Nudo – Camera Obscura /it A blog/magazine dedicated to photography and contemporary art Fri, 22 Jan 2016 13:24:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.5.3 Il nudo nel XXI secolo, di Paolo Romani /it/2015/nudo-paolo-romani/ /it/2015/nudo-paolo-romani/#respond Tue, 15 Sep 2015 19:48:37 +0000 /?p=9503 Related posts:
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Fotografia di Paolo Romani (4)
© Paolo Romani
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Testo e fotografie di Paolo Romani.

 

Il “punctum” attrae irrazionalmente lo spettatore per un particolare dettaglio della foto.

Il fotografo consapevole delle regole che governano la relazione fra l’ “operator” (il fotografo) e lo “spectator” (chi guarda la foto) cerca disperatamente di inserire il “punctun” per attrarre lo spettatore.

Roland Barthes in Camera chiara lo spiega, nell’indagare la differenza che esiste tra il mondo reale e la sua rappresentazione fotografica.

Questo incipit, per raccontarvi una storia curiosa e divertente che mi coinvolse quando dovevo realizzare un servizio fotografico di nudo femminile. Nella fase di “studium” incontrai in una agenzia di modelle il responsabile, per scegliere la modella adatta alle mie esigenze. Venne il giorno che dovevo realizzare gli scatti fotografici, e restai deluso da un particolare che non avevo previsto ma che era importantissimo per il lavoro che mi accingevo a realizzare.

Fotografia di Paolo Romani (2)
© Paolo Romani
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La modella era glabra, rasata, senza un pelo!

Fui molto brusco e chiusi la seduta. Il Direttore dell’agenzia mi chiamò per telefono chiedendo spiegazioni; nonostante fosse stato pagato, chiesi scusa. Era successa una cosa non prevista, per colpa mia.

La modella non aveva peli pubici, e per il mio servizio che puntava sull’erotismo, quello era importantissimo anche per il tipo e lo stile d’immagine che facevo.

Il Direttore scoppiò in una risata fragorosa, oggi sono tutte così, se vuole una modella con il pelo deve ordinarla qualche mese prima… E bla bla… ahhaahahh!!!

Così concordammo di chiedere ad un’altra modella di prepararsi per un servizio fotografico di nudo tre mesi dopo.

Fotografia di Paolo Romani (1)
© Paolo Romani
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La mia richiesta “assurda” circolò fra i fotografi e le modelle; si sapeva che c’era un fotografo “pazzo” che chissà che razza di perversione ha contratto… vuole una modella col pelo!

Un mio amico fotografo mi incontrò e ridendo mi disse tutto quello che circolava sul mio conto, ogni racconto finiva con una grande risata.

Passò circa un anno da quell’episodio, quando tutta la stampa internazionale parla di un negozio di New York che vende intimo femminile, in occasione di San Valentino ha allestito le vetrine con manichini che indossano mutandine dalle quali fuoriesce un folto pelo pubico nero.

Vetrina di American Apparel
© American Apparel
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È stata una grande idea quella del pelo pubico!

Del resto anche Gustave Courbet nel lontano 1886 quando dipinse ” l’origine del mondo ” fece scandalo, non per il primo piano dei genitali femminili, ma perché li riprodusse nello stile iperrealista con una selva di peli pubici neri. Fino a quel momento parlarne o rappresentarlo era considerata pornografia. Poi la guerra del pelo continuò fra Guccione e Hugh Hefner; il primo introdusse il nudo con pelo lussureggiante e surclassò le vendite di Play Boy.

Alla fine riuscii a fare il servizio fotografico, ma quando la modella mi fece domande sull’argomento, le raccontai la vita com’era nel dopo guerra.

Fotografia di paolo Romani
© Paolo Romani
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Negli anni del dopo guerra, ricordo che noi andavamo al mare con costumi di lana, uomini e donne, e tutto andava bene finché non si decideva di fare il bagno, il costume con l’acqua si allungava e allargava, e quando uscivamo dall’acqua dal costume uscivano due baffi di peli pubici. La gente non usava ne profumi, ne creme, e tutti avevamo un odore di selvatico, l’arrapamento continuo ci ha permesso di ripopolare l’Italia.

Ora una bella fica depilata, profumata, elegante non ha più niente di umano, non ci fa arrapare, inoltre i profumi, anche i più costosi, ci ha tolto anche il gusto di un bel piatto di pasta all’amatriciana, perché se ci capita vicino al nostro tavolo una donna troppo profumata ci toglie anche quel piacere. E come tutte le storie che si rispettano c’è anche una morale : “semo nati pè tribolà, noi ce semo riusciti ! Che ce lamentamo affà?”.

Fotografia di Paolo Romani (3)
© Paolo Romani
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I sensi di colpa del voyeur, ovvero “antichambre avec vues” di Elene Usdin /it/2012/antichambre-avec-vues-elene-usdin/ /it/2012/antichambre-avec-vues-elene-usdin/#respond Wed, 04 Apr 2012 13:03:36 +0000 /?p=4540 Related posts:
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Fotografia di Elene Usdin (11)
© Elene Usdin
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Giusto di fronte a keyhole di Erwin Olaf, un’altra galleria di Art Paris espone un’installazione che supera la tipica bidimensionalità fotografica: antichambre avec vues d’Elene Usdin.

In fondo allo spazio dedicato alla galleria Esther Woerdehoff infatti, è stata costruita un’intera stanza all’interno della quale sono disposti vari oggetti e fotografie. Elene Usdin, prima di diventare fotografa e illustratrice, ha studiato arte decorativa, formazione che si riflette nel suo lavoro successivo. Elene Usdin costruisce quindi buona parte dei decori, degli abiti e degli accessori che utilizza nelle sue fotografie. In questo caso sono esposti insieme alle stampe proprio alcuni degli oggetti utilizzati nelle fotografie, il tutto realizzato con estrema cura.

Fotografia di Elene Usdin (8)
© Elene Usdin
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La sensazione è che di fatto per Elene Usdin l’opera artistica non si limiti alla fotografia in sé, gli oggetti e la loro realizzazione non sono dei semplici strumenti necessari unicamente al prodotto finale, al contrario tutto il processo creativo, nelle sue varie fasi e sfaccettature, costituisce nel complesso l’opera artistica. Ecco quindi che nella antichambre avec vues di Elene Usdin fotografie, abiti, decori, muri e tutta la stanza stessa, si trovano globalmente sullo stesso piano, in maniera indissociabile, costituendo appunto l’installazione artistica, intesa come opera nella sua totalità.

Fotografia di Elene Usdin (9)
© Elene Usdin
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Si entra camminando su un lungo e soffice tappeto rosso, posato nel mezzo della morbida moquette blu a motivi floreali. La stanza stessa è tutta giocata nelle tonalità del blu e dell’azzurro: i pannelli con trompe-l’œil, le mura dipinte a tinta unita e la carta da parati che fa pendant con gli arabeschi della moquette.

Vari oggetti riempono la stanza: delle sedie e poltrone sulle quali sono posati degli abiti da altra epoca, ma con un tocco di fantasia moderna, valigie sovrapposte, lampade, pantofole e calzettoni, scrigni e cofanetti. La cura dei dettagli è stupefacente. Lungo le due pareti laterali sono invece esposte le fotografie di Elene Usdin.

Fotografia di Elene Usdin (10)
© Elene Usdin
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Vari personaggi femminili -tutti autoritratti messi in scena- in posa in una camera d’hotel. antichambre avec vues nasce infatti come il seguito naturale della collaborazione iniziata con photo d’hôtel, photo d’auteur, un interessante progetto lanciato da HPRG: giovani fotografi emergenti vengono invitati a passare una notte in una stanza d’hotel, alla fine della quale dovranno scegliere un’unica fotografia e un testo ispirati dalla loro esperienza. Elene Usdin, cui è stata data carta bianca per la creazione della sua installazione, ha associato un personaggio famoso ad ogni stanza d’hotel in cui si è trovata: Giuseppina di Beauharnais all’Hôtel des Grands Hommes, George Sand a l’Hôtel Panthéon, Simone de Beauvoir a l’Hôtel Design Sorbonne, Isadora Duncan à l’Hôtel Jardin de l’Odéon e infine Juliette Récamier a La Belle Juliette. La serie di fotografie è quindi costituita dagli autoritratti di Elene Usdin, che immagina come queste cinque donne famose si sarebbero comportate nell’intimità della camera d’hotel che è stata loro attribuita.

Fotografia di Elene Usdin (5)
© Elene Usdin
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I personaggi delle foto di Elen Usdin, sono ripresi per lo più sul letto della loro camera, o su di una poltrona, a volte in situazioni incongrue e vagamente ironiche, come l’imperatrice Giuseppina, la poltrona su cui è quasi sdraiata, posata sopra al letto dalle lenzuola immacolate. Quasi tutte stanno dormendo, o perlomeno si trovano in posizione allungata, anche se spesso fanno vagare le gambe in posizioni curiose, quasi si annoiassero e manifestassero il proprio languore giocando col proprio corpo.

Fotografia di Elene Usdin (4)
© Elene Usdin
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Quello della gambe in movimento è anche il tema del video in stop motion intitolato les Impatiences, che è il nome popolare usato in francese per la sindrome di Ekbom. Nella parete centrale della camera ricostruita in antichambre avec vues infatti non ci sono fotografie, il tappeto rosso conduce dritto ad una porta, nella quale sono praticati due fori, un po’ come nei film erotici a sfondo voyeuristico. Dietro a questi viene proiettato appunto il video les Impatiences di Elene Usdin.

[youtube 72RqZ1PiMuc nolink]

Nei muri ai lati della porta sono praticate due fessure, bordate da una sottile cornice rossa. Dietro a queste sono esposte due fotografie di nudo, sempre tratte dalla serie di autoritratti di Elen Usdin ambientati nelle camere d’hotel. La posa è decisamente classica, ricordano le cartoline erotiche della belle époque, allora considerate come immagini puramente pornografiche mentre oggi farebbero quasi sorridere. Eppure, mentre guardo attraverso la fessura nel muro, mi sento proprio come un voyeur da film di una volta, con un misto di eccitazione vagamente morbosa e sensi di colpa, come se il cinema, internet, le pubblicità e soprattutto le mostre di fotografia non contenessero fotografie infinitamente più osé di questa. Faccio vagare lo sguardo sulle gambe nude, il deretano in bella mostra, la fessura del sesso e mi sembra proprio di fare qualcosa di estremamente trasgressivo, mi sento esattamente come immagino si sentissero i nostri nonni e bisnonni di fronte a fotografie come questa.

Fotografia di Elene Usdin (7)
© Elene Usdin
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Inizio a pensare che il fatto di guardare attraverso un foro sia qualcosa che risuona con prepotenza con il mio modo di sentire, oltre al recente keyhole di Erwin Olaf, mi viene subito in mente l’esperienza con le autochrome alla mep. Come se in tutti questi casi potessi guardare attraverso un’apertura su un altro mondo, in senso quasi psichedelico. Idea di cui non sono il solo a subire il fascino, tanto per citare l’esempio più famoso, non a caso i Pink Floyd in the wall chiedevano ripetutamente “C’è qualcuno là fuori?”. Come se di fatto i fori sfruttati come stratagemma espositivo, potessero veramente proiettarci in una realtà diversa, in un mondo altro, al di fuori della sfera esistenziale corrente.

Fotografia di Elene Usdin (1)
© Elene Usdin
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Il semplice espediente della fessura, il modificare quello che è il modo di guardare, trasforma in maniera prepotente tutta la percezione fotografica. Un’immagine che forse non mi avrebbe colpito in modo particolare, si trasforma invece in un’esperienza molto più vasta e complessa. È in atto una vera e propria trasfigurazione della fotografia. Il fatto di inserire un’immagine fotografia in un’opera tridimensionale, in un’installazione artistica, ne riscrive completamente le modalità di fruizione, rendendo l’esperienza visiva molto più completa e potente, immergendoci non solo fisicamente e soprattutto emotivamente nel cuore di un’opera artistica.

Fotografia di Elene Usdin (6)
© Elene Usdin
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Le analogie con quello che l’esperienza vissuta con keyhole di Erwin Olaf è evidente. In entrambi i casi si tratta di guardare attraverso un’apertura, che sia il buco della serratura o il foro di un voyeur poco importa. Le due opere sono praticamente gli unici esempi di esposizione fotografica presente ad Art Paris che va al di là della classica esposizione bidimensionale. In entrambi i casi la riscrittura della modalità visiva si è tradotta in una forte risposta emotiva da parte mia, in cui il senso di colpa è uno degli elementi principali. Cosa sicuramente voluta, visto che le due installazioni giocano sui temi estremamente vicini di vergogna e voyeurismo.

Fotografia di Elene Usdin (3)
© Elene Usdin
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La cosa divertente è che nel grande padiglione di Art Paris, la galleria Rabouan Moussion che espone keyhole di Erwin Olaf e la galleria Esther Woerdehoff che espone antichambre avec vues sono praticamente una di fronte all’altra. Mi viene subito in mente un caso analogo, quando a Paris Photo sex di Atta Kim e coït di Frédéric Delangle erano esposti praticamente dirimpetto. Eppure in questo caso, oltre alle considerazioni sempre valide citate ne l’ironia del nuovo, vale la pena sottolineare che -al di là delle analogie- sebbene le due installazioni esplorino temi vicini, il risultato, il messaggio, la realizzazione visiva, sono completamente diverse. Nessunissima impressione quindi di ridondanza, le due installazioni sono perfettamente complementari. In ogni caso, uno dei maggiori interessi dell’arte contemporanea, è appunto vedere dove approdano due artisti diversi intenti a lavorare sullo stesso tema.

 

Per ulteriori informazion su antichambre avec vues, oltre al sito di Elene Usdin, si visiti l’annuncio della mostra sul blog HPRG.

Fotografia di Elene Usdin (2)
© Elene Usdin
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Pinholeswap 2011: “Culo” /it/2011/pinholeswap-2011-culo/ /it/2011/pinholeswap-2011-culo/#comments Fri, 11 Feb 2011 16:15:38 +0000 /?p=4356 Related posts:
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Fabiano Busdraghi culo
Culo - Zoneplate 6x6cm su carta Hahnemühle 15.5x15.5cm ed 15 + 2 pa
© Fabiano Busdraghi
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Come ogni anno da un po’ di tempo a questa parte (2008, 2009 e 2010) partecipo al Pinholeswap, uno scambio di auguri natalizi sotto forma di fotografie stenopeiche.

Molto spesso fra le foto ricevute si annoverano foto stenopeiche di babbo natale, nanetti, pini agghindati, statuine di renne e tutte le altre possibili rappresentazioni dell’iconografica natalizia. Personalmente non amo questo genere di fotografie e ho sempre avuto voglia di mandare qualcosa di un pelo dissacrante.

Mi son finalmente deciso e quest’anno ho spedito una foto che si intitola “culo”, cosa che dovrebbe esser sufficiente ad indicarne il contenuto. In realtà non è che sia una fotografia molto dissacrante, ma non volevo offendere nessuno.

La fotografia è stata scattata a mano libera con una Canon Mark-s II su cui ho installato un zoneplate e un flash settato sulla massima potenza, visto che una delle caratteristiche che più mi attirano nello zoneplate è la luminosità e gli aloni che si creano nelle zone delle alte luci.

Come al solito una certa cura è stata posta nella stampa e nella preparazione della busta, anche se quest’anno non mi sono lanciato in nessuna particolare tecnica alternativa come avevo fatto gli anni precedenti. La stampe è una semplice getto d’inchiostro sulla Hahnemühle Museum Etching 350g 100% cotone che ho verniciato con due mani di una lacca protettiva lucida della Tetenal, in modo che non si possa graffiare la stampa e soprattutto che i neri vengano fuori belli saturi e brillanti, visto che non amo la resa delle carte opache. Stampa 6x6cm su carta 15.5×15.5cm in edizione di 15 esemplari più 2 prove d’artista.

Per quanto riguarda le foto ricevute, devo dire che sono abbastanza deluso, al punto che non credo partecipare l’anno prossimo.

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La legittimità delle pratiche fotografiche e “One” di Hudson Manilla /it/2011/one-hudson-manilla/ /it/2011/one-hudson-manilla/#respond Sun, 30 Jan 2011 13:54:19 +0000 /?p=4324 Related posts:
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Foto di Huson Manilla (6)
© Hudson Manilla
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Un paio di settimane fa Hudson Manilla mi ha gentilmente spedito una copia del suo nuovo libro elettronico. Oltre a scriverne una breve recensione, colgo l’occasione per discutere un po’ della controversia che nacque sulle pagine di Camera Obscura quando Hudson Manilla inviò il suo saggio Feeling The Moment.

Immediatamente dopo la pubblicazione venne infatti postato un commento al vetriolo a proposito delle fotografie di Hudson Manilla. L’autore dell’intervento, con un certo sprezzo, si chiedeva retoricamente se bisognasse prendere sul serio le fotografie di nudo in questione, e se questa fosse o meno “arte”. Subito numerosi lettori di Camera Obscura (lettori fra l’altro che non commentano regolarmente gli articoli pubblicati) presero le difese di Hudson Manilla, sottolineando la qualità del suo lavoro. Temevo la discussione degenerasse, ma fortunatamente non andò così, forse grazie anche all’intervento pacificatore di Hudson Manilla. Che fra l’altro scrisse:

Foto di Huson Manilla (5)
© Hudson Manilla
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Come sappiamo tutti, i gusti sono soggettivi e l’opinione di una persona di ciò che è Arte non è quella di un altra, i pensieri di una persona non sono identici a quelli di un altra. Il punto cruciale è semplicemente che mi piace fare fotografie. Se piacciono alle persone perfetto… se così non è, va bene lo stesso.

In questa risposta di Hudson Manilla è già contenuto uno dei due punti che vorrei sottolineare.

In primo luogo “Arte”, del resto come “Fotografia” è una parola dal senso indefinito e vago. Si cerca di raggruppare sotto un concetto comune anche pratiche diversissime, luoghi remoti, momenti storici lontanissimi fra loro. Oggi, per fotografia d’arte, si intende soprattutto un certo tipo di fotografia concettuale, spoglia e fredda, che va per la maggiore nel mercato dell’arte. Sempre in quest’ottica, le “belle fotografie” vengono considerate eccessivamente decorative per essere arte. Secondo i fautori di questa visione un’orribile foto sovraesposta di un muro può essere arte, mentre quella piena di pathos e emozione che appare sul National Geographic sicuramente non rientra nella categoria. Eppure si tratta di fotografie bellissime, decisamente artistiche, che probabilmente un non addetto ai lavori considera contenere “più arte” delle fotografie concettuali di cui sopra.

Foto di Huson Manilla (4)
© Hudson Manilla
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Non voglio entrare nella discussione di cosa sia arte e cosa non lo sia, anche perché è facile scadere in chiacchiere sterili e accademiche. Quello che mi interessa sottolineare è la varietà delle pratiche che possono esser considerate artistiche. Nel panorama storico attuale, le gallerie d’arte contemporanea vendono soprattutto un certo tipo di prodotti, solitamente concettuali più che estetici, mentre le fotografie diciamo “estetizzanti” vengono diffuse in altri circuiti. Nello stesso mondo delle gallerie esistono due categorie, naturalmente i cui confini sono mal definiti, di chi vende “fotografia d’arte contemporanea” e “bella fotografia”, quest’ultima soprattutto per arredamento (e lo dico senza nessun disprezzo) e a prezzi molto più bassi rispetto alla prima.

Il secondo concetto che mi preme sottolineare è la vocazione completamente eterogenea di Camera Obscura. Nel senso che mi piace pensare questo spazio come un luogo di discussione della fotografia a 360 gradi, non solo la fotografia artistica contemporanea, ma anche fotogiornalismo, moda, pubblicità, fotografia naturalistica e chi più ne ha più ne metta. La varietà delle pratiche fotografiche è per me estremamente affascinante, e non ho nessuna intenzione di specializzarmi su una sola di esse come succede nella maggior parte delle riviste online o dei blog che leggo. L’equivoco all’origine della discussione a proposito dell’artisticità delle foto di Hudson Manilla nasce probabilmente dal non aver compreso questo punto, o forse dal fatto che non lo renda abbastanza esplicito su queste pagine. Dall’idea che Camera Obscura sia un sito dedicato unicamente alla fotografia d’arte, intesa nell’accezione di cui sopra, ovvero lo stile che va per la maggiore nelle gallerie specializzate. Le fotografie di Hudson Manilla probabilmente non rientrano in questa categoria, ma piuttosto in quella (vaga essa stessa come arte o fotografia) di fotografia erotica. Intenti, stile e contenuti quindi diversi, ma perché dover trovare a tutti i costi delle etichette? Perché non limitarsi a fruire dell’opera di un autore? Perché chiedersi se si tratti di arte o meno invece di godersi le immagini?

Foto di Huson Manilla (3)
© Hudson Manilla
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Personalmente apprezzo certi aspetti delle fotografie di Hudson Manilla, mentre altri mi lasciano meno entusiasta, come è normale e giusto che sia. Per quanto riguarda l’apprezzamento direi che si tratta di un’opera molto consistente, nel senso che è evidente uno stile personale ben preciso, il fatto che si tratti del frutto di un lungo lavoro e non semplicemente di un’infatuazione occasionale. Apprezzo poi l’atteggiamento irriverente e diretto, la ricerca di un’eccitazione senza complessi. Infine, lo scrivo senza vergogna, mi piacciono in generale le fotografie di erotiche, la bellezza femminile.

Dal lato opposto, non condivido sempre l’immagine della donna che mi sembra emerga dalle foto di Hudson Manilla, come del resto non mi piace quella di un grande maestro della fotografia come Helmut Newton, sarò forse un inguaribile romantico ma preferisco le rappresentazioni diciamo più dolci e poetiche. Direi poi che la qualità delle fotografie è inuguale, nel senso che una selezione più severa avrebbe secondo me giovato.

Foto di Huson Manilla (2)
© Hudson Manilla
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Tutto questo, tanto i punti per me positivi che quelli negativi, si ritrova nel libro One di Hudson Manilla. Alle lodi aggiungerei il fatto che solo una fra tutte le ragazze ritratte è una modella professionista, mentre le altre sono persone normali che hanno osato spogliarsi, sia concretamente che metaforicamente, davanti all’obbiettivo del fotografo. Per esperienza personale, so quanto sia difficile per una persona posare con la stessa audacia di una modella professionista. Mi piace inoltre, anche se non mi corrisponde, la già citata attitudine di Hudson Manilla, il voler continuare per la sua strada nonostante quello che possano dire o pensare certe persone. Nei ringraziamenti del libro si legge per esempio:

È bello incontrare e lavorare con persone che vogliono mettersi alla prova e sono abbastanza forti da fottersene se la gente le giudica in maniera ingiustamente dura.

Per quanto riguarda infine il libro in sé, si tratta di un pdf di 130 pagine, con circa altrettante immagini, di risoluzione discreta che ne permette una visualizzazione più piacevole rispetto agli standard dei siti web. Impaginazione semplice e spoglia, priorità totale alle fotografie. Il tutto per qualche euro, che fra l’altro vengono dedotti dal prezzo del libro cartaceo se si decide di acquistarne una copia dopo aver comprato il libro elettronico. Hudson Manilla mi ha promesso di spedirmene una copia, che attendo con aspettazione, visto che non sono molto abituato ai libri elettronici.

Foto di Huson Manilla (1)
© Hudson Manilla
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Stefano Ruzzante, o della “beauté en abyme” /it/2010/stefano-ruzzante-beaute-en-abyme/ /it/2010/stefano-ruzzante-beaute-en-abyme/#respond Wed, 30 Jun 2010 06:13:22 +0000 /?p=3861 Related posts:
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Stefano Ruzzante (2)
© Stefano Ruzzante
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Fotografie di Stefano Ruzzante, testo di Alberto Finotto.

 

Una modella posa e un fotografo scatta.. La magia (se di magia si può parlare) è tutta qui.

(Stefano Ruzzante)

Stefano Ruzzante (13)
© Stefano Ruzzante
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Lo sguardo intimo accompagna Alice fino alla porta segreta, in un respiro di attesa emozionato, con il battito del cuore trattenuto dalla meraviglia. Dopo un passaggio in ombra, è l’occhio desiderante di un nuovo Cappellaio Matto a condurre il gioco dell’innocenza. L’innocenza che arriva al sogno fatato, a una sorta di magia panica che seduce l’osservatore. All’astrazione di un’identità finalmente riconosciuta e pacificata.

Stefano Ruzzante (12)
© Stefano Ruzzante
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Stefano Ruzzante è, nel mondo multiverso della fotografia d’arte, il nuovo Cappellaio Matto in un paese di Meraviglie estatiche. Conduce con mano sapiente, nelle sue segrete stanze, la trama di un’épos contemporaneo ancora seducente: l’obiettivo ha desiderato e trovato la modella ideale e la ritrae in una luce di verità sospesa e delicata. L’Icaro è vulnerabile, ma il fuoco ne lambisce appena le ali, con gentilezza, senza interromperne l’arco del volo siderale. Ma l’épos dove accade? Quali terre sorvola e comprende nella sua ellisse di pensiero e azione espressiva?

Stefano Ruzzante (11)
© Stefano Ruzzante
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Il luogo di poesia creato da Ruzzante assume lo spazio di una stanza vuota, consunta dagli anni e ancora abitata dai fantasmi del sentimento; si tramuta in una vasca d’acqua lucente, ornata da un contrappunto di petali, come fosse un ninfeo; finisce negli anfratti immacolati di una cucina hi-tech, e, ancora nelle trame d’acciaio di un’installazione concettuale. Per finire nei colori del buio, nel baluginare di corpi avocati alla tenebra, in frammenti di pelle lunare evinti alla plasticità dei tessuti. È in questo luogo che si rivela, alfine, la poesia: ospite inattesa e sperata, specchio disvelatore di un eterno femminino che ricerca, inesausto, la sorgente perenne dell’élan vital.

Stefano Ruzzante (10)
© Stefano Ruzzante
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Se guardiamo alle immagini luminose tratte dall’opera “Almost Gold” – con la modella Breath come protagonista – ci accorgiamo di uno strano fenomeno. La connotazione materica dell’ambiente si stempera nella sensualità della donna-archetipo, creando un effetto quasi magico, senza dubbio spirituale. Un effetto ripreso nei paesaggi arcani di “Arkizoic”, episodio realizzato nell’atelier di Duilio Forte, sfruttando lo spazio creativo post-industriale rivisitato dall’artista designer. Anche in questo caso Breath, musa prediletta da Ruzzante, è un mito sostanziale alla realtà – o, meglio, alla sua rilettura poetica -, l’angelo caduto sulla terra del fuoco e del ferro, una terra del sogno che chiede di essere conosciuta, riportata alla dimensione del tangibile, di una fruibilità immaginifica del qui e ora.

Stefano Ruzzante (9)
© Stefano Ruzzante
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Senz’altro, la dimensione favorita del fotografo milanese è quella dell’incontro, dell’attimo che scaturisce, puro, da un rapporto fondato sulla fantasia condivisa, trasformata in elemento di reciprocità. L’”Upcoming Secret” di Isabella – altra modella dall’aspetto tizianesco, quasi ieratico – porta alla loro propria disvelazione i frammenti di un simbolismo provocante, mai programmatico, omogeneo a un’idea di eros futurista (seguendo una delle direttrici tematiche cardine del lavoro di Ruzzante). A volte, viene da pensare al caleidoscopio poetico di Lewis Carroll: vi si trova la stessa aria allusiva, di monito all’innocenza di volare nell’universo indicibile con la mente e con lo sguardo. Un monito lanciato con la massima libertà, nella convinzione nicciana che “tutte le cose diritte mentono. Ogni verità è ricurva e il tempo stesso è un circolo” (Also sprach Zarathustra).

Stefano Ruzzante (8)
© Stefano Ruzzante
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Il rapporto con tra Ruzzante e la modella coinvolge anche il rapporto di entrambi con lo spazio e gli oggetti della quotidianità. Ruzzante conosce i codici di un nuovo naturalismo estetico, con tutta l’importanza attribuita alla tecnologia e a una sorta di “profilo della modernità”. L’immagine tratta da “Maryssa in the kitchen” è quella di una farfalla nel suo ambiente artificiale/naturale, ormai accettato come spazio di un volo libero contemporaneo. Ci soccorre, a questo proposito, una reminiscenza cinematografica. Quando il protagonista del film “Dillinger è morto” (di Marco Ferreri) cerca di riappropriarsi di un rapporto sensato con l’ambiente iperrealistico che lo circonda, trova soltanto la morte e l’inutilità di ogni speranza. Al contrario, la soluzione catartica di Ruzzante è quella del gioco con lo spazio, lontano da ogni tentazione macabra, pervaso da un sentimento di “curiosità ottimistica” e stupita. D’altra parte, il movimento e l’occhio della modella tradiscono l’appagamento dell’attimo, la coscienza quasi di un mutuo riconoscimento e dell’accettazione del gioco.

Stefano Ruzzante (7)
© Stefano Ruzzante
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Gli elementi ispiratori di Ruzzante richiamano, anche, il surrealismo e la libera associazione. Come se Man Ray, improvvisamente, avesse deciso di non rinunciare all’”estetica della narrazione”, accostando l’identità della modella agli automatismi della psiche, e seguendo, “dietro lo specchio” di un simbolico tableau vivant, la vicenda sentimentale del soggetto.

Stefano Ruzzante (6)
© Stefano Ruzzante
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Il rapporto di Ruzzante con le sue modelle si svolge nella corrente di una complicità superiore, nell’accordo tacito di una promessa finale: tu mi dirai, alla fine, che cosa sono; cercherai ancora, dentro di me, la linfa vitale del sogno, corrotta e inaridita ma ancora inessicabile dalla necrosi del mondo. Oppure, mostrerai allo stesso mondo, come una sfida, la malinconia della mia bellezza, l’amore che mi svela e mi consuma, la dolce caduta e la risurrezione che tu solo hai reso possibile.

Stefano Ruzzante (5)
© Stefano Ruzzante
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Arkizoic, Breath, Secret, Excel, Vanesia, Naixa sono le denominazioni di altrettante “stanze” e identità femminili che trascorrono nella poesia di Ruzzante. Un accenno, fondamentale, all’universo fetish connaturato alla fotografia dell’artista: può fornire un dispositivo di trasgressione ma ne costituisce, anche, la necessaria sprezzatura. La rappresentazione è quasi discreta, lontana dal rischio di una teatralità estrema che potrebbe apparire, ormai, afona e ridondante. La trasgressione di Ruzzante è vicina, piuttosto, a una mise en abyme della passione; ossessiva, scabrosa, volutamente scevra da compromessi fané e da ipocrisie intellettuali. Testimonianza totale di un artista che non intende rinunciare alla sua missione primigenia: una ricerca, eterna e immaginifica, della bellezza assoluta.

Stefano Ruzzante (4)
© Stefano Ruzzante
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Essi dimorano nel Paese delle Meraviglie;
Sognano mentre i giorni passano,
Sognano mentre le estati si dileguano.

Mai vengono trasportati dalla corrente…
Ma, immobili, indugiano nel barlume d’oro…
Cos’è la vita, se non un sogno?

(Lewis Carroll, Through the Looking Glass)

  Per più informazioni e foto si prega di vistare il sito di Stefano Ruzzante.

Stefano Ruzzante (3)
© Stefano Ruzzante
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Stefano Ruzzante (1)
© Stefano Ruzzante
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Dream, di Matteo Bosi /it/2009/matteo-bosi/ /it/2009/matteo-bosi/#respond Mon, 22 Jun 2009 13:47:12 +0000 /?p=2121 Related posts:
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Matteo Bosi (7)
© Matteo Bosi
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Fotografie di Matteo Bosi, testo di Gianluca Bosi.

 

Nell’immagine “Dream”, tratta dalla collezione “Obsession”, Matteo Bosi ritorna ad una fotografia in cui l’intervento digitale è limitato al massimo, e lo scatto ottiene subito un effetto drammatico e “mortale”. Vediamo un cadavere, avvolto in un pallido sudario, il braccio esanime disteso, ma il volto non vediamo. Questa scelta è frequente nelle opere dell’artista, che ora cerca nell’identità nascosta una rivelazione, ora trova nella carne e nella corporeità dell’uomo la sua visione più oscura, doppia e animale.

Matteo Bosi (5)
© Matteo Bosi
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Ma qui la nudità accompagna la fragilità, qui il corpo è solo, abbandonato nelle sue spoglie delicatamente, tragicamente. Può forse riportarci alla linda purezza di una fanciulla del Canova, ma non sta portando una coppa né un’anfora ora. Ora è morta. E l’effetto che ha su di noi è così essenziale, così chiaro il messaggio, nello sfondo non v’è colore o figura che possano distoglierci dal guardare, colpiti nel profondo, questa donna esangue, e ci riguarda così nel profondo in quanto esseri mortali, che con un brivido caldo possiamo accorgerci che dentro noi uno spazio resta vuoto. Forse perché qualcosa se ne è andato, forse perché non avevamo mai notato quest’assenza in noi. La morte siamo noi. Non esclusivamente, certo; siamo movimento, vita, rinascita, sviluppo, evoluzione, trasformazione (tutto questo è rappresentato in numerosissime opere dell’autore). Ma qui, dirimpetto a questa donna che non è più con noi, ma altrove, sentiamo che una parte di noi con lei rimane, si sdraia al suo fianco, tra il fianco morbido e freddo ed il braccio, per rimanere lì. Delicatamente. “Il corpo è un contenitore, un orologio biologico. Ti richiama continuamente alla vita ma anche alla morte. È un contenitore di pulsazioni ma anche dell’anima. È un tramite, e ci dice ogni giorno chi siamo” (Matteo Bosi). Sentiamo il ticchettio dell’orologio, guardando le sue fotografie. In “Dream” l’orologio è fermo.

Matteo Bosi (6)
© Matteo Bosi
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Prendiamo un altro esempio: “dream two”. Questa volta la salma, avvolta nel sudario, sembra quasi danzare. Ce lo mostrano non solo le gambe, piegate e incrociate, ma anche il corpo che, seppure nascosto dal telo bianco, ci lascia indovinare la sua torsione, il suo gesto. L’identità è ancora nascosta, mascherata. Ma proprio come “un uomo non è del tutto se stesso quando parla in prima persona. Dategli una maschera, e vi dirà la verità” (Oscar Wilde), così questo corpo, coinvolto in una danza “funerea” che sembra sciogliersi dai legami temporali, allontanarsi dal reale, ci mostra se stesso, la sua verità, mentre approda in un aldilà senza faccia, oscuro e profondo; l’unica luce rimane quella del sudario che l’avvolge. Una danza che ha dell’inquietante, del mistico, e che ancora una volta sa premere forte i tasti del nostro inconscio.

Matteo Bosi (4)
© Matteo Bosi
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O ancora “dream one”, che si differenzia dagli altri scatti di questa serie per un particolare a dir poco agghiacciante. La donna è seduta, proprio di fronte a noi. Non sappiamo con certezza se al di sotto del lungo, candido panno, vi sia vita; vediamo il braccio destro scendere lungo il fianco con estrema morbidezza, senza tensioni, privo di forze. Possiamo scorgere un capezzolo comparire sulla superficie del telo, e le costole e i seni, il volto spinto indietro e un poco verso destra. Nudo rimane il fianco destro, nudi rimaniamo noi nell’osservare quest’immagine, come privi di difese; l’impatto è sconvolgente, sembra di essere davanti a un fantasma, ad uno spettro. Interessante la scelta di lasciare, nel bordo in alto della fotografia, il codice della stessa, facendo divenire una serie di cifre e numeri parte dell’immagine. Si tratta di una decisione legata al gusto dell’artista, difatti non è la prima volta che accade nelle foto di Matteo Bosi: si guardi “duality original” e l’effetto polaroid.

Matteo Bosi (3)
© Matteo Bosi
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In questo scatto è protagonista un busto eretto, stabile, saldo, le braccia alzate e le mani sul volto, e questa volta la negazione dell’identità è più una presa di posizione, che un atto passivo: qui siamo certi che dietro la veste bianca che fascia volto e braccia ci sia respiro, e in corrispondenza del seno, battito. Il messaggio, anche in questo caso, è “afono”, proprio come nella maggior parte degli scatti di Matteo Bosi; vale a dire che il linguaggio è quello del corpo, del gesto, della posizione, del movimento, e non già quello vocale. Non è la parola, ma la “presenza” di queste figure a imprimere profonde sensazioni, a suggestionarci ed entusiasmarci. La donna qui non parla, ma comunica. Lo fa direttamente al nostro inconscio; è da lì che noi ripeschiamo il “messaggio” da lei lasciato per divenirne coscienti e iniziare a rifletterci. Si tratta, quindi, di un legame. È proprio a questo punto che le fotografie dell’artista non ci sono più estranee, ma parlano – non tanto di noi – ma con noi.

Nella serie “dream” siamo quindi di fronte al tema ricorrente della morte, ma anche della danza, dell’identità smarrita; si tratta, in ogni caso, di una visione onirica, facilmente suggerita dal candido pallore dei sudari che diviene elemento costante, ossessivo, e da uno sfondo cupo e nero che ci catapulta, come in un incubo, all’interno della visione “mortale” e suggestiva di queste donne e della loro condizione al di là del tempo e del reale.

 

Matteo Bosi (2)
© Matteo Bosi
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Il lavoro di Matteo Bosi inizia con l’idea, lo schizzo a matita; prosegue con la fotografia su pellicola o digitale. I passaggi successivi sono meccanici e manuali fino ad arrivare a photoshop, e poi continua, dopo la stampa, con la pittura, il collage. “Il mio lavoro non è mai finito” dice. Niente è a caso, consciamente o inconsciamente; il tema che l’artista affronta è sempre l’uomo e l’identità che si porta dentro, la mutazione di questi, l’evolversi, il continuare. Come potete vedere osservando le sue collezioni, l’artista riesce sempre ad avvalorare il significato delle sue immagini, a mettere in primo piano il messaggio senza oscurarlo attraverso un’elaborazione grafica troppo severa e mascherante, evitando di eccedere in virtuosismi tecnologici che potrebbero depersonalizzare o appiattire l’opera. “Si può essere ottimi artigiani e ottimi programmatori, ma non per forza artisti” (M.Bosi). L’idea è la radice, il fondamento, l’energia scatenante che ha sente nell’intuizione. Egli considera perciò la tecnologia come un aiuto, uno strumento, ma sempre in funzione di un determinato obiettivo.

L’artista dimostra così, in tutti i suoi scatti, che la grafica, se utilizzata appropriatamente, è in grado di esaltare, rappresentare, visualizzare l’Universo delle idee; l’immagine può parlare al di là del reale, un paesaggio onirico può prender vita, una visione “impossibile” divenire esperienza condivisa: è questa la magia, è questo il miracolo dell’arte. E se guardando l’orizzonte della pittura ci è forse parso non fosse più distante come un tempo, e abbiamo addirittura pensato che tutto fosse già stato provato scoperto ottenuto, ora ecco che la linea del cielo e della terra si sposta miglia e miglia lontano, talmente dal sentirci quasi persi, confusi – ma sempre determinati e fiduciosi – davanti alle potenzialità che l’arte grafica e fotografica ha da offrirci.

Matteo Bosi (1)
© Matteo Bosi
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Stein Café Salisburgo, di Gabriele Rigon /it/2009/gabriele-rigon/ /it/2009/gabriele-rigon/#respond Mon, 11 May 2009 05:30:16 +0000 /?p=1716 Related posts:
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Gabriele Rigon

Scrivendo a proposito delle fotografie di Gabriele Rigon è inevitabile pernsare subito alle eleganti foto di glamour e di nudo, inno alla bellezza femminile allo stato puro, modelle stupende, così belle da sembrare quasi ultraterrene, sguardi ammalianti, forme perfette. Il tutto in un riuscitissimo bianco e nero, classico e raffinato. Nell’articolo che ha scritto per Camera Obscura però Gabriele Rigon ha preferito parlarci di qualcosa che mi sarei meno aspettato: la storia di un ritratto che gli è particolarmente caro.

Testo e fotografie seguenti di Gabriele Rigon.

 

Gabriele Rigon
© Gabriele Rigon

Faccio fotografia per passione, il mio vero lavoro è di essere un pilota di elicottero per l’Esercito Italiano. Ho cominciato a scattare fotografie durante le missioni militari di pace che mi hanno portato in molte delle zone calde del nostro pianeta. Cresciuto pertanto come fotografo di reportage, le mie immagini sono state una testimonianza visiva dei recenti conflitti quali la Namibia, il Kurdistan, l’Albania, la Somalia il Libano, la Bosnia, l’Iraq e l’Afghanistan.

Le due immagini di reportage che accompagnano l’intervista sono state realizzate a Kabul, durante una mia recente missione La prima foto è una mamma con i suoi figli presso un piccolo ambulatorio medico realizzato dai soldati italiani, la seconda immagine è scattata in una strada di Kabul. È un immagine che racconta a modo suo la sensualità delle donne di Kabul.

Gabriele Rigon
© Gabriele Rigon

Negli ultimi quindici anni, quando sono in Italia, i miei interessi fotografici si sono spostati allo studio del corpo e della bellezza femminile, questo credo faccia parte di un percorso in cui ogni fotografo cerca un proprio genere ed uno stile. Devo anche confessare che rispetto al reportage il genere glamour è senz’altro più accattivante.

Queste immagini rappresentano perfettamente il mio stile. La prima fotografia che accompagna l’articolo è stata realizzata in una semplice camera d’albergo, e la modella si stava riposando mentre io scaricavo le foto. L’immagine qui sotto invece è stata realizzata su una spiaggia al tramonto, anche in questa foto mi piace la semplicità nella posa, ed è esattamente quello che cerco nella fotografia. Qualcuno ha scritto che cerco sempre l’attimo più insignificante, per scattare le mie foto, ma è anche vero che è proprio in quell’attimo che si riesce a ritrarre la naturalezza della modella.

Gabriele Rigon
© Gabriele Rigon

Dopo anni di nudo artistico sto cercando un nuovo stile, sempre legato alla bellezza femminile, alla sensualità, ma non necessariamente nudo, ecco il motivo per cui in questo breve articolo vorrei parlare di ritratto.

Di solito non lavoro in studio, utilizzo maggiormente locations occasionali, e se ho a disposizione una modella cerco di creare immagini semplici lasciandomi coinvolgere dalla situazione del momento, come per esempio questi scatti che ho realizzato a Salisburgo con una carissima amica di nome Tanja che ha posato per me.

Ho conosciuto Tanja durante un lavoro fotografico in Ungheria, lei non è una modella ma era l’assistente di un fotografo Austriaco. Mi meravigliai di scoprire che non si era mai fatta fotografare, e quasi per scommessa le chiesi se potevo realizzare con lei alcune fotografie per un libro.

Uno dei posti più belli in cui ho fotografato Tanja è dove lei vive e lavora, Salisburgo.

Gabriele Rigon
© Gabriele Rigon

Salisburgo è una città dalla singolare bellezza, conosciuta universalmente come “la Città di Mozart”, con il suo tradizionale Festival e i suoi significativi eventi Teatrali raccoglie ogni anno un milione di turisti da tutto il mondo. Ho avuto la fortuna di trascorrere a Salisburgo un paio di giorni ospite a casa di Tanja, e ho voluto approfittarne per realizzare qualche scatto di moda, semplicemente passeggiando per le vie di Salisburgo, con la mia macchina fotografica e l’elegante bellezza della mia modella. È davvero emozionate poter scoprire le bellezze della città, guidato dalla mia musa Tanja che, oltre a farmi da guida turistica, è anche la mia modella.

Purtroppo il tempo non era dei migliori e un improvviso temporale estivo ci ha costretto a cercare riparo da qualche parte. I posti non mancano, Salisburgo è piena di Caffetterie storiche, di ristoranti assai conosciuti, ma uno in particolare è davvero fantastico, ed è il famoso “Stein Café” dell’omonimo Hotel che, con la sua terrazza all’ultimo piano di un palazzo, sovrasta l’intero centro storico della città con una veduta mozzafiato.

Gabriele Rigon
© Gabriele Rigon

Si accede allo “Stein Cafè” attraverso l’ascensore dell’hotel, il locale, oltre ad avere una parte al coperto, offre la possibilità di accedere ad una terrazza con dei tavolini da cui è possibile ammirare un paesaggio meraviglioso.

Purtroppo… o per fortuna, la terrazza è spazzata dalla pioggia e dal vento, per cui siamo riusciti a prenotare un tavolino all’interno, e dopo aver ordinato qualcosa di caldo, mi è venuta l’idea di fare un paio di scatti. Ho chiesto a Tanja di andare in bagno a mettersi un abito bianco lungo, e nel frattempo ho chiesto al direttore del locale di poter fare un paio di scatti a Tanja mentre era seduta al tavolino. Lo stesso direttore, sorpreso della mia richiesta, ma ha detto che avrei dovuto chiedere in anticipo tale autorizzazione al direttore artistico dell’hotel Stein, ma quando ha visto arrivare la mia modella con un abito simile ad una sposa, non ha avuto altre parole, mi ha solamente chiesto discrezione, e di essere molto rapido.

Gabriele Rigon
© Gabriele Rigon

Fantastico, ero riuscito ad ottenere un permesso di tre minuti per pochi scatti, ed ho cominciato con un paio di ritratti semplici mentre Tanja beve il caffè. Ho poi pensato di uscire sulla terrazza e fotografarla attraverso il vetro, per dare l’idea di foto rubate.

Negli scatti di questa breve sequenza ci sono gli elementi che volevo, la sensualità di Tanja, ma anche l’idea di relax, dei piacere, lo stesso piacere che si prova quando si bene un buon caffè.

Sono stati tre minuti davvero intensi, con pochi gesti mimati attraverso il vetro ho chiesto a Tanja di posare come volevo io, il risultato è stato davvero affascinante. Ho raccolto un’intera sequenza in cui la bellezza e la sensualità di Tanja hanno fatto il resto.

Tutto ciò mi ha fatto capire che nessuno ha il coraggio di dire di no di fronte ad una elegante modella e l’obiettivo di un fotografo, dico solamente che nel pomeriggio, con la stessa faccia tosta, sono riuscito a fotografare Tanja nella “concierge” dell’hotel “Sacher “ con tanto di vicedirettore che mi suggeriva le stanze storiche come locations per le foto.

Gabriele Rigon
© Gabriele Rigon

Il giorno successivo sono tornato con Tanja allo “Stein Cafè”, ho regalato al direttore un CD con le foto ritoccate in alta risoluzione, inutile dirvi che mi ha offerto da bere e mi ha detto che avrei potuto fare altre foto quando volevo.

Ho scelto queste foto per raccontare questa semplice storia, ritratti di Tanja mentre mi osserva con la tazza in mano, o mentre parla con il cameriere. Sembrano quasi ritratti rubati, anche se il tutto è costruito come descritto nel testo.

Le fotografie sono digitali, scattate in bianco e nero, per restituire quel tocco di eleganza delle tipiche immagini degli anni sessanta, gli evidenti riflessi del vetro non sono un disturbo, anzi, danno una forza maggiore all’immagine, un fascino particolare.

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Pornografia e sesso esplicito: l’autonegazione dell’arte contemporanea /it/2009/arte-pornografia-sesso/ /it/2009/arte-pornografia-sesso/#comments Fri, 09 Jan 2009 16:54:08 +0000 /?p=825 Related posts:
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Michaël David André

Nell’articolo su Paris Photo ho già accennato ai rapporti fra sesso/pornografia e fotografia artistica contemporanea. È un argomento interessante, che può essere articolato in vari modi. Da una parte la censura tipo quella cui è stato recentemente sottoposto Bill Henson, dall’altra una forma invece di autocensura un po’ perbenista che si autoimpongono molti fotografi/artisti contemporanei che lavorano sul sesso, o infine i lavori che invece non temono di essere espliciti come quelli di Andres Serrano o Terry Richardson. Piuttosto che fare di tutta l’erba un fascio, scrivendo l’articolo mi sono reso conto che è meglio fare una mini serie di articoli indipendenti.

Quello di oggi è dedicato alla forma di autocensura cui ho appena accennato. Per mettere subito le cose in chiaro sottolineo che non voglio fare nessuna schematizzazione dicendo che tutta la fotografia erotica corrisponde a quanto scrivo. Mi limito solo a rilevare un andamento, che mi pare ben evidente, una prassi seguita da un numero relativamente elevato di fotografi/artisti. E perché tutto sia chiaro sottolineo anche che mi riferisco alla fotografia artistica, dove intendo quella che viene esposta e venduta nelle gallerie e nelle fiere d’arte contemporanea. Fotografia prevalentemente concettuale e intellettuale, sullo stile, per intendersi, di quella che si vede sui blog Hippolyte Bayard o Conscientious. Molti altri fotografi trattano temi erotici, spesso con grande maestria e valore artistico, ma -in una formalizzazione delle categorie fotografiche piuttosto accettata- sono di solito classificati più nella fotografia commerciale e editoriale, glamour/erotica, o come dir si voglia.

La tesi di questo articolo è che esiste una corrente ben nutrita di artisti che fanno fotografia fine-art che, seppur lavorando direttamente sul tema della pornografia e del sesso, finiscono in qualche modo per autocensurarsi, per rendere implicito il sesso esplicito. E la fanno spesso utilizzando espedienti stilistici simili a quelli di cui ho parlato recentemente in La Cina di Yann layma. È stato un presentimento che ho sempre avuto, ma per esempio a Paris Photo 2008 l’impressione è diventata molto più forte. I fotografi che conosco che possono esser raggruppati sotto questo tratto comune sono già relativamente numerosi, ma sarei pronto a scommettere che nei prossimi mesi ne vedrò molti altri che corrispondono a questo profilo.

Nell’articolo su Paris Photo citato poco sopra avevamo già parlato dei fotografi Atta Kim, e Frédéric Delangle e dei loro lavori sul sesso, ottenuti sovrapponendo diversi scatti indipendenti per quanto riguarda il primo, e lasciando l’otturatore aperto per lunghi periodi per il secondo, ma in entrambi i casi avendo come risultato di sfocare e stemperare le immagini fino a renderle irriconoscibili, fino ad eliminare ogni traccia evidente di sessualità. Certo, si riesce ancora ad intuire la struttura dei corpi, una gamba nuda, un braccio, ma al contrario nemmeno l’ombra di un seno o dei sessi dei protagonisti dell’amplesso, dettagli dell’immagine completamente cancellati, o se vogliamo censurati, dal particolare procedimento tecnico seguito dai due fotografi.

Quanto detto è particolarmente vero per quanto riguarda le fotografie Coito di Frédéric Delangle, dove i corpi diventano una nube evanescente di luce, dove sul supporto sensibile alla fine rimane solo l’unione dei corpi, mentre questi spariscono, si fondono, vengono meno, che alla fine è una bella immagine vivida e rappresentativa dei rapporti sessuali. I lavori di questi due fotografi mi piacciono molto, tanto per l’idea che c’è dietro, che per la realizzazione e le immagini che esteticamente trovo particolarmente piacevoli. In questo articolo il focus non è tanto sulla qualità delle opere fotografiche, ma sul fatto che nei lavori che dovrebbero rappresentare il sesso esplicito in generale si fa di tutto per nasconderlo, per renderlo solo intuibile. Senza che questo esprima per forza una scala di giudizio, è solo una constatazione che vuole esser fonte di riflessioni.

Un altro fotografo di cui amo particolarmente il lavoro e che ricorre ad espedienti simili è Michaël David André. Anche in questo caso si tratta di una rappresentazione esplicita di un rapporto sessuale, e anche questa volta tramite il flou si nascondono i dettagli dei corpi e dell’atto stesso. Invece di sfruttare il tempo di posa o la sovrapposizione delle immagini Michaël David André utilizza delle deformazioni ottiche, utilizzando un sistema di lenti che ha messo personalmente a punto. Il risultato personalmente lo trovo splendido, onirico, sognante, a tratti inquietante, fantasioso e veramente solido. Sul suo sito le immagini sono molto numerose e una buona decina sono veramente splendide, attenta visita caldamente consigliata. Lo Insisto sul mio apprezzamento delle foto di Michaël David André perché come prima non discuto la qualità delle immagini, ma il fatto che una serie di fotografie dedicata al sesso non mostri di fatto niente di questo, se non stimolare l’immaginazione dello spettatore.

Thomas Ruff, uno degli artisti contemporanei tedeschi più influenti, ha anche lui lavorato sul sesso, anche lui utilizzando immagini esplicite e sfumandone i dettagli fino a renderli irriconoscibili. In pratica Thomas Ruff ha scaricato dai sito porno su Internet delle miniature di fotografie che rappresentano esplicitamente rapporti sessuali. Ingrandendole poi a dismisura ha creato immagini in cui si riesce sempre ad intuire l’atto sessuale, ma i dettagli dell’amplesso sono completamente sfumati, con il contraddittorio risultato già descritto di alludere esplicitamente il sesso evitando accuratamente di farlo esplicitamente.

Thomas Ruff
© Thomas Ruff

Dal punto di vista concettuale il lavoro di Thomas Ruff è estremamente interessante e se ne potrebbe parlare per ore. Partendo dal rapporto fra il mondo reale e l’universo parallelo rappresentato da internet, passando per l’uso di immagini di terzi come se fosse il materiale grezzo di uno scultore, il blocco di marmo ancora da scavare, per arrivare poi alla decostruzione ricostruzione dell’immagine. Dal punto di vista estetico invece non sono un amante di questo genere di lavori. Intellettualmente mi sento solleticato e ammiro l’idea, ma non comprerei mai per appenderla in casa quella che ai miei occhi non è altro che una brutta foto pornografica, fra l’altro pure sfuocata. In questo preferisco infinitamente le fotografie di Atta Kim, Frédéric Delangle e Michaël David André, che, ad averlo, comprerei e appenderei volentieri sulle pareti di un bel loft di 1000 metri quadrati. Nei loro casi il risultato sono immagini poetiche e sognanti, che, seppure ne velano i dettagli, comunque rappresentano in modo vivido il sesso e certe emozioni che lo accompagnano. Sulle foto di Thomas Ruff, al di la della bella idea, per quanto riguarda la forma continua ad aleggiare l’impressione di pornografia masturbatoria da quattro soldi.

Un altro famoso artista concettuale (suoi sono per esempio i controversi maiali tatuati) che fa uso della fotografia ma che non è possibile qualificare come fotografo è Wim Delvoye. Fra i suoi tanti lavori ce ne è anche uno dedicato al sesso: sexrays. Wim Delvoye ha infatti chiesto ai suoi amici di ingerire oppure, secondo le fonti, di spalmare sul proprio corpo una piccola quantità di bario e poi avere rapporti sessuali in modo da scattare delle fotografie ai raggi x del coito.

Rispetto alle fotografie descritte precedentemente il risultato è certamente più esplicito, visto che in alcune immagini, oltre alle ossa che sono ben visibili, rimane anche una traccia della carne, è possibile riconoscere chiaramente il profilo di un pene, la lingua dei partner, il bordo della pelle. Nonostante questo, l’astrazione rispetto alla realtà, ad una rappresentazione diretta del sesso è innegabile. Quello che si vede sono non è un atto pornografico fra due persone, ma dei teschi che si abbracciano, dei crani intenti in una fellatio inquietante e disumanizzata, un bacio d’avorio scambiato fra denti, mandibole e mascelle. Sembrano quasi più immagini medicali che fotografie erotiche. C’è un famoso test psicologico di un’immagine di donne nude che può essere letta come dei delfini che nuotano in mare. La maggior parte degli adulti riconosce il nudo, mentre i bambini vedono solo i delfini. Sono sicuro che, nonostante le foto di Wim Delvoye siano comunque esplicite, la maggior parte dei bambini vedrebbe solo i teschi e non il sesso.

Edouard Levé
© Edouard Levé

Un fotografo invece che lavora anche lui sul sesso, ma che di questo non mostra assolutamente niente di niente, nemmeno cancellandolo perché di fatto il rapporto non ha nemmeno avuto luogo, è Edouard Levé. Nelle sue fotografie infatti due partner di mezza età, o più spesso gruppi più numerosi di persone, mettono in scena degli atti sessuali totalmente simulati. Completamente simulati perché questi uomini e donne dai volti impassibili e inespressivi, non hanno nemmeno levato i loro vestiti. Le immagini sono di una freddezza totale e asettica, nessuna traccia di emozione o di eccitazione, solo persone come gusci che mimano qualcosa che non c’è. Sono fotografie tristi, perfase forse di quella tristezza che ha l’anno scorso ha portato Edouard Levé a togliersi la vita, subito dopo aver consegnato al suo editore la copia definitiva del suo nuovo libro intitolato appunto “Suicidio”. Fotografie depresse e esteticamente senza nessuna concessione.

A conseguenze simili a quelle di Edouard Levé arriva Benjamin Deroche. Ancora una volta un lavoro che sarebbe sul sesso e il bondage, con un chiarissimo e esplicito richiamo alle fotografie di Araki. Questa volta però non sono le bellissime giapponesi delle fotografie di Araki ad avere la pelle sciupata dalle corde che ne stritola i seni e le cosce, non sono le ragazze orientali piene di grazia ad essere sospese nell’aria, ma dei galletti pronti per essere arrostiti. Come negli altri casi il richiamo sessuale è perfettamente esplicito, ma la sua rappresentazione diretta è completamente assente, tanto ad arrivare ad una sorta di forma di pareidolia visiva. Il sesso di fatto non c’è ma si finisce per vederlo lo stesso. Quando guardo i polli di Benjamin Deroche infatti quello che vedo non sono le carcasse degli animali, ma le splendide fanciulle dagli occhi a mandarla così ben fotografate da Araki, sospese per aria, nella loro elegante danza feticista e sadomaso.

John Haddock
© John Haddock

L’eliminazione formale della pornografia dalle immagini che gli sono dedicate è infine spinta al parossismo da John Haddock. Ancora una volta si tratta di foto porno prese da internet, questa volta però i corpi non vengono sfumati in maniera da nascondere le parti genitali e l’amplesso dei protagonisti, questi vengono direttamente cancellati dalla fotografia con Photoshop. Quello che rimane è una specie di fossile ambientale, come se nella stanza fosse rimasto solo l’odore del sesso dopo che ognuno se ne è andato per la sua strada. Come se da una scena di un delitto venisse volatilizzato il cadavere e tutte le prove venissero pulite, lasciando comunque evidente l’intento di cancellare le proprie tracce, proprio come nella serie di John Haddock.

Un lavoro molto simile è quello di Brandt Botes. Anche lui scarica fotografie pornografiche su internet e anche lui ne fa sparire i corpi. Questa volta però, invece di cancellarli con il timbro clone, li ritaglia, lasciando delle silouette bianche sull’immagine. Stesso discorso valido per tutti gli altri artisti presentati in questa rapida carrellata: allusione estremamente presente al sesso, ma eliminandolo del tutto dall’opera. Possibile però che tutti quanti scarichino foto da internet, facciano sparire la pornografia e dichiarano che è arte?

Brandt Botes
© Brandt Botes

In questa veloce panoramica di autori è evidente come, nella fotografia artistica contemporanea sia presente un folta schiera di autori che lavora sui temi della sessualità e della pornografia, ma negandoli formalmente, lasciandoli solo intuire. Molti altri fotografi e artisti danno del sesso una rappresentazione esplicita e diretta, come vedremo nei prossimi articoli, ma ho l’impressione che per quanto riguarda la fotografia fin-art attuale l’atteggiamento descritto in questo articolo sia dominante.

Resta da rispondere ai perché. Quali sono le motivazioni che hanno portato a questo stato di cose? Perché sembra che fotografia d’arte e pornografia oggi fatichino ad andare a braccetto? Nascondere l’atto sessuale è un modo per rendere le immagini più accettabili ai galleristi e al pubblico? Si tratta di un tentativo di rendere le opere più politicamente corrette oppure di fatto la rappresentazione esplicita del sesso non era nelle intenzioni degli autori?

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Le quattro bellezze di Liu Zheng /it/2008/liu-zheng/ /it/2008/liu-zheng/#comments Sat, 13 Dec 2008 17:06:04 +0000 /?p=724 Related posts:
  1. Quattro, morte o perfezione
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liu zheng
Diao chan – © Liu Zheng

Liu Zheng è un fotografo di origine cinese che ha a lungo ritratto una Cina lontana dalle immagini ufficiali, dallo sviluppo, dalla modernizzazione. Fotografie di monaci Taoisti dai volti scolpiti di rughe, di budda imprigionati in gabbie posate in un nulla nebbioso, cadaveri disseccati di feti umani, minatori dal volto nero e stanco, personaggi che sembrano pazzi e vagamente deformi… il tutto con un bel bianco e nero classico e dal sapore antico.

Questo gusto per un mondo diverso e vagamente morboso si è poi ulteriormente sviluppato in una serie di fotografie di messe in scena di ampio respiro, con diversi personaggi rappresentati, di solito uomini e donne nude implicate in scene erotiche più o meno esplicite e allusive. Il tutto in una coreografia ridondante e barocca, che ricorda molto certe fotografie di Witkin, anche per l’uso molto simile del bianco e nero, dei fondali teatrali, delle modifiche della superficie dell’emulsione.

Liu Zheng
Wang Zhaojun – © Liu Zheng

Entrambe queste serie mi piacciono molto, sia per i temi che per la realizzazione, ma il lavoro di Liu Zheng che è più vicino al mio gusto fotografico attuale è “Le quattro bellezze”.

Una specie di evoluzione naturale delle messe in scena erotiche, dove ancora si ritrovano i nudi femminili e la presenza di diversi personaggi in interazioni complesse. Questa volta però si tratta di foto a colori, pulitissime e impeccabili. Stampe di grande formato, dalle composizioni estremamente eleganti e grande ricchezza di dettagli. All’interno di ognuna delle quattro fotografie che compongono la serie è infatti possibile ritagliare decine e decine di fotografie che non sfigurerebbero minimamente come immagini isolate, sufficienti a se stesse.

Liu Zheng
Xi shi – © Liu Zheng

Questa è una delle caratteristiche che più mi attira in “Le quattro bellezze” di Liu Zheng. Questa sovrabbondanza di bellezza, questo fasto ai limiti del lusso, riunire in una sola imagine tutta la bellezza, la composizione, la luce e la cura che di solito sono necessarie per decine di fotografie diverse. In ogni fotografia non c’è un’unica scena in atto, ma una molteplicità di azioni più o meno concatenate o slegate fra loro, che creano un continuom dinamico particolarmente avvolgente. Non si sa mai se la scena principale è quella dell’uomo che cerca di strangolare il ragazzo con una corda, la fanciulla sdraiata con le gambe divaricate, il vecchio in ginocchio che sembra suicidarsi con la sua spada.

Un’altra particolarità rispetto agli altri lavori di Liu Zheng è che le scene sono tutte in costumi antichi, di grande ricchezza e bellezza. Personalmente ho sempre amato i libri e i film di questo genere, anche se di qualità obiettivamente non eccelsa ho sempre avuto un’attrazione speciale per le storie di spade e cavalieri. E in particolar modo ho sempre amato i film cinesi di arti marziali, specialmente quelli che raccontano storie antiche. Queste fotografie di Liu Zheng mi fanno ricordano con prepotenza tutte queste emozioni e questi ricordi cinematografici, mi fanno pensare in modo confuso a Hero e La foresta dei pugnali volanti di Zhang Yimou, a L’imperatore e l’assassino di Chen Kaige, The warlords di Peter Chan o Three Kingdoms: Resurrection of the Dragon di Daniel Lee, giusto per citarne qualcuno.

Liu Zheng
Yang Guifei – © Liu Zheng

Non so se le fotografie di Liu Zheng rappresentano fatti storici reali ben noti in Cina, o romanzi e leggende famose nel regno di mezzo. Non mi interessa poi tanto. Per amare queste fotografie mi basta guardarle e perdermici dentro, in un viaggio di fantasia in un tempo e in un regno che forse non è mai esistito.

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Raffaello Di Lorenzo e l’esplorazione di sé stesso /it/2008/raffaello-di-lorenzo-e-lesplorazione-di-se-stesso/ /it/2008/raffaello-di-lorenzo-e-lesplorazione-di-se-stesso/#comments Wed, 03 Dec 2008 12:28:09 +0000 /?p=701&langswitch_lang=fr No related posts. ]]> Raffaello Di Lorenzo
Abbraccio, Corpografie.
© Raffaello Di Lorenzo

Le fotografie di Raffaello Di Lorenzo, sia quando l’obiettivo è rivolto direttamente su sé stesso, che quando documenta la malattia dei suoi cari, sono sempre un’esplorazione esplicita del proprio io, di quello che costituisce il proprio mondo visivo, il proprio orizzonte. Sono un autoritratto in senso lato di sé stesso.

Fotografie alla ricerca di conoscenza e interiorizzazione di quelle che sono le esperienze dell’autore, non rifiutano di guardare in faccia dolore e disperazione. Fotografie a tratti inquietanti, buie, senza via d’uscita. Frammenti di un corpo che emerge dall’ombra, scuro e contrastato, con un sapore antico e fuori dal tempo. La sofferenza di una malattia che strappa i tuoi ricordi, la tua mente, le persone che ti sono vicine, senza lasciare niente dietro di sé.

Ecco un’intervista a proposito della ricerca visiva di Raffaello Di Lorenzo e dei suoi metodi di lavoro.

 

Raffaello Di Lorenzo
Artiglio, Corpografie.
© Raffaello Di Lorenzo

Fabiano Busdraghi: Che cosa rappresenta per te la fotografia?

Raffaello Di Lorenzo: Una terapia ma anche un gioco con tutte le sfumature all’interno. Mi permette di esprimermi in modo naturale, conoscere me stesso e ciò che mi circonda, è la mia mappa del mondo. È la conferma che siamo circondati dalla bellezza, basta cercarla e mostrarla.

 

Fabiano Busdraghi: Come hai iniziato a fotografare? Qual’è la tua storia di fotografo?

Raffaello Di Lorenzo: A dire il vero la prima volta che ho iniziato a fotografare è stato quando sono stato a Roma, ero ancora un ragazzino. Avevo la macchina del mio babbo tutta manuale e il bugiardino delle pellicole che ti indicano la coppia tempo-diaframma a seconda delle condizioni metereologiche. Beh mi sono detto: “chi se ne frega faccio a modo mio, vedrai che foto alternative verranno fuori”… non so se era più imbarazzato il fotografo o io quando mi ha consegnato le uniche 3 stampe che è riuscito a tirar fuori da un rullino da 36… 3 stampe e anche bruciate… Da quell’esperienza ho capito che per improvvisare bisogna avere delle base tecniche importanti.

Raffaello Di Lorenzo
Croce, Corpografie.
© Raffaello Di Lorenzo

Poi anni fa, come conseguenza di una esperienza emotiva molto intensa ho iniziato a utilizzare la fotografia come strumento di ricerca sul mio corpo e sul mio universo emozionale. Sono nati i primi lavori e le prime mostre. Poi mi fu chiesto di partecipare alla documentazione di una mostra di arte contemporanea e alla compilazione del suo catalogo. Le foto dovevano essere esclusivamente in bianco e nero, iniziai così a occuparmi della stampe bn. E per moltissimo tempo lavorai esclusivamente in bn, in quanto mi permise di avere il massimo controllo sul risultato finale.

 

Fabiano Busdraghi: Immagino che ti riferisci al fatto che, in ambito domestico, solo la fotografia in bianco e nero permetteva di eseguire tutte le tappe personalmente, dallo sviluppo della pellicola alla realizzazione della stampa. Oggi con il digitale è possibile dedicarsi in casa anche al colore. È stato l’avvento del digitale a farti iniziare a lavorare anche con il colore?

Raffaello Di Lorenzo
Nascita, Corpografie.
© Raffaello Di Lorenzo

Mi viene in mente anche un’altra possibile risposta. Hai detto che per moltissimo tempo hai lavorato in bianco e nero per avere il massimo del controllo. Con l’esperienza accumulata dopo tutti questi anni pensi si possa dire che si tende sempre verso uno stato di perfezione totale? Oppure quello del controllo è un’illusione, tanto meglio lasciarsi andare e sfruttare il caso?

Raffaello Di Lorenzo: Si. Grazie al digitale ho potuto ampliare le mie capacità espressive limitate prima solo al bianco e nero. Per il bianco e nero, a parte per stampe più o meno tradizionali, non avevo punti di riferimento con cui scambiare informazioni, conoscenze e con cui sperimentare qui in Valtellina. Alcuni fotogrammi in bianco e nero infatti li ho ripresi elaborandoli in digitale per avvicinarmi maggiormente al tipo di immagine che volevo estrarre.

Il digitale ha democratizzato la fotografia.

Raffaello Di Lorenzo
Spalle, Corpografie.
© Raffaello Di Lorenzo

Cosa intendo? Nel senso che prima la stampa in bianco e nero, per quanto relativamente diffusa, è sempre stata o considerata un’attività elitaria e sicuramente per stampare a certi livelli è necessaria un’esperienza e una dedizione notevole, e anche una grande quantità di tempo e sforzi. Questo faceva si e fa si che chi stampa in camera oscura sia considerato a metà tra un alchimista e un mago. Onestamente vedendo la qualità di certe opere in bianco e nero è così che mi immagino lo stampatore. Il digitale ha accelerato notevolmente la curva di apprendimento. Adesso un ragazzino di 16 anni crea immagini con il fotoritocco che fanno impallidire molto fotografi della vecchia guardia (che poi il contenuto sia assente, beh, questo è ovviamente un altro discorso), cosa che coi processi chimici era altamente improbabile.

Entrambi i processi permettono di avere il massimo controllo del risultato, e qui c’è un pericolo, divenire succubi del processo. Qualsiasi abilità tecnica non può compensare totalmente una mancanza di contenuti. L’immagine, la fotografia, è un testo visivo. La tecnica è la grammatica che veicola il contenuto dell’immagine. La grammatica deve asservire il contenuto. Rimanendo nell’esempio del testo visivo, per esprimere un concetto posso usare un haiku o una ricca prosa d’annunziana. Ma se manca il contenuto quello che ottengo è la famosa frase della “supercazzola” di Tognazzi, riempie la bocca ma quando la senti dici “eh?”. Adams disse “Non c’è niente di peggio dell’immagine esattissima di una idea confusa”.

 

Raffaello Di Lorenzo
Pubertà di Shiele, Corpografie.
© Raffaello Di Lorenzo

Fabiano Busdraghi: Nella serie di fotografie “Corpografie” il soggetto delle foto sei tu stesso, o meglio il tuo corpo. Che cosa ti ha portato a fare questa scelta? Si tratta di un lavoro sul corpo in senso assoluto, e utilizzi te stesso perché sai esattamente quello che vuoi ottenere da ogni immagine, diventando il modello perfetto? Oppure più che un lavoro sul corpo in generale è un’esplorazione di te stesso, di quello che sei?

Raffaello Di Lorenzo: È entrambe. Come dissi prima, in un dato momento ho avuto la necessità di affrontare delle tensioni emotive. La fotografia è stata lo strumento a me più naturale. Non avevo “modelli o modelle” a disposizione, ero appena agli inizi, e soprattutto essendo emozioni interne l’autoscatto era la logica conseguenza.

 

Fabiano Busdraghi: Nelle immagini sono presenti puntini bianchi, peletti, aloni, che rendono le immagini antiche e nostalgiche. Come se tu avessi utilizzato dei negativi senza pulirli prima dell’ingranditore. Allora tutti i “difetti” come la presenza di polvere, pelucchi, graffi, calcare diventa evidente. Puoi spiegarci i perché questa scelta? Che cosa rappresentano per quanto riguarda la percezione dell’immagine questi elementi?

Raffaele Di Lorenzo
Triangolo, Corpografie.
© Raffaello Di Lorenzo

Raffaello Di Lorenzo: Corpografie è nata in analogico. Scelsi una pellicola inadatta per la resa dei ritratti che poi fu scansionata. Nella scansione sporcai deliberatamente la superficie dello scanner.

Perché e cosa significano i pelucchi, graffi ecc? Riguardo a certe scelte stilistiche, in alcuni casi, non sempre una spiegazione razionale risulta esplicita ed evidente. Spesso rappresentano una traccia che si presta a diversi tipi di lettura. D’altronde è evidente che l’autoreferenzialità di una immagine è un grande bluff. Nello specifico l’aver introdotto dello sporco o dei graffi nell’immagine è stata una forma di sabotaggio al solo godimento dell’immagine, un invito ad andare oltre, a porsi delle domande. Alcuni mi hanno addirittura chiesto, offesi, perché non avessi fatto almeno lo sforzo di pulire le fotografie prima di presentarle… questo la dice lunga sulla analfabetizzazione visiva.

 

Raffaello Di Lorenzo
Trapped Dreamers.
© Raffaello Di Lorenzo

Fabiano Busdraghi: Bellissima e ridicola vignetta, mi sarebbe proprio piaciuto essere presente! Certo che questi “elementi esterni” sono così evidenti nell’immagine che faccio fatica a capire come possa una persona non immaginare che sono chiaramente volute dal fotografo… Stendiamo un velo pietoso, mi sa che è meglio, e andiamo avanti con l’intervista.

L’altra serie che ci proponi, Trapped Dreamer, è dedicata a chi è malato di Alzheimer, ed in particolare la tua stessa mamma.

Ho molto apprezzato le foto, il voler mostrare una malattia senza mezzi termini, senza voler nascondere la sofferenza, senza far finta che si tratti solo un vecchietto sorridente e un po’ rimbambito, senza voler -con la scusa di rispettare il malato- scadere nel buonismo. Tu ci mostri la malattia così com’è, nella sua verità siderale e nella tua esperienza diretta con essa. Oltre ad essere una sorta di reportage sulla malattia mi pare che si tratti anche di un racconto intimo di te stesso e di quello che hai vissuto.

Raffaello Di Lorenzo
Trapped Dreamers.
© Raffaello Di Lorenzo

Perché quindi hai deciso di realizzare questa serie? Cosa ti ha spinto? Hai cercato di esorcizzare la malattia, di tirarla fuori? O piuttosto volevi sensibilizzare l’opinione pubblica in proposito, diffondere ciò che ancora in molti ignorano?

Raffaello Di Lorenzo: Come per Corpografie, la serie di fotografie Trapped Dreamers è nata da una pulsione intima, intensa ed esplosiva che avevo bisogno di affrontare e veicolare. Il medium fotografico per me è perfetto. In un certo senso fa da filtro e ti permette di affrontare la situazione sia in modo associato che dissociato. Inizialmente non mi interessano gli altri, sono lavori che nascono per me stesso. Molti hanno bisogno di sfogarsi a parole con qualcuno, io preferisco fotografarlo e poi mostralo. Così creo una valvola di sfogo continuo e no rompo i coglioni a nessuno [risa]. Poi in genere scopro che queste immagini raggiungono direttamente chi le guarda e hanno un significato e un valore molto più ampio rispetto a quello mio personale.

Raffaello Di Lorenzo
Trapped Dreamers.
© Raffaello Di Lorenzo

Mi rendo conto che fa male a molti. Avevo scoperto su flickr un gruppo dove si possono postare foto di malati Alzheimer, ma solo il nonno carino rimbambito. Mi sono sentito offeso perché era una persona che aveva tutta la vita davanti che è stata rubata dalla malattia. Ho postato le mie foto che ovviamente sono sta cancellate. Mi rendo conto che molti non sono attrezzati emotivamente per affrontare certe situazioni, ma credo che mostrare solo le foto del nonno sia pernicioso e fuorviante. L’Alzheimer non è una malattia che distrugge solo il corpo ma soprattutto l’essenza stessa della persona i suoi ricordi. E insieme ai suoi ricordi parte della memoria storica della famiglia.

L’Alzheimer strappa i legami familiari, è odiosa.

 

Raffaello Di Lorenzo
Trapped Dreamers.
© Raffaello Di Lorenzo

Fabiano Busdraghi: Immagino che lavorare con tua madre sia stato emotivamente molto duro. Come hai vissuto quest’esperienza?

Raffaello Di Lorenzo: A tappe. Non è stato difficile fotografare è difficile andare in quel posto e vedere un tuo caro in quella situazione, che poi fotografi o meno a me non cambiava nulla, è stato difficile elaborarle, prenderne coscienza e dare forma al dolore. Nei mie lavori seguo sempre le emozioni e mi fermo quando sento che è tutto “giusto”. E’ stato un esperienza talmente totale che da allora non ho fatto più nulla di introspettivo. Solo ora sto pensando di iniziare nuovi lavori.

 

Raffaello di Lorenzo
Trapped Dreamers.
© Raffaello Di Lorenzo

Fabiano Busdraghi: Sei stato criticato da altri parenti o conoscenti per queste immagini? Quali sono i loro argomenti e le tue risposte in merito?

Raffaello Di Lorenzo: Non le ho mai mostrate ai parenti, perché non capirebbero, hanno vissuto il dolore in modo diverso. D’altronde ogni esperienza è in se stessa neutra, siamo noi a caricarla di valenze emotive.

 

Fabiano Busdraghi: Hai delle riviste e blog di fotografia che leggi regolarmente? Secondo te possono sostituire la diffusione delle immagini fotografiche nei circuiti classici?

Raffaello Di Lorenzo: Riviste di fotografia non credo che esistano più, o almeno come le intendo io, l’unica che reputo tale tra quelle che conosco è Private, peccato contempli solo il bn. Per il resto cerco molto su internet immagini, fotografi e tecniche.

Raffaello Di Lorenzo
Albero e Luna, Inquietudini.
© Raffaello Di Lorenzo

Credo che internet integri i circuiti classici. Vedere un’opera dal vivo è ben diverso che sul monitor, il modo stesso in cui comunica è diverso, anche il messaggio può essere diverso, le dimensioni della stampa, le loro esatte cromie e luminosità, il supporto sono tutte cose che si perdono col web e che hanno comunque una loro valenza comunicativa. Alla luce di questo ritengo che vedere le opere dal vivo sia essenziale per chi vuole veramente dialogare con un autore. Faccio un esempio che mi riguarda: vedere Corpografie sul web genera una sensazione. Vederla dal vivo (nel caso del primo allestimento), in una stanza totalmente rivestita di panno nero (pavimento e soffitto inclusi) con le foto appese al soffitto con fili di nylon trasparenti e illuminate solo da faretti unidirezionali e una musica di Edit Piaff in sottofondo è un’esperienza totalmente diversa dal punto di vista del messaggio, del coinvolgimento e anche dialogo che si può instaurare tra il fruitore e l’opera stessa, rispetto a vedere le stesse foto sul web (oltre ai soliti problemi di gestione colore dei vari monitor e software).

 

Fabiano Busdraghi: Qualche fotografo di cui apprezzi particolarmente il lavoro e perché.

Raffaello Di Lorenzo
Teschio, Inquietudini.
© Raffaello Di Lorenzo

Raffaello Di Lorenzo: David LaChapelle, sia per l’abilità tecnica che per i contenuti, feroci e ironici. Ho avuto il piacere di vederlo a Milano, stupendo! Qualche tempo fa avrei detto Dragan, in realtà mi sono reso conto (magari sbaglio) di quanto sia debitore ad Avedon è mi è un po’ calato l’entusiasmo nei suoi confronti, anche se apprezzo moltissimo la sua capacità di elaborazione. Amo i lavori di Jeanloup Sieff, non c’è campo in cui, a mio parere, non eccelli. Come usa il contrasto, la luce, le sue composizioni ogni cosa credo sia perfetta. Apprezzo la lirica di Maleonn oltre alla sua bravura tecnica. Attualmente lui e Pinardy sono i fotografi che studio da un punto di vista tecnico, di vero e proprio processo di fotoritocco.

 

Fabiano Busdraghi: Giusto qualche curiosità sui tuoi gusti personali. Che libro stai leggendo in questo momento? Che musica ascolti? Quali sono i tuoi film preferiti?

Raffaello Di Lorenzo: Leggo sempre diversi libri contemporaneamente e quasi mai in modo lineare, attualmente sto studiando: “Patafisica e arte del vedere” di Jean Baudrillard e “Nonluoghi” di Marc Augè.

Film: “Matrix” per la sua estetica fetish.

Musica: dipende, passo da Mozart a Marylin Manson con molta disinvoltura, tra i preferii ora come ora ci sono i Sigur Ross, Cure, Negrita, Red Hot Chili Peppers. Onestamente dipende molto dal tipo di emozione che voglio suscitare con una immagine, cambio musica a seconda del messaggio visivo, amo la sinestesia.

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Il sogno di una principessa antica di Marco Guerra /it/2008/marco-guerra/ /it/2008/marco-guerra/#respond Sun, 19 Oct 2008 08:34:24 +0000 /?p=631 Related posts:
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Marco Guerra

Marco Guerra è un fotografo italiano che ha uno studio di fotografia commerciale a New York. È uno dei rari fotografi il cui lavoro di moda mi piace sinceramente, e non sfigurerebbe assolutamente in una galleria d’arte. Si veda in particolare “Conde nast traveller” e “Egon”, a mio gusto personale perfettamente inseriti fra ispirazione pura e commissione.

Il sito di Marco Guerra del resto è molto completo e vale la pena fare un giro approfondito. Oltre al portfolio pubblicitario e di moda vengono presentati ritratti personali e commissionati, pubblicità e qualche progetto artistico. Quasi tutte le immagini sono veramente di livello altissimo e un giorno gli proporrò un intervista in modo da pubblicare qualche immagine in più e discuterne insieme.

Oggi però mi volevo limitare ad una fotografia del progetto “1001 dreams”. Foto di nudo sulle quali la compagna di Marco Guerra dipinge dei motivi decorativi e geometrici che ricordano i tatuaggi tribali e gli arabeschi delle moschee. Come al solito sono particolarmente affascinato dai lavori in cui si mischia con disinvoltura la fotografia ad altre forme di espressione artistica che, in generale, sono considerate lontane o addirittura incompatibili con la fotografia stessa. Ecco quindi un altro buon esempio di come non valga la pena definire rigidamente cosa sia e non sia fotografia, ma seguire la propria vena creativa liberamente e senza condizionamenti.

Le foto della serie “1001 dreams” mi affascinano tutte, anche perché da alcuni anni lavoro anche io sul tema della pella e della sua scrittura, e quindi è un tipo di ricerca cui sono particolarmente sensibile. La mia preferita è comunque la foto che ho scelto per questo breve articolo, l’unica che, oltre alla bellezza e al fascino delle altre, mi fa viaggiare lontano.

La riflessione verticale della ragazza infatti mi fa sognare epoche mitiche e lontane, e mi evoca l’acqua, pur senza vederla. Devo dire però che mi fa pensare, più che all’usitato mito di Narciso, alla penombra oscura di un gineceo in cui ogni sguardo è proibito, gli angoli nascosti e vaporosi di un hammam in cui giovani fanciulle lasciano cadere i loro veli, sicure che nessuno le vedrà. Mi fa immaginare una principessa antica di un’epoca di fantasia, che si lava specchiandosi nella vasca del suo palazzo, mi ricorda Zhang Ziyi in House of the flying daggers mentre si bagna, fingendosi cieca, in una pozza di foresta nebbiosa. Una storia fra parentesi ispirata dall’antica poesia di Li Yannian:

北方有佳人,絕世而獨立。
一顧傾人城,再顧傾人國。
寧不知傾城與傾國。
佳人難再得。

 

Una rara bellezza del nord, la più bella donna sulla terra.
Un suo sguardo e tutta la città cade, un secondo lascia il regno in rovina.
Non sapevo forse che avrebbe rovesciato città e nazioni?
Ma una tale bellezza è così difficile da ritrovare!

Poi ci si rende conto che in realtà non si tratta di una riflessione, e all’inizio si pensa ad una rotazione, come nelle carte da gioco, o in certe fotografie di Jan Saudek. Questo gesto immaginario, l’azione mentale di prendere la fotografia e ruotarla, l’idea di poterla osservare indirettamente da sopra o da sotto, che tutto è relativo, che la vera fruizione si fa inevitabilmente ruotando l’immagine senza posa, non può che evocare l’idea del cerchio. Non può che far pensare ad un simbolo di perfezione e completezza, di armonia, di equilibrio. Ecco che vengono a mente immagini più o meno autentiche di un’antica saggezza orientale, della filosofia e religione Cinese e Indiana, in cui l’alternanza solamente ha senso, in cui gli opposti, il sopra e il sotto, il bianco e il nero, si compenetrano senza posa.

Ma anche quest’interpretazione poi cade, le due figure non sono né una riflessione né una rotazione l’una dell’altra, ma proprio due fotografie indipendenti, simili ma pur diverse, della stessa persona in due pose quasi simmetriche. Cos’è allora? Un ricordo, il tempo che passa? Un sogno, un’idea mai realizzata?

Meglio non porsi domande, e lasciarsi cullare dall’immagine e da quello che ci sa sussurrare, meglio lasciarsi andare alle sensazioni, senza pensare. L’atmosfera di penombra, le mani che toccano il viso come in una leggerissima carezza, le braccia incrociate in un gesto femminile di quiete e protezione, gli occhi chiusi con dolcezza inequivocabilmente suscitano immagini di morbidezza, penombra, silenzio, che amo in modo particolare. Le donne aggressive, mascoline e moderne di tanti fotografi non mi fanno sognare come questa bellissima principessa dell’isola di Pasqua o di qualche sperduto regno dell’Asia di un’epoca che non è mai esistita.

Una fotografia totale, assoluta. In cui l’arabesco e la doppia immagine evocano perfettamente l’antico e la perfezione, la bellezza di un mondo che non c’è.

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Discrete apparenze, Jean-Marie Francius /it/2008/discrete-apparenze-jean-marie-francius/ /it/2008/discrete-apparenze-jean-marie-francius/#respond Sat, 14 Jun 2008 08:58:45 +0000 /?p=2770 Related posts:
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Jean-Marie Francius
© Jean-Marie Francius

Galleria con le foto della serie Discrete Apparenze di Jean-Marie Francius. Stampe tradizionali dell’autore.

Si tratta di una serie di nudi, ma non si guarda mai di fronte le modelle, non si vede mai un viso, sono dei ritratti di schiene femminili. Le fotografie sono eleganti e raffinate, le pose sono spesso quelle della tradizione classica, suscitando una sensazione nostalgica e poetica. La stessa piccola tavola è l’unico elemento decorativo ricorrente, c’è solo questa luce dolce che tocca con grazia i corpi delle donne. Le stampe poi, dal vero, sono veramente squisite.

Discrete apparenze, Jean-Marie Francius

[See image gallery at www.co-mag.net]

Tutte le foto di questa pagina: © Jean-Marie Francius.

Visitare la galleria le foto della serie Angeli o leggere l’intervista a Jean-Marie Francius.

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Gli Angeli di Jean-Marie Francius /it/2008/angeli-jean-marie-francius/ /it/2008/angeli-jean-marie-francius/#respond Sat, 14 Jun 2008 08:49:56 +0000 /?p=2764 Related posts:
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Jean-Marie Francius
© Jean-Marie Francius

Galleria con le foto della serie Angeli di Jean-Marie Francius.

Le fotografie di questa serie di nudi rappresentano delle donne-angelo. Les ali sono state grattate sul negativo, ottenuto con l’acido, disegnate sulle stampe o ancora incollate sulla schiena delle donne, amiche o conoscenti di Jean-Marie Francius.

Le stampe sono di vari formati, spesso in dittico o trittico, ma sono tutte molto piccole, intime e poetiche. Sono state tutte realizzate personalmente dall’autore nella sua camera oscura tradizionale.

Gli Angeli, Jean-Marie Francius

[See image gallery at www.co-mag.net]

Tutte le foto di questa pagina: © Jean-Marie Francius.

Vedere le foto della serie Discrete Apparenze o leggere l’intervista a Jean-Marie Francius.

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Intervista a Jean-Marie Francius /it/2008/jean-marie-francius-intervista/ /it/2008/jean-marie-francius-intervista/#respond Sat, 14 Jun 2008 08:45:23 +0000 /?p=2758 Related posts:
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Jean-Marie Francius
© Jean-Marie Francius

Jean-Marie Francius è un fotografo di moda che sviluppa un lavoro personale sulle donne. Lavoro rigorosamente tradizionale, in reazione al digitale che domina la fotografia commerciale, magnifiche stampe in bianco e nero realizzate personalmente nella sua piccola ma super equipaggiata camera oscura. Il metodo tradizionale permette di recuperare un approccio lento e intimo alla fotografia, una dimensione differente, che determina la delicatezza ed eleganza delle immagini di Jean-Marie Francius.

In occasione di questa intervista Jean-Marie mi ha inviato molte riproduzioni dei suoi nudi, fra l’altro ad una risoluzione che ne rende gradevole la visione anche a schermo. Piuttosto che selezionare solo una parte di queste immagini ho preferito creare due gallerie indipendenti con tutte le foto: discrete apparenze e gli angeli.

 

Fabiano Busdraghi: Ci puoi raccontare la tua storia di fotografo?

Jean-Marie Francius: Tutto comincia quando avevo 16 anni, la scoperta di una camera oscura di un amico, una rivelazione!

Poi il foto club di Sarcelles, la cittadina di periferia dove vivevo. In seguito ho fatto l’assistente in studio e per qualche sfortunato reportage di matrimonio, una buona scuola! Nel 1984, di ritorno nella mia terra Natale, la Guadalupe, ho cominciato a fare qualche foto per le agenzie di pubblicità locale (due!) prima di aprire il mio primo studio, era ieri!

 

Fabiano Busdraghi: Cosa rappresenta per te la fotografia?

Jean-Marie Francius: Un piccolo miracolo chimico fisico, che quando è ben realizzato permette di pensare/sognare un mondo a due dimensioni, e condividerlo in modo universale, una vera e propria farsa insomma!

 

Jean-Marie Francius
© Jean-Marie Francius

Fabiano Busdraghi: Quali sono le ragioni che ti hanno portato a lavorare con i corpi? Perché in particolare hai scelto il nudo femminile?

Jean-Marie Francius: Per il pittore mancato che sono, il corpo e la sua immagine sono una grande fonte di ispirazione. Ho iniziato a fare dei nudi inizialmente disegnando, avevo 8, 9 anni e i miei eroi erano Akim e Zembla (fumetti degli anni 60)… era laborioso e c’erano dei muscoli dappertutto.

Più tardi, con la fotografia, ho trovato un metodo più rapido… ma per rispondere alla tua domanda i miei primi nudi erano “David Hamiltoniani“, non ben fissati e li offrivo senza nessuna vergogna.

 

Fabiano Busdraghi: Nella serie degli angeli e discrete apparenze le modelle sono tutte tue amiche. Cosa cambia Quanto si lavora con una modello pagato o con un conoscente che posa per te per sua libera scelta? È più difficile lavorare con qualcuno che non ha mai posato rispetto ad una modella professionale?

Jean-Marie Francius: Gli angeli sono nati da incontri, pure da confidenza, d’amicizia, mi piace l’idea di “fare” una foto non “prenderla” (in francese fotografare si dice “prendere fotografie”).

Sono spesso toccato dalla grazia delle persone che non hanno un rapporto abituale con la fotografia, c’è una sincerità cui istintivamente vado incontro, con pazienza e pure goffaggine…

 

Jean-Marie Francius
© Jean-Marie Francius

Fabiano Busdraghi: Nel tuo lavoro personale usi unicamente macchine fotografiche tradizionali e ti occupi personalmente della stampa. Ci puoi spiegare le ragioni di questa scelta? Cerchi la resa della fotografia tradizionale perché non ti piace la resa del digitale? Oppure è il piacere di riscoprire i gesti antichi, il contatto manuale con i materiali, la magia dello sviluppo dell’immagine latente?

Jean-Marie Francius: Sali d’argento! Pellicole! Delle macchine che fanno clic e clac. Una Rolleiflex, la Tri-X, l’odore del fissaggio, il nero, il rosso, i gesti ripetuti, un rituale, e alla fine, a volte, la gioia di un piccolo momento…

Col digitale ho l’impressione così forte che ci rifilino della tecnologia balbuziente e una montagna di plastica.

 

Fabiano Busdraghi: Le foto delle tue serie Angeli e Discrete Apparenze sono tutte stampate in piccolo formato, quando le stampe molto grandi sono in generale lo standard nelle gallerie. Ci puoi commentare questa scelta?

Jean-Marie Francius: Sono sicuramente attirato dal piccolo formato a causa del disegno. Comunque le piccole stampe sono più difficili da realizzare, i disequilibri di valori e di contrasto sono flagranti.

Se “in piccolo” non funziona, ci sono grandi probabilità che pure in più grande la cosa non migliorerebbe.

Per Discrete apparenze, la mia esposizione questo inverno, ho cercato una certa intimità, una promiscuità fra la stampa e l’osservatore. Il formato aiuta una certa concentrazione… a mio vedere…

Jean-Marie Francius
© Jean-Marie Francius

Fabiano Busdraghi: Come si concilia il lavoro di fotografo professionista con le proprie ricerche personali? Pensi che il lavoro commerciale è un’espressione pura della tua creatività, o seguire una commissione implica dei compromessi spesso troppo pesanti?

Jean-Marie Francius: Ah! Il lavoro professionale… faccio dei ritratti per le riviste e un po’ di pubblicità. Non vieni scelto per forza per la tua immaginazione. La scelta dei fotografi è spesso oscura (…) da cui la necessità di fare immagini personali, quelle che se non arricchiscono forgiano la tua visione…

Per quanto riguarda la creatività nel lavoro commerciale è quasi una parolaccia! Aimé! I direttori artistici sono rari, e quelli bravi fanno loro stessi le foto! Quando ero assistente, i manifesti, le campagne pubblicitarie ti facevano venir voglia di fare pure te così bene, se non meglio. Oggi, è della réclame! Carina, ritoccata, ma della réclame! La resa economica ha preso il passo sulla creazione, addio alle campagne Guy Bourdin e Charles Jourdan. Per fortuna rimangono i libri, dove dei progetti belli e intelligenti vengono alla luce!

 

Jean-Marie Francius
© Jean-Marie Francius

Fabiano Busdraghi: Tutti i fotografi hanno delle “foto mai fatte”. Delle immagini che per limiti tecnici del momento, lentezza, mancanza di materiale, errori, etc non sono mai state fatte e sono perse per sempre. A volte è pure una scelta, si vede la foto ma si preferisce lasciare la macchina fra le mani, guardare solo con gli occhi per godere pienamente della realtà. Spesso mi affeziono in modo un po’ speciale a certe “foto mai fatte”, che diventano ottimi ricordi. Ci puoi raccontare una delle tue “foto mai fatte”?

Jean-Marie Francius: Ho un panteon personale di Foto mai fatte.

Tuttavia: qualche anno fa, per l’albero di natale dell’Eliseo, il comitato delle feste e divertimenti, ha avuto la buona idea di uno spettacolo di pagliacci in questo bel palazzo. Verso le 21 i pagliacci non erano ancora in pista. La brillante organizzazione presidenziale sollecitò una macchina ufficiale e un paio di moto repubblicane con l’imperiosa missione di portare istantaneamente i due augusti! Vestiti, truccati, con i cappelli, i due gioiosi buffoni si infilarono nella macchina… il corteo veloce scendeva gli Champs Elysée… con alle finestre due “passeggeri” che salutavano a gran sorrisi i pedoni stupefatti.

Ecco! Avrei voluto fare quest’immagine!

 

Jean-Marie Francius
© Jean-Marie Francius

Fabiano Busdraghi: E la storia di una delle foto che accompagnano l’intervista?

Jean-Marie Francius: La foto che ha dato inizio alla mia serie degli angeli.

La fine di una sessione in studio e l’ultima Polaroid! Ero così febbrile che l’ho parzialmente strappata cercando di pulirla… è un’immagine che amo molto, la fragile sopravvissuta di una bella giornata…

 

Fabiano Busdraghi: Un fotografo di cui ami particolarmente il lavoro e perché

Jean-Marie Francius: Diane Arbus, che durante 12 anni ha fotografato un’America lontana dal “sogno”. Quella di una popolazione altrove. Ha semplicemente saputo mostrare un’altra faccia dietro l’apparente facilità, e in questo c’è tutta la convinzione e l’ostinazione del grande artista, è implacabile di Verità.

Da leggere: Patrick Roegiers “Diane Arbus o il sogno del naufrago”, Perrin.

 

Fabiano Busdraghi: Che libro stai leggendo? Che musica ascolti? I tuoi film preferiti?

Jean-Marie Francius: I libri, ho un modo caotico di leggerli. Ne ho sul mio letto, nelle mie borse, nelle mie giacche, pure nella mia camera oscura!

In questo momento leggo Jim Harrison: il mangiare, il vino, gli amici…

Musica: molto reggae.

Film: No country for old men (Non è un paese per vecchi) dei fratelli Cohen.

 

Jean-Marie Francius
© Jean-Marie Francius

Fabiano Busdraghi: Su cosa stai lavorando in questo momento? Come si differenzia rispetto ai tuoi lavori precedenti? Hai qualche progetto per il futuro che ancora non hai iniziato?

Jean-Marie Francius: Attualmente lavoro su dei trittici, dei nudi (…), Dei ritratti, delle piccole storie.

Tutto questo piccolo mondo in bianco e nero, con pure un po’ di grigio…

 

Jean-Marie Francius è rappresentato dalla galleria Chambre avec vues. È possibile vedere le altre foto della serie gli angeli o della serie Discrete apparenze.

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Le nuove gomme bicromate su legno di Massimo Attardi /it/2008/gomme-bicromate-legno-massimo-attardi/ /it/2008/gomme-bicromate-legno-massimo-attardi/#comments Mon, 09 Jun 2008 09:20:32 +0000 /?p=465 Related posts:
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Massimo Attardi
Gomma bicromata su legno 100x100cm
© Massimo Attardi

Come abbiamo detto nell’ultimo post, l’intervista a Massimo Attardi è in assoluto l’articolo più cliccato di Camera Obscura. I lettori saranno quindi felici di apprendere che poco tempo fa Massimo Attardi mi ha contattato per inviarmi le sue ultime gomme bicromate su legno. Oltre alle riproduzioni delle nuove opere, in una godibilissima risoluzione, mi ha inviato anche un nuovo video che lo mostra al lavoro, un video splendidamente realizzato che ci porta per un attimo nel magico atelier di un artista che stampa gomme bicromate di grande formato (in fondo all’intervista). Con l’idea di presentare tutto questo nuovo materiale ho approfittato per fare qualche nuova domanda a Massimo Attardi.

 

Fabiano Busdraghi: Nel tuo lavoro precedente, rispetto a quello degli scorsi anni, mi sembra di notare dei colori più dolci e pastello, più tenui, più delicati. Le donne sembrano meno aggressive, meno notturne. Me le immagino volentieri nella luce morbida del mattino, quando si sono svegliate da poco. Stai evolvendo verso una rappresentazione più morbida oppure semplicemente in questi tempi sono questi i colori che ti va di usare?

Massimo Attardi: In effetti sto cambiando un po’ l’utilizzo dei colori: cerco di trovare un equilibrio più morbido tra questi e di uscire dal modo tipicamente pittorico di usare la gomma bicromata.

Sto usando delle maschere quando stampo e poi intervengo anche manualmente sulla stampa asciutta. Insomma sto sperimentando.

 

Fabiano Busdraghi: Quando stampi hai un’idea precisa del risultato che vuoi ottenere o la camera oscura è un terreno di gioco e di scoperta? Nel tuo lavoro parti da un’idea, o se vogliamo un’ispirazione, e inizi a tirarla fuori dalla materia poco a poco, come fa uno sculture scavando nel blocco di marmo? Oppure la serendipità è una componente importante del tuo lavoro, sperimenti lasciando l’immagine evolvere quasi da sola fino a che il caso non ti regala una splendida sorpresa?

Massimo Attardi: Beh, il caso è sempre stato una componente di quasi tutto il lavoro artistico, quando questo porta ad un risultato migliore di quello preventivato va bene, a volte, può dare l’indicazione per una ulteriore strada da esplorare, fermo restando però che nel progetto iniziale di un lavoro, c’è già un’idea formata.

Iniziare un lavoro senza avere nessun tipo di linea lavorativa, il più delle volte non porta a nulla. A quel punto è meglio non cominciare neanche a lavorare.

Nel caso particolare del mio lavoro, dopo ogni passaggio, confronto mentalmente il risultato, con il progetto iniziale, dopodiché continuo con i passaggi successivi, oppure apporto delle piccole modifiche.

Se eventualmente, dopo un passaggio, mi venisse in mente un’idea radicalmente diversa, la applico ad un lavoro successivo.

 

Massimo Attardi
Gomma bicromata su legno 100x200cm
© Massimo Attardi

Fabiano Busdraghi: Sento spesso gli italiani lamentarsi del fatto che l’Italia sia rimasta indietro, che ci riposiamo sugli allori di un passato illustre, ma che dal rinascimento abbiamo combinato poco. Che l’Italia è un paese di musei che sanno di stantio, che l’arte contemporanea si fa altrove. Che l’accettazione della fotografia come forma d’arte qui ancora non è arrivata. Che per esporre, nella penisola molto più che altrove, sono necessarie reti e contatti infiniti, conoscenze e raccomandazioni. Che di artisti italiani ce ne sono a decine ma sono costretti a viaggiare e esporre all’estero, un po come la tanto lamentata fuga dei cervelli.

In un certo senso è vero che l’Italia riposa molto sulla sua storia, ma mi chiedo quanto sia poi un rimpastare luoghi comuni. Te cosa ne pensi? Quale ti sembra essere la situazione artistica italiana? E Roma in particolare? C’è una differenza così marcata fra fotografia e le altre arti visive?

Massimo Attardi: Rispondere a queste domande probabilmente non basterebbero molte pagine, per cui, per forza di cose, sarò un po’ sintetico.

L’Italia, purtroppo, è quasi sempre stata colonia, culturalmente, politicamente, artisticamente.

Dico “quasi sempre”, perché per fortuna non è sempre stato cosi’, ma ultimamente mi sembra che l’appiattimento e l’omologazione verso certi modelli artistici non italiani, sia evidentissimo.
L’arte contemporanea si fa anche in Italia, ma è anche vero che la città italiana più a sud dove si “lavora” con l’arte contemporanea è Milano (a parte qualche eccezione a Torino e Roma).

All’estero, può essere più duro lavorare, ma, secondo me, c’è più probabilità di veder riconosciuto il proprio lavoro, (se valido).

Le raccomandazioni e le conoscenze, come “modus” per acquisire notorietà, in questo caso rappresentano un malcostume (purtroppo o per fortuna) non solo italiano, ma, credo, mondiale.
Però riuscire a presentarsi e a proporsi nel modo giusto, è importante. anche se chi fa arte, non sempre è un buon venditore di se stesso.

A Roma, negli ultimi anni, sicuramente qualcosa si sta muovendo. in generale però mi sembra che ci sia sempre la paura di rischiare, appoggiandosi su nomi sempre già abbastanza conosciuti,

Vorrei, prima di continuare su questo tema, specificare chiaramente, che io non sono un fotografo. Io uso la fotografia. Chi fa arte, usa un mezzo. È cosi’ importante quale usa? Non c’è assolutamente nessuna differenza tra la fotografia e le altre arti visive.

Massimo Attardi
Gomma bicromata su legno 100x100cm
© Massimo Attardi

Se le gallerie d’arte contemporanea espongono anche foto, considerandola evidentemente alla pari con altre forme d’arte visiva, che senso hanno le gallerie che espongono solo fotografie? Forse sono proprio queste gallerie che relegano la fotografia in un ambito di pochi, che considerano la fotografia (togliendogli quel respiro che da un bel po’ ha), come cosa a sé stante, diversa, e in qualche modo più “pura”, dall’arte contemporanea. Insomma, mi sembra proprio che quello della fotografia, sia una specie di isolamento voluto, e voluto proprio da chi dice di amare la “fotografia”, che fa mostre, riproponendo un cliché obbiettivamente un po’ stantio, di immagini viste, riviste, se non palesemente copiate. E questo probabilmente è il difetto più grave di un certo ambito fotografico, dove il nero più nero, il bianco più bianco e il grigio più grigio, è più importante di cosa si è fotografato.

 

Fabiano Busdraghi: Sono d’accordo con te, non c’è nessuna differenza fra fotografia e arti visive, come sto cercando di dimostrare con una serie di articoli su Camera Obscura che si intitola “fotografia e verità”. Il problema è che la maggior parte degli artisti, dove intendo “gente che smanetta per produrre qualcosa” usa il procedimento fotografico come potrebbe usare un pennello, uno scalpello, la colla o qualunque altro oggetto o supporto. In modo molto libero insomma. I fotografi, dove intendo chi semplicemente va in giro con la macchina e poi si fa le sue stampe, in genere si sono creati tutta una serie di paletti e di procedure ortodosse che nella loro visione non possono essere modificate, una serie di limiti invalicabili.

Perché succede questo? Credo che originariamente sia dovuto a questo vecchio equivoco di considerare la fotografia come un mezzo di riproduzione fedele della realtà. A me i limiti vanno stretti probabilmente quanto a te, ed è per questo che cerco di far capire ai fotografi quanto sia illusorio. Va detto però che la fotografia può essere utilizzata in tanti modi. Esiste la fotografia artistica, la foto di reportage, la quella di un catalogo pubblicitario, la fotografia scientifica, il ricordo sulla spiaggia, etc. Ognuno ha un linguaggio che gli è proprio e la sua destinazione d’uso, è questo quello che cambia, il metodo di lavoro, il mercato, il pubblico cui si risolve, non la fotografia in se. Questo giustifica in parte la presenza di gallerie dedicate unicamente alla fotografia.

Di fatto, in un mondo ideale, l’esistenza di gallerie unicamente fotografiche si giustifica infatti in termini puramente commerciali. Il gallerista cerca di selezionare tematicamente il proprio lavoro perché si rivolge ad un mercato ben preciso (le gallerie, lo sai probabilmente meglio di me, più che fare “arte” fanno “mercato dell’arte”). Se sa che c’è gente che compra l’immagine fotografica standard, senza ritocchi, montaggi, contaminazioni, etc decide di specializzarsi solo in quella, perché ha un bacino di utenza ben preciso. Oppure può scegliere di vendere della fotografia, diciamo più creativa. Oppure di mettersi in linea con altre gallerie di arte contemporanea dove il mezzo e il supporto non hanno quasi nessuna importanza, e quindi esporre occasionalmente fotografia mista ad altri media. Insomma, secondo me la scelta è puramente commerciale. Il problema è che spesso c’è una grande confusione. Le gallerie espongono un po’ questo un po’ quello. La gente, il pubblico, chi compra, è piena di pregiudizi su cosa sia arte, cosa sia fotografia, cosa sia oggetto e opera, etc. E tutto il casino nasce proprio qui. Idealmente sarebbe semplice no? Ogni fotografo o ogni artista fa quello che gli pare. Se il lavoro è bello lo si vende, chi se ne frega poi di cosa sia e dove lo esponga.

Massimo Attardi
Gomma bicromata su legno 100x100cm
© Massimo Attardi

Per finire, l’ambito fotografico cui fai riferimento, del nero più nero e della precisione tecnica, in generale nelle gallerie e nei musei (almeno a Parigi) per fortuna si vede veramente poco. Ho l’impressione che è più rilegato agli amatori, ai fotografi della domenica, al vecchietto che occupa il proprio tempo, a chi perde giornate sui forum di internet invece di fare immagini. La gente veramente forte fa bei lavori e basta.

Ma smetto di dilungarmi e ti faccio subito un’altra domanda geografica. In passato si è parlato molto di scuole e stili regionali. La fotografia tedesca, la scuola di Dusseldorf. Oggi invece, per dire, si vedono fotografi cinesi che hanno uno stile perfettamente occidentale. Credi che ormai tutte le barriere geografiche siano cadute, che l’arte sia globale, oppure restano delle specificità territoriali? Nel tuo lavoro è possibile riconoscere una certa “italianità” oppure non ha niente a che vedere con il paese in cui sei nato?

Massimo Attardi: Per mia natura, sono contrario ad una idea di confine, anche mentale. Certo l’influenza del luogo dove si nasce o si lavora è inevitabile. La tendenza, per esempio, ad iconicizzare (e ad esorcizzare) il passato del proprio paese, è un passaggio quasi obbligato, dopo però avviene un rimescolamento con tutto ciò che proviene da “fuori”, quindi, la contaminazione, in varie misure, modifica e anche, stravolge l’idea di identità artistica. Fortunatamente!

Per quanto mi riguarda, io non mi sento molto italiano.

Guardo in giro, prendo dove ci sono cose che mi interessano, mastico, metabolizzo, elaboro.
A volte esce qualcosa.

 

Fabiano Busdraghi: A Roma vivi e lavori nel Pastificio Cerere, quindi un luogo comune di artisti Romani. Quanto è importante nel lavoro come nella vita, essere a contatto con una comunità artistica? Ci puoi raccontare il Pastificio Cerere con gli occhi di uno che ci vive?

Massimo Attardi: A parte la mia innata riservatezza, e il conseguente starmene abbastanza per i fatti miei, la vicinanza di artisti di grande valore, è molto importante. Stimola molto, ti spinge a migliorare.

 

Massimo Attardi
Gomma bicromata su legno 100x100cm
© Massimo Attardi

Fabiano Busdraghi: Una domanda che ormai faccio ad ogni fotografo intervistato su camera Oscura. Mi capita spessissimo di vedere una fotografia e perderla, in generale per errori tecnici, mancanza di riflessi, o perché la macchina era nello zaino. Stavo anche iniziando a pensare se tenere un diario di fotografie non fatte, foto mai nate. A te capita? Puoi raccontarci una tua foto non fatta?

Massimo Attardi: Mah? no, normalmente non mi capita, anche perché parto con un progetto di massima, e poi lascio completa libertà alla modella, quindi, invece mi capita di fare foto a cui non avevo pensato.

 

Fabiano Busdraghi: Qualche piccola informazione tecnica. Nel tuo video sembra che già dopo uno strato di gomma ottieni degli ottimi neri. Ci avevi già detto qualcosa sulla mescola di gomma e di dicromato. Che pigmenti usi? In che quantità?

Massimo Attardi: Non è facile ottenere dei colori intensi con un solo passaggio, è un po’ rischioso, metà delle volte il risultato è scadente, conviene sempre fare due o tre passaggi. Nel caso del video, avevo solo un’ora a disposizione, e avevo preparato tre tavole. per fortuna è venuto tutto bene al primo tentativo.

Uso normali pigmenti in polvere, le quantità inizialmente le misuravo con un bilancino elettronico. Ora faccio ad occhio.

Le quantità sono circa 1 grammo di pigmento per 10ml di gomma (350g per un litro d’acqua) cui aggiungo 10ml di bicromato (70g per un litro d’acqua). Ma queste misure sono molto indicative, con alcuni colori aumento o diminuisco la quantità di pigmento.

 

Fabiano Busdraghi: Hai qualche scoperta tecnica sulla gomma dicromata che vuoi condividere? Qualche consiglio, astuzia, un comportamento o un effetto che hai notato recentemente?

Massimo Attardi: No, non ho particolari segreti, credo che tutto quello che riguarda la gomma bicromata, sia già stato sviscerato. Un’unica cosa che a volte mi succede, e di cui mi sfugge la causa, è che a volte l’immagine viene completamente invertita, o solarizzata. Per fortuna non succede quasi mai.

 

Fabiano Busdraghi: Nella scorsa intervista ti avevo già chiesto di un fotografo che fa uso di tecniche antiche e che apprezzi particolarmente e ci hai parlato di Jean Janssis. Stesso gioco, ma se vuoi levo il limite delle tecniche antiche. Quindi un altro fotografo di cui ami il lavoro e perché.

Massimo Attardi: Francesca Woodman, giovane e talentuosa poetessa, scomparsa troppo presto. Perché mi piacciono le sue opere? Vibrano. Emozionano. Sono una melodia silenziosa.

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