei miei pensieri e mi faccio guidare dalle sensazioni e dal fervore emotivo percepisco l’eco di alcune voci distanti. Mi avvicino seguendone il flusso e vedo un gruppo di soldati in lontananza. Dopo la prima rapida e curiosa occhiata, allungo lo sguardo sulle loro figure e riconosco le sagome di alcuni bambini. Quella strana ed eterogenea aggregazione riunisce persone di varia età ed appartenenza sociale. La loro presenza all’interno di un bosco, la mattina presto, in tempi di relativa pace sociale è abbastanza insolita. Tutti vestiti e accessoriati come militari pronti per la legione straniera. Giacche, pantaloni, anfibi, cinture, occhiali, guanti, coltelli, fucili sono le caratteristiche distintive che superficialmente rendono queste persone un gruppo. Nello stesso tempo però il loro essere individui è reso monocorde e indifferenziato dalle loro divise.

Li seguo mentre si muovono e si sparpagliano nel bosco alla ricerca di spazio, radure, naturali sfoghi fisici al loro desiderio di azione e movimento. Una pista da motocross, durante le giornate primaverili ed estive, è occupata occasionalmente in altro modo. Le ferite inferte alla terra dalle ruote delle moto mutano aspetto e sembianze. L’immobilità e la staticità che caratterizzano la pelle e il corpo di quel luogo, e che lo rendono tale da centinaia e migliaia di anni, diventano movimenti repentini e scostanti. È in atto un cambiamento improvviso e insignificante agli occhi di quel bosco. Comincia una danza involontaria, scomposta e irregolare. È il gioco della guerra. Nello stesso tempo però è la fine del gioco.

Gianpaolo Arena (3)
© Gianpaolo Arena
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Caino e Abele (di Steve Bisson)

L’uomo cerca la natura, da sempre. Ne fa parte. È un bisogno diffuso, acclarato e indiscutibile. Esso ha innescato nei secoli azioni asimmetriche e processi raramente lineari, talvolta discordanti.

Qualche tempo fa l’amico e fotografo Gianpaolo Arena mi ha chiesto di scrivere un pensiero su una serie di immagini realizzate sul Montello. È un’area collinare i cui boschi hanno fornito, per secoli, la materia prima necessaria per costruire le fondamenta di quella che resta una delle città più straordinarie al mondo: Venezia.

Queste fotografie ritraggono alcuni uomini travestiti da combattenti armati, intenti a personificare una sorta di gioco della guerra. In fondo, chi da piccolo non ha sognato di fare la guerra? Certo i costumi e le armi erano molto meno tecnologici e sofisticati, ma in fondo la nostra visione del mondo da adulti non è poi così lontana da quelle facili distinzioni tra guardie e ladri, tra buoni e cattivi. Le figure di Caino e Abele da sempre dividono la storia a metà.

Gianpaolo Arena (2)
© Gianpaolo Arena
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Però a guardare bene la faccenda non è così semplice: questi moderni guerrieri sono quasi tutti adulti, non ci sono donne, e la verosimiglianza con i reali soldati maschera qualcosa di inquietante. Si tratta ancora di una simulazione?

Crescendo il gioco diventa “tempo libero”, non è più parte del modo scherzoso e innocuo di vivere la giornata e le relazioni con gli altri. Esso diventa attività marginale e perde l’innocenza e la spontaneità tipica dell’età infantile. Più che di una esibizione di forza si tratta del tentativo di liberare istinti e desideri repressi, o ancora, di sfogare frustrazioni e delusioni.

La natura quindi non è solo uno sfondo, ma torna ad essere la madre che abbraccia, un rifugio dove mimetizzarsi. Questa serie fotografica ci mostra anche la fine del gioco tradizionalmente inteso; ovvero la perdita di naturalezza. Non a caso l’indagine di Gianpaolo Arena si spinge oltre il teatrino inscenato dai rambo della domenica, per ritrarre campi di basket divorati dall’erba e giochi di una volta abbandonati dai bambini divenuti “grandi”. Attraverso questa altalena tra presente e passato possiamo leggere i segni di un’evoluzione in chiave moderna dell’attitudine al gioco. Meno intuito, semplicità e fantasia e più calcolo, malizia e imitazione.

Gianpaolo Arena (1)
© Gianpaolo Arena
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Il Paesaggio Trascurato, di Stefania Figuccia /it/2010/stefania-figuccia/ /it/2010/stefania-figuccia/#respond Tue, 07 Dec 2010 20:23:43 +0000 /?p=4240 No related posts. ]]> Stefania Figuccia (16)
© Stefania Figuccia
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Testo e fotografie seguenti di Stefania Figuccia.

 

L’arcipelago delle Isole Egadi è formato da tre piccole isole a ovest della Sicilia: Favignana, Levanzo e Marettimo. Se durante la stagione estiva esse sono un’ambita meta turistica, e le loro strade sono colme di turisti in cerca di relax e spiagge paradisiache, alla fine di questi tre mesi i ristoranti, gli alberghi e i negozi di costumi chiudono i battenti per riaprire solo l’anno successivo. A quel punto l’immagine dell’arcipelago propagandata dalle agenzie di viaggi e dalle riviste lascia un vuoto che fagocita la vita invernale, proponendo un’estetica univoca non priva di interessi economici.

Stefania Figuccia (15)
© Stefania Figuccia
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Dall’assenza di informazioni al riguardo di questo fenomeno è nato il mio bisogno di esplorare le Egadi durante il periodo invernale e di mostrarne un’immagine inedita e più spontanea, l’immagine di un’isola che non è pronta ad accogliere nessuno.

Prima di partire avevo solo un variopinto ricordo dell’Isola nel periodo estivo: gente rilassata, gelati gocciolanti e un silenzioso mare turchese. Ricordavo come si vive un’Isola ad Agosto: ci si alza solo per immergere i piedi in acqua, si prosegue con un caffè, pedalata in bicicletta, pennichella all’ombra e poi di nuovo, si ricomincia. Si termina con la passeggiata in paese, perché in fondo un po’ di pettegolezzi ci vogliono sempre, soprattutto in vacanza. Si sfoggia l’ultimo cappello acquistato in uno dei pochi negozietti presenti sull’Isola, si beve una birra fredda al porto e poi a casa a smaltire l’insolazione mattutina. Insomma, una piacevole e immaginabile routine.

Stefania Figuccia (14)
© Stefania Figuccia
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Sapevo che uno stile di vita del genere durava solo tre mesi all’anno, che le ferie finiscono presto e gli aerei del ritorno aspettano deserti nell’aeroporto di Trapani, che a Ottobre l’Isola si svuota e riprende il suo ritmo, strappandosi la maschera patinata e riconquistando così la sua identità e i suoi veri abitanti. Eppure, pur riuscendo vagamente a intuire questa realtà, non l’avevo mai vissuta personalmente.

Volevo tornare dal mio viaggio con un centinaio di immagini spiazzanti, per me stessa e per la gente, che avrebbe così avuto modo di rapportarsi alle Isole attraverso un’estetica nuova, diversa da quella delle guide turistiche, fatta di pioggia e nuvole piuttosto che di spiagge dorate e mari azzurro stile Hawaii: volevo mostrare come si comportano appena il turismo le gira le spalle.

Stefania Figuccia (13)
© Stefania Figuccia
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Arrivai così a Favignana, dopo un tormentato viaggio in aliscafo in balia del maltempo. La prima impressione dell’Isola fu indefinibile: non riuscivo a capirla, non riuscivo a inquadrarla in un’ottica definita. Favignana appariva completamente diversa da come l’avevo trovata d’estate. I negozi erano quasi tutti chiusi, ad eccezione dei bar in cui si svolgeva la vera vita dell’Isola, qualche panificio e i due supermercati, uno dei quali esiterei a definire “super”. Le strade la mattina venivano attraversate da gente a piedi o in bicicletta che sembrava avere una qualche occupazione; destra, sinistra, avanti, dietro, su e giù, e così via, innumerevoli volte, sempre le stesse persone. Eppure dopo poco tempo mi viene data la conferma che nessuno di loro sta svolgendo una qualche attività: stanno solo facendo sì che la giornata scorra. Il proprietario del piccolo bar del porto, un grande uomo nato in Sudafrica, mi svela, con non poco sdegno, che la maggior parte dei residenti passa l’inverno con le mani in mano, cercando un lavoretto qua e là, mentre le ditte di costruzione che approdano a Favignana per rifarne il look portano con sé operai stranieri.

Stefania Figuccia (12)
© Stefania Figuccia
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La mattina le donne si mostrano in pubblico per fare qualche acquisto dopo il quale vengono inglobate dalle loro case come insetti da una pianta carnivora. Gli uomini intanto si rilassano e scherzano nei bar fino a ora di pranzo, e poi dal pomeriggio fino a ora di cena. Dalle 17:00 in poi la gente inizia a scomparire e chi resta diventa un fantasma. La luce si dilegua e l’Isola inizia il suo sonno, lontana da sguardi indiscreti. Era proprio quello il momento che mi interessava. Il tramonto non era solo quello del sole: con esso si affievolivano i contorni e le specificazioni, le risposte nette e le idee chiare, mentre il paesaggio si spandeva sopra gli occhi e sotto i piedi.

Stefania Figuccia (11)
© Stefania Figuccia
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Si, forse quella che ho avuto è stata una visione eccessivamente romantica delle Isole, che poi è “l’errore” commesso un po’ da tutti i visitatori, il filtro che non permettere di prendere sul serio questi luoghi, perché, si sa, ognuno di noi va sulle isole inseguendone una visione personale, e proprio per questo nessuno riesce a vederle per quello che sono, a riportarsi indietro un’immagine pura di esse.
Avevo appena capito che non sarebbe stato facile realizzare un reportage fotografico, mostrare agli altri le Isole d’inverno, perché anch’io, come tutti, non ero andata lì per impregnarmi di loro, ma per rispecchiarmi con calma in un luogo che me ne lasciasse il tempo e lo spazio. Mi aspettavo un paesaggio “disponibile”. La mia serie iniziava così a mostrarsi per quello che era realmente. Leggere tutti quei tomi sulla storia delle Isole Minori dal paleolitico ad oggi, analizzarne l’immagine proposta sulle riviste, capirne le usanze e le tradizioni, si era trattato solo di una bugia. Scoprirle prigioniere di un passato storico avvincente e violento, sottomesse, sfruttate o premiate da un intricato mosaico di popoli, intuire che si lottò per viverci e vedere come la battaglia ancora continui, non riusciva tuttavia a darmene una visione disinteressata e quasi oggettiva. Fino ad allora mi era piaciuto immaginarle come enigmatici personaggi di una saga, come aspetti del carattere di una sola persona, come luoghi di finzione, ma era proprio questo l’approccio da abbandonare. Intanto continuavo a scattare.

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Trovai il luogo perfetto in cui rinchiudermi quando il buio era tale da impedire qualsiasi attività: l’enorme bar ristorante in stile navale che raccoglie i personaggi più avventurosi e mondani dell’Isola. Il gestore si chiama Rino: col suo accento nordico – ha origini torinesi – e l’aspetto tipico del marinaio, Rino accoglie i clienti con un domanda apparentemente scorbutica: “Che vuoi?”. Ma una volta fatta l’abitudine, la sua figura rincuora, soprattutto dopo varie birre.
Non riuscivo più a distinguere i giorni della settimana, il lunedì era uguale al venerdì o alla domenica, così come non distinguevo le 21:00 da mezzanotte.

Camminando la mattina per i vicoli di Favignana, mi imbattei in uno strano fenomeno canoro. Passando davanti alla finestra di una casa, vidi attraverso le tende un uomo con un microfono in mano: in piedi di fronte a una gigantesca tv, stava cantando il testo sullo schermo. Si trattava di quella vecchia canzone di cui non conosco il titolo e che mi cantava sempre mia nonna mentre puliva i piatti. Il ritornello dice più o meno: ”Tu si ‘na malatia…” Mi stavo quasi per commuovere quando, proseguendo la passeggiata, mi ritrovo davanti un’altra finestra, stessa scena, ma stavolta era una ragazza a far sentire all’intero paese la sua voce da usignolo. Il karaoke è una delle passioni locali.

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La mattina della partenza andai al porto che, per la prima volta dopo il mio arrivo, era aggredito da forti onde e da un vento impetuoso. Nel vetro della biglietteria un foglio diceva: “Tutte le corse sono sospese causa maltempo”. Senza più alcuna possibilità di fuga, ho optato per un caffè consolatorio. Davanti al bar un ragazzo dall‘espressione triste, braccia incrociate, sguardo verso l’orizzonte, mi guarda e mi dice qualcosa di incomprensibile. Gli chiedo cortesemente di ripetere e lui risponde, lapidario: “Brutto giorno per uscire dal carcere.”

Nonostante le piccole dimensioni dell’Isola, Favignana ospita infatti un carcere, situato proprio al centro del paese. I turisti non lo notano nemmeno, occupati a godersi la vacanza, ma in inverno le strade vuote e silenziose lo rendono più imponente. L’uomo che avevo incontrato era un insegnante tunisino che, per noia e voglia di avventura, aveva lasciato il lavoro e pagato una bella somma per salire su un barcone diretto a Lampedusa. Dopo essersi ritrovato in un centro per immigrati clandestini si era recato a Como dove, nonostante le forti discriminazioni, era riuscito a trovare un lavoro come operaio: dieci ore al giorno per guadagnare discretamente. Dopo essere stato beccato varie volte senza permesso di soggiorno era stato arrestato e spedito al carcere di Favignana per sei mesi. Nel giorno del nostro incontro al porto era stato appena rilasciato e aveva appena appreso della morte della madre. A causa delle avverse condizioni climatiche, però, non aveva potuto lasciare l’Isola. Disse: “Sono libero e neanche me ne posso andare: e stanotte dove dormo?”

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Avendo già un buon numero di foto di Favignana, decisi di visitare la vicina Levanzo, nella quale non ero mai stata. Avevo però coltivato un’idea felice di quel paesino, frutto di tutte le volte che lo avevo osservato da lontano.

Arrivata li, dopo sei minuti di aliscafo, mi trovai davanti il piccolo porto. Il colore predominante era il bianco e, forse grazie alla splendida giornata, quel posto mi sembrò particolarmente sereno. A dominare la scena era un bar dalle dimensioni esagerate, il bar Arcobaleno. Entrai. Ad accogliermi fu l’anziana signora che gestiva l’attività, anche se “attività” è un eufemismo, dato che sull’Isola non c’era anima viva. Alla mia richiesta di un caffè rispose con un po’ di dispiacere: “Ho spento la macchina del caffè perché tanto qui non c’è quasi nessuno”. Acquistai una coca cola e approfittai di quella pace per scambiare quattro chiacchiere con lei. Mi raccontò del periodo d’oro di Levanzo, di quando era giovane e sull’Isola c’era vita anche in inverno, della sofferenza per i figli mandati a scuola a Palermo, della famiglia installatasi a Trapani, dell’attuale solitudine e della sua anomala paura del mare, dovuta forse ai medicinali, forse ai suoi 83 anni.

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Uscendo dal bar iniziai il mio breve giro per il paese. Nell’arco di qualche ora vidi più o meno una ventina di persone e un piccolo negozio di alimentari, per il resto casette e stradine in salita: il paese è veramente piccolo, tutto il resto dell’Isola è natura. Camminando lungo una strada sterrata a strapiombo sul mare si arrivava al cimitero. Era un luogo di pace, diverso dalle calche di tombe delle grandi città: poche lapidi chiare, tutte decorate da foto di ultra ottantenni, niente bambini, niente giovani, ogni cosa sembrava testimoniare una vita giusta e felice.

Tornando in paese mi informarono del rischio di non poter tornare a Favignana a causa dell’improvviso cambio meteorologico. La mia breve permanenza a Levanzo si concludeva così con una corsa verso l’ultimo aliscafo disponibile e un viaggio di ritorno tormentato ma per fortuna breve. Purtroppo ero riuscita a fare poche foto.

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A differenza delle altre isole, Marettimo mi incuteva timore. La osservavo incuriosita dal faro di Favignana pensando a quando mi sarei trovata li. Cercavo di immaginare il paese e il paesaggio ma non riuscivo a fuggire da un’idea claustrofobica che la sua sagoma nera e altissima mi ispirava. Elevata e a strapiombo sul mare, lontana e spesso inaccessibile a causa della sua posizione, Marettimo è la più selvaggia delle Egadi. Un’Isola ideale per gli avventurosi amanti del mare, meno per le famiglie e per me. Tuttavia non vedevo l’ora di trovarmi li per constatare se la mia impressione aveva un riscontro reale.

Il giorno della mia partenza per Marettimo, svegliandomi avevo trovato una piacevole sorpresa: una splendida giornata di sole e calma piatta. Il viaggio in aliscafo al tramonto fu rilassante e tranquillo, così come l’arrivo.

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Davanti l’appartamento che avevo preso in affitto riposava un setter bianco chiazzato, particolarmente simpatico: mi salutò e cercò di saltarmi addosso in uno slancio affettuoso. Durante la prima uscita lo rincontrai quasi subito, e fece la stessa scenetta eccessivamente espansiva. E poi di nuovo, ad ogni giro e vicolo, a ogni traversa, il setter rispuntava in continuazione per farmi festa. Era ubiquo, quel cane! Poi, finalmente, quando mi ritrovai in uno spiazzo aperto e ne vidi un gran branco, capii che non si trattava dello stesso animale, ma di decine di setter uguali. Qualcuno mi spiegò che erano stati portati sull’Isola in quanto cani da caccia ma di razza mansueta e affettuosa. Presto, come molti dei residenti, iniziai a odiare quei cani insopportabilmente simpatici.

Non credevo che il paese fosse così piccolo e i suoi abitanti così pochi. Tutte le strade erano deserte e, di sera, illuminate da luci arancioni, tipo set di Jack lo Squartatore. C’erano due piccoli negozi di alimentari, due bar, un tabaccaio e una macelleria. La gente che non era chiusa dentro casa, all’arrivo di ogni traghetto o aliscafo affrettava il passo per recarsi al piccolo porto e accaparrarsi il posto migliore, cioè una panchina di fronte al mare dalla quale osservare l’attracco dei mezzi. Credo che quello fosse il momento mondano della giornata, quello in cui si commentavano le condizioni climatiche e chi restava si informava su chi partiva o tornava.

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Mi accolsero con la faccia sorpresa: “Ma che ci fai qui in questo periodo?” Era come se si vergognassero di mostrare ai “forestieri” la condizione di isolamento in cui vivevano d’inverno. Raccontavano il grande cambiamento che l’Isola affronta nella stagione estiva, quanto è bella e vitale d’estate, come si ripopolano le case adesso abbandonate ai venti. In inverno invece a Marettimo resta chi ci ha passato la vita intera, chi non vuole abbandonarla fino alla fine, ovvero pescatori ormai di una certa età, i pochissimi negozianti, spesso di Trapani, che ogni settimana fremono per scappare sulla terraferma almeno due giorni, e qualche giovane che passa il tempo esattamente come i più anziani: ricordo ad esempio un gruppetto di ragazzine sedicenni sedute al bar a bere caffè e giocare a briscola.

A Marettimo si respira l’aria fresca di montagna e anche il mare ha un altro sguardo, più cupo e ardente. Il paese è concentrato vicino al porto, le case sembrano rannicchiarsi e stringersi una contro l’altra per ripararsi dal forte vento che spesso tormenta l’Isola, ma che la gente del posto sembra tollerare con amore e pazienza.

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Erano trascorsi due giorni e il mio brevissimo soggiorno era arrivato a conclusione, la sveglia aveva suonato senza essere ascoltata e avevo perso l’aliscafo del ritorno. Dopo un iniziale momento di panico decisi comunque di correre con le valigie verso il porto, ma il mio passo fu rallentato dagli sguardi ironici della gente. Tutti, tranne me, avevano intuito che quel vento avrebbe annullato il viaggio di ritorno: quello che avevo perso sarebbe stato l’ultimo aliscafo dei successivi due giorni. Da Marettimo partiva solo un ultimo traghetto qualche ora dopo ma, osservando le onde del mare, preferii aspettare. Rimasi comunque sulla panchina del porto ad osservarlo arrivare (esattamente come faceva la gente del posto): oscillava da un lato all’altro con un movimento che anche a distanza provocava un principio di conato di vomito. Grande idea quella di non prenderlo.

Negli ultimi due giorni ho notato la vita negli interni delle case che, a differenza di quelle di Favignana, sono come tane, sigillate da tende e imposte chiuse. Dagli interni non provengono rumori di alcun tipo, niente musica, niente chiacchiere o discussioni, niente tv ad alto volume. Credo che quello sia il regno solitario delle donne che non ho visto durante quei giorni.

Marettimo è stata la rivelazione di questo viaggio. La immagino sempre lì, in mezzo al mare agitato, a continuare la sua vita con il suo aspetto malinconico e attraente.

Tornando in città risulta difficile continuare a credere che quella realtà continui a esistere, anche lontana dagli occhi; le isole quando non le si vede si dissolvono, sprofondano nel mare e i suoi abitanti con loro.

Stefania Figuccia (2)
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La prova della loro esistenza è data solo da qualche articolo sul giornale che racconta in breve dei difficili collegamenti o dei giorni di isolamento durante i giorni di maltempo.

Le isole sono il luogo della contraddizione, entrambe le facce della moneta. Vi andiamo d’estate per sfuggire alla città, ai problemi sentimentali, alla noia, andiamo per dimenticare e le rendiamo luoghi di libertà, scrigni del sole e del benessere. Ma poi a settembre torniamo alla nostra vita e le abbandoniamo, ignari della loro imminente trasformazione.

“Il Paesaggio Trascurato” non è un reportage sulle Isole Egadi in inverno, ma la testimonianza di un paesaggio censurato in quanto poco commerciale. È il ritratto di una presenza umana che si manifesta solamente come figura fantasmagorica o come luce d’interni, di un mondo in cui sono gli animali a popolare gli spazi.

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Stefano Ruzzante, o della “beauté en abyme” /it/2010/stefano-ruzzante-beaute-en-abyme/ /it/2010/stefano-ruzzante-beaute-en-abyme/#respond Wed, 30 Jun 2010 06:13:22 +0000 /?p=3861 Related posts:
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Fotografie di Stefano Ruzzante, testo di Alberto Finotto.

 

Una modella posa e un fotografo scatta.. La magia (se di magia si può parlare) è tutta qui.

(Stefano Ruzzante)

Stefano Ruzzante (13)
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Lo sguardo intimo accompagna Alice fino alla porta segreta, in un respiro di attesa emozionato, con il battito del cuore trattenuto dalla meraviglia. Dopo un passaggio in ombra, è l’occhio desiderante di un nuovo Cappellaio Matto a condurre il gioco dell’innocenza. L’innocenza che arriva al sogno fatato, a una sorta di magia panica che seduce l’osservatore. All’astrazione di un’identità finalmente riconosciuta e pacificata.

Stefano Ruzzante (12)
© Stefano Ruzzante
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Stefano Ruzzante è, nel mondo multiverso della fotografia d’arte, il nuovo Cappellaio Matto in un paese di Meraviglie estatiche. Conduce con mano sapiente, nelle sue segrete stanze, la trama di un’épos contemporaneo ancora seducente: l’obiettivo ha desiderato e trovato la modella ideale e la ritrae in una luce di verità sospesa e delicata. L’Icaro è vulnerabile, ma il fuoco ne lambisce appena le ali, con gentilezza, senza interromperne l’arco del volo siderale. Ma l’épos dove accade? Quali terre sorvola e comprende nella sua ellisse di pensiero e azione espressiva?

Stefano Ruzzante (11)
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Il luogo di poesia creato da Ruzzante assume lo spazio di una stanza vuota, consunta dagli anni e ancora abitata dai fantasmi del sentimento; si tramuta in una vasca d’acqua lucente, ornata da un contrappunto di petali, come fosse un ninfeo; finisce negli anfratti immacolati di una cucina hi-tech, e, ancora nelle trame d’acciaio di un’installazione concettuale. Per finire nei colori del buio, nel baluginare di corpi avocati alla tenebra, in frammenti di pelle lunare evinti alla plasticità dei tessuti. È in questo luogo che si rivela, alfine, la poesia: ospite inattesa e sperata, specchio disvelatore di un eterno femminino che ricerca, inesausto, la sorgente perenne dell’élan vital.

Stefano Ruzzante (10)
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Se guardiamo alle immagini luminose tratte dall’opera “Almost Gold” – con la modella Breath come protagonista – ci accorgiamo di uno strano fenomeno. La connotazione materica dell’ambiente si stempera nella sensualità della donna-archetipo, creando un effetto quasi magico, senza dubbio spirituale. Un effetto ripreso nei paesaggi arcani di “Arkizoic”, episodio realizzato nell’atelier di Duilio Forte, sfruttando lo spazio creativo post-industriale rivisitato dall’artista designer. Anche in questo caso Breath, musa prediletta da Ruzzante, è un mito sostanziale alla realtà – o, meglio, alla sua rilettura poetica -, l’angelo caduto sulla terra del fuoco e del ferro, una terra del sogno che chiede di essere conosciuta, riportata alla dimensione del tangibile, di una fruibilità immaginifica del qui e ora.

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Senz’altro, la dimensione favorita del fotografo milanese è quella dell’incontro, dell’attimo che scaturisce, puro, da un rapporto fondato sulla fantasia condivisa, trasformata in elemento di reciprocità. L’”Upcoming Secret” di Isabella – altra modella dall’aspetto tizianesco, quasi ieratico – porta alla loro propria disvelazione i frammenti di un simbolismo provocante, mai programmatico, omogeneo a un’idea di eros futurista (seguendo una delle direttrici tematiche cardine del lavoro di Ruzzante). A volte, viene da pensare al caleidoscopio poetico di Lewis Carroll: vi si trova la stessa aria allusiva, di monito all’innocenza di volare nell’universo indicibile con la mente e con lo sguardo. Un monito lanciato con la massima libertà, nella convinzione nicciana che “tutte le cose diritte mentono. Ogni verità è ricurva e il tempo stesso è un circolo” (Also sprach Zarathustra).

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Il rapporto con tra Ruzzante e la modella coinvolge anche il rapporto di entrambi con lo spazio e gli oggetti della quotidianità. Ruzzante conosce i codici di un nuovo naturalismo estetico, con tutta l’importanza attribuita alla tecnologia e a una sorta di “profilo della modernità”. L’immagine tratta da “Maryssa in the kitchen” è quella di una farfalla nel suo ambiente artificiale/naturale, ormai accettato come spazio di un volo libero contemporaneo. Ci soccorre, a questo proposito, una reminiscenza cinematografica. Quando il protagonista del film “Dillinger è morto” (di Marco Ferreri) cerca di riappropriarsi di un rapporto sensato con l’ambiente iperrealistico che lo circonda, trova soltanto la morte e l’inutilità di ogni speranza. Al contrario, la soluzione catartica di Ruzzante è quella del gioco con lo spazio, lontano da ogni tentazione macabra, pervaso da un sentimento di “curiosità ottimistica” e stupita. D’altra parte, il movimento e l’occhio della modella tradiscono l’appagamento dell’attimo, la coscienza quasi di un mutuo riconoscimento e dell’accettazione del gioco.

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Gli elementi ispiratori di Ruzzante richiamano, anche, il surrealismo e la libera associazione. Come se Man Ray, improvvisamente, avesse deciso di non rinunciare all’”estetica della narrazione”, accostando l’identità della modella agli automatismi della psiche, e seguendo, “dietro lo specchio” di un simbolico tableau vivant, la vicenda sentimentale del soggetto.

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Il rapporto di Ruzzante con le sue modelle si svolge nella corrente di una complicità superiore, nell’accordo tacito di una promessa finale: tu mi dirai, alla fine, che cosa sono; cercherai ancora, dentro di me, la linfa vitale del sogno, corrotta e inaridita ma ancora inessicabile dalla necrosi del mondo. Oppure, mostrerai allo stesso mondo, come una sfida, la malinconia della mia bellezza, l’amore che mi svela e mi consuma, la dolce caduta e la risurrezione che tu solo hai reso possibile.

Stefano Ruzzante (5)
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Arkizoic, Breath, Secret, Excel, Vanesia, Naixa sono le denominazioni di altrettante “stanze” e identità femminili che trascorrono nella poesia di Ruzzante. Un accenno, fondamentale, all’universo fetish connaturato alla fotografia dell’artista: può fornire un dispositivo di trasgressione ma ne costituisce, anche, la necessaria sprezzatura. La rappresentazione è quasi discreta, lontana dal rischio di una teatralità estrema che potrebbe apparire, ormai, afona e ridondante. La trasgressione di Ruzzante è vicina, piuttosto, a una mise en abyme della passione; ossessiva, scabrosa, volutamente scevra da compromessi fané e da ipocrisie intellettuali. Testimonianza totale di un artista che non intende rinunciare alla sua missione primigenia: una ricerca, eterna e immaginifica, della bellezza assoluta.

Stefano Ruzzante (4)
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Essi dimorano nel Paese delle Meraviglie;
Sognano mentre i giorni passano,
Sognano mentre le estati si dileguano.

Mai vengono trasportati dalla corrente…
Ma, immobili, indugiano nel barlume d’oro…
Cos’è la vita, se non un sogno?

(Lewis Carroll, Through the Looking Glass)

  Per più informazioni e foto si prega di vistare il sito di Stefano Ruzzante.

Stefano Ruzzante (3)
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