Fabiano Busdraghi – Camera Obscura /it A blog/magazine dedicated to photography and contemporary art Fri, 22 Jan 2016 13:24:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.4.2 Recensione di East of West LA, di Kevin McCollister /it/2012/east-west-la-kevin-mccollister/ /it/2012/east-west-la-kevin-mccollister/#comments Mon, 09 Jul 2012 08:40:42 +0000 /?p=7612 Related posts:
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Fotografia di Kevin McCollister (8)
Copertina del libro East of West LA © Kevin McCollister
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Non sono mai stato a Los Angeles.

Eppure è una città di cui più o meno tutti abbiamo una mappa visiva, costruita sugli innumerevoli film e serie televisive americane che volenti o nolenti hanno impregnato la nostra infanzia, se non anche l’età adulta. Quando penso a Los Angeles la prima immagine che mi viene in mente sono le palme, e l’azzurro del cielo nelle giornate di sole. Calore e intenso traffico cittadino. Splendide ragazze in abiti succinti, fiammanti macchine sportive. Le classiche ville americane con la piscina dal fondo blu, i barbecue nel giardino. I ricchi e i vip, le star sulla bocca di tutti. E naturalmente la famosa scritta Hollywood che capeggia bianca in cima alla collina, simbolo indiscutibile del sogno americano.

Non sono mai stato a Los Angeles, e non posso dire quanto questa rappresentazione corrisponda al vero. Ma poco importa. Anche i lavori fotografici che mi vengono in mente vanno spesso nello stesso senso, oscillando fra il lusso legato all’industria dello spettacolo e il sole della California. Non che questa sia una critica. Fotograficamente è interessante lavorare sulla specificità di un luogo, esplorare la sua essenza e le sue contraddizioni, gli elementi che lo caratterizzano. Ma è allo stesso tempo interessante avere una visione diametralmente opposta, agli antipodi di quella che costituisce l’immaginario collettivo.

Fotografia di Kevin McCollister (7)
Warehouse © Kevin McCollister
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Il libro East of West LA del fotografo e poeta Kevin McCollister è esattamente questo. Al di là del fatto che buona parte delle foto sono state scattate di notte, la maggior parte dei paesaggi urbani del libro sono tetri e oscuri, come se l’illuminazione notturna venisse risucchiata in modo misterioso, come se i luoghi, le case e le strade volessero negare in qualche modo l’abbagliante radiosità del giorno. Strade deserte, case dalle imposte tutte chiuse, ponti e cavalcavia che si distaccano appena sul cielo notturno, misteriosi costruzioni, luoghi tetri e vagamente inquietanti. I colori sono scuri, la paletta ricorda certi procedimenti fotografici di inizio secolo, alcune fotografie pittorialiste di Steichen, giocate su marroni scuro, ombre profonde, verdi riflessi appena visibili, colori densi e desaturi.

A far da contrappunto ai paesaggi urbani, diversi ritratti, visivamente molto diversi, in stile frontale, moderno e distaccato. Fotografie diurne, dai colori naturali, l’approccio documentario, obiettivo. Fotografie di barboni, marginali, ubriaconi, mendicanti, malati mentali, storpi, musicisti… personaggi particolari o pittoreschi, inquietanti o commuoventi. Perché nessun luogo è tale senza le persone che lo vivono, nessuna città può esser esplorata senza descrivere le persone che la abitano. Ritratti franchi e sinceri, di tutta l’umanità infinita che riempe le strade delle grandi città.

Fotografia di Kevin McCollister (6)
Betty and Darla © Kevin McCollister
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Il libro East of West LA è il frutto di lunghe peregrinazioni di Kevin McCollister, nella città in cui vive da vent’anni. L’atto di camminare, lo spostarsi a piedi, la lentezza del movimento e l’errare senza meta di un viaggio alla ricerca di se stessi è centrale nel libro.

Di solito non ho un programma, cammino seguendo le luci dei semafori, la prima che trovo verde.

L’esplorazione, la fascinazione per il paesaggio urbani, per i misteri della città, sono evidenti. Nella fotografia contemporanea iper-concettualizzata e cerebrale, è un piacere sfogliare un libro dove non si debba per forza fare i conti con un impianto concettuale che di fatto costituisce l’unico valore delle fotografie, indipendentemente dal contenuto formale. East of West LA è semplicemente il ritratto di una città, dove l’aspetto emotivo, la curiosità e la sensibilità di Kevin McCollister sono la linea guida che unifica luoghi, persone e situazioni eterogenee.

Fotografia di Kevin McCollister (5)
LA river © Kevin McCollister
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A mio avviso, al di là del fatto che East of West LA fornisce un’immagine di Los Angeles lontana dai cliché e dall’immaginario collettivo, il vero valore del libro si trova appunto nella visione personale di Kevin McCollister, nel suo modo di interpretare la realtà, di selezionare nella caotica varietà offerta dal paesaggio urbano lo spunto, le storie che decide di raccontare. East of West LA è un libro che si pone all’interfaccia fra la fotografia documentaria e la fotografia artistica, è quindi naturale porre l’accento sulla visione personale del fotografo, sul come il suo approccio modifichi la mappa e la percezione di una città.

All’inizio del libro si trova un breve saggio introduttivo, con alcuni estratti delle poesie di Kevin McCollister. Dove il vagare, il muoversi a piedi costituisce il filo conduttore, il film visivo che si spiega ai suoi occhi durante gli spostamenti da un punto all’altro della città.

Fotografia di Kevin McCollister (4)
Echo Park Boathouse © Kevin McCollister
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Posso sentire la sporcizia
nell’aria e sto
camminando verso nord,
ci sono quasi,
camminando, camminando verso nord.

Personalmente mi sarebbe piaciuto poter leggere più poesie, che le parole e i testi avessero lo stesso peso delle immagini, alternando fotografia e poesia. Ma Kevin McCollister spiega che la fotografia è la naturale evoluzione della sua pratica poetica, che le sue poesie ormai sono le fotografie stesse, versi in immagini.

Fotografia di Kevin McCollister (3)
Jerome © Kevin McCollister
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Per quanto riguarda infine l’aspetto tecnico, East of West LA di Kevin McCollister è un libro di 60 pagine di formato 15x20cm. Molte fotografie hanno una dimensione contenuta, caratteristica che mi piace particolarmente, essendo sempre più attratto dai piccoli formati. Le immagini piccole infatti aumentano la sensazione di intimità e raccoglimento che si sposa benissimo con gli scatti notturni e le atmosfere silenziose che impregnano i paesaggi urbani del libro.

La stampa è ottima, su una splendida carta matte vellutata che restituisce ottimi neri profondi e densi. Sono sempre sorpreso nel vedere quanti libri, anche di fotografi molto noti, siano stampati superficialmente, mostrando in maniera evidente la trama a mezzo tono della stampa, allora che oggi è possibile stampare in ottima qualità ad un prezzo contenuto. Del resto East of West LA di Kevin McCollister costa solo 20$.

Fotografia di Kevin McCollister (2)
Fourth St Arch © Kevin McCollister
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Per concludere, East of West LA di Kevin McCollister è un delizioso libretto di ottima qualità che offre un ritratto alternativo, intimo e personale di Los Angeles, lontano dal bagliore e dal lusso dei cliché, ma perso nei sogni, nella fantasia e nella sottile poesia che nasce camminando da solo nella notte in una città sconosciuta.

 

Grazie a Kevin McCollister per avermi generosamente inviato il suo libro per scrivere questa recensione. Se hai realizzato un libro fotografico e vuoi un articolo come questo, puoi spedirmelo e ne pubblicherò una recensione sulle pagine di CO-mag.

Fotografia di Kevin McCollister (1)
Dedica del libro East of West LA © Kevin McCollister
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/it/2012/east-west-la-kevin-mccollister/feed/ 2
CO-mag è su Facebook e Google Plus /it/2012/co-mag-facebook-google/ /it/2012/co-mag-facebook-google/#respond Tue, 03 Jul 2012 15:24:50 +0000 /?p=7651 Related posts:
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Icona di Google+ e Facebook
CO-mag finalmente ha una pagina Facebook e una Google+ page!
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La presenza di CO-mag sui social network fa un passo avanti (anzi due): finalmente abbiamo una pagina Google Plus e Facebook.

Per quanto riguarda i contenuti, credo che scriverò dei brevi aggiornamenti sulla fotografia sia su FB che G+, ogniqualvolta sarebbero troppo lunghi per Twitter. Pubblicherò anche tutti i nuovi articoli del sito su FB, ma non su G+ perché questa funzionalità non è ancora supportata. In questo modo le pagine Twitter, Facebook e Google Plus di CO-mag avranno tutte un contenuto diverso.

Detto questo, sono sempre attento ad ogni consiglio dalla parte dei lettori. preferite gli aggiornamenti di FB su Twitter o al contrario ripubblicare tutti i tweet su FB? O ancora dei contenuti completamente diversi su ognuno dei social network?

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Nuovo layout di Camera Obscura! /it/2012/nuovo-layout-di-camera-obscura/ /it/2012/nuovo-layout-di-camera-obscura/#comments Sun, 01 Jul 2012 18:30:32 +0000 /?p=7627 Related posts:
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CO-mag original layout
Original layout of CO-mag
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Il nuovo layout di CO-mag è finalmente online, per favore visitate CO-mag per scoprire tutte le novità!

Quando ho creato CO-mag scelsi un layout grigio disponibile nella sezione dei temi di wordpress. Un anno dopo riscrissi interamente il codice, creando un’impaginazione minimalista e veloce. Nonostante questo le differenze visive rispetto al layout precedente erano minime. L’impaginazione attuale invece è una vera e propria rivoluzione per CO-mag. Ecco un’introduzione a tutte le nuove funzionalità:

Migliore esperienza visiva. Il sito è più elegante e professionale. Ogni articolo è associato ad un’icona cliccabile che appare sull’homepage, nella barra laterale, nella pagine di ricerca e in tutti gli archivi. Lo sfondo bianco e il carattere più grande facilitano la lettura degli articoli più lunghi.

Migliore navigazione. Ogni post è classificato per categoria, parole chiave, data, fotografo descritto nell’articolo e autore dello stesso. È possibile esplorare il sito seguendo ognuna di queste tassonomie1. I link si trovano all’inizio e ala fine di ogni articolo. All’inizio e alla fine di ogni pagina si trovano anche i link per l’articolo precedente/successivo e le varie pagine degli archivi.

Facile accesso ai contenuti interessanti. Se si apprezza un articolo, molto probabilmente si troveranno interessanti anche i post correlati che si trovano alla fine di ogni articolo. Nella barra laterale di ogni pagina si trovano invece 3 pratiche liste con i post più popolari (numero di visite), più commentati e più recenti.

Condividi e socializza. Vuoi condividere un articolo? I bottoni per i network sociali sono all’inizio e alla fine di ogni post. Stessa cosa per un meccanismo più performante per abbonarsi ai feed.

Migliori discussioni. Hai scritto un commento e vuoi sapere cosa diranno gli altri visitatori? Puoi ricevere tutti i futuri commenti nella tua posta oppure iscriverti al feed con i commenti di un unico post. Inoltre CO-mag supporta i commenti nidificati, in modo che sia ancora più facile seguire le conversazioni del sito.

Oltre a tutto questo, decine di piccole migliorie, traduzione completa del tema, correzioni di errori e via dicendo. Son sicuro che vi piaccia!

Dunque, cosa ne pensate? Il ritorno dei lettori è più che benvenuto, la vostra opinione è sempre particolarmente importante. Qualche funzionalità aggiuntiva che vorreste vedere su CO-mag? Fatemelo sapere e farò del mio meglio per migliorare ancor più il nuovo layout di CO-mag.

  1. Anche se c’è ancora bisogno di qualche correzione, soprattutto a causa di alcuni problemi legati al plugin wpml. Con un po’ di fortuna tutti gli errori verranno presto risolti.
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/it/2012/nuovo-layout-di-camera-obscura/feed/ 4
Camera Oscura è su Twitter, seguici! /it/2012/camera-oscura-twitter-seguici/ /it/2012/camera-oscura-twitter-seguici/#respond Mon, 11 Jun 2012 13:26:13 +0000 /?p=7609 Related posts:
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Icona di Twitter
Segui Camera Obscura su Twitter @co_mag
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Camera Obscura è finalmente su Twitter! Il nuovo layout del sito (prossimamente online) avrà diverse comode icone per condividere contenuti sui social network e per iscriversi ai feed, quindi è inutile che mi metta a modificare il layout attuale. Detto ciò, naturalmente potete già seguire CO-mag su Twitter!1

Il canale Twitter di CO-mag è molto di più di un semplice flusso RSS. Per cominciare, posterò frequentemente link ai portfolio di ottimi fotografi e argomenti rilevanti nel mondo della fotografia. Ciò che rende CO-mag un po’ speciale è che vengono pubblicati soprattutto articoli lunghi e approfonditi. A volte però vorrei condividere un link con una breve descrizione, ma non lo faccio per rispettare la linea editoriale di CO-mag. Ebbene, Twitter è veramente perfetto per questo tipo di brevissimi post e sarà un ottimo strumento complementare.

Per di più, ciò che mi piace di Twitter è che rende possibile l’interazione diretta con gli amministratori di un sito e permette di umanizzare la percezione di ciò che sta dietro ad una pagina web. Allora twitterò qualche dietro le quinte sullo sviluppo di CO-mag e altre attività ad legate alla rivista. Naturalmente potrete interagire e socializzare!

Inoltre mi son sempre chiesto come poter rendere gli archivi più accessibili. I visitatori di CO-mag tendono a leggere soprattutto gli ultimi articoli con i feed reader e quelli più popolari attraverso i motori di ricerca, senza esplorare più di tanto l’archivio. Sebbene questa sia una tendenza comune un po’ a tutti i blog, è veramente un peccato, perché ci sono tantissimi splendidi articoli nell’archivio che aspettano solo di esser letti. Quindi, seguendo CO-mag su Twitter, riceverete regolarmente dei retweet (il tweet inizia con nostalgia) pescati aleatoriamente fra tutti gli articoli più vecchi di un anno.

Infine, non perderete mai i nuovi articoli (il tweet inizia con new post) e aggiornamenti (il tweet inizia con post edited).

Quindi non esitate, seguite follow CO-mag on Twitter!

  1. Per convenienza il canale Twitter di CO-mag sarà scritto quasi esclusivamente in inglese
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/it/2012/camera-oscura-twitter-seguici/feed/ 0
CO magazine ha 5 anni! /it/2012/camera-obscura-cinque-anni/ /it/2012/camera-obscura-cinque-anni/#respond Wed, 06 Jun 2012 16:21:40 +0000 /?p=7599 Related posts:
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I saw the figure 5 in Gold
Charles Demuth - I saw the figure 5 in Gold, 1928
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Camera Obscura oggi compie cinque anni!

Inizialmente l’idea era lanciare il nuovo layout e dominio oggi stesso, in modo che fosse la più grande novità di questo quinto anni di vita di Camera Obscura. Purtroppo deve fare ancora un po’ di programmazione e verifica che tutto funzioni al meglio, seguita dalla traduzione dell’intero tema in cinque lingue. Di fatto, pubblicare Camera Obscura in più lingue, rende il tutto più difficile. Il tema di WordPress è molto più complesso, non tutti i plugin funzionano correttamente e tradurre tutto porta via tantissimo tempo. In ogni caso, spero che il nuovo layout sarà presto online!

Globalmente Camera Obscura sta andando molto bene, il numero di visite e lettori isritti al feed è in costante aumento. grazie mille a tutti i visitatori per il vostro continuo interesse verso la fotografia e l’arte!

Volete sapere qual’è l’articolo in italiano che è stato letto più volte durante gli ultimi dodici mesi? Ecco qui: i dolorosi autoritratti di David Nebreda.

Per quanto riguarda il futuro, a parte l’iminente nuovo layout, mi piacerebbe aumentare il numero dei contributi esterni nonché degli editori regolari (contattami se vuoi diventare un editor ufficiale di CO) e occuparmi dei social network, condividendo Camera Obscura almeno su twitter, facebook e Google+. E voi, cosa vorreste vedere su Camera Obscura durante il prossimo anno? Scrivete un commento e se possibile cercherò di realizzare i vostri desideri.

Quindi restate tutti connessi per un nuovo anno all’insegna della grande fotografia contemporanea!

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Recensione di “Edward Burtynsky”, collana Quaderni CMC /it/2012/edward-burtynsky-quaderni-cmc/ /it/2012/edward-burtynsky-quaderni-cmc/#respond Thu, 12 Apr 2012 19:59:02 +0000 /?p=4954 Related posts:
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Edward Burtynsky quaderni cmc
Copertina del libro "Edward Burtynsky" della collana Quaderni CMC
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Qualche mese fa un amico mi aveva invitato a Barcellona per visitare la mostra di Edward Burtynsky, uno dei suoi fotografi preferiti. Invito che purtroppo dovetti rifiutare. Ieri sera però mi ha almeno fatto vedere il catalogo della mostra.

– Sai, gli ho scritto una mail lamentandomi che non c’erano più copie del catalogo.

– E loro?

– Si sono scusati. Al che io ho insistito, dicendo che era veramente un peccato. Allora me l’hanno spedito.

– Gratis?

– Si, gratis!

Innanzitutto quindi complimenti a Teclasala, facessero tutti così il mondo della fotografia sarebbe decisamente più bello.

Edward Burtynsky (1)
© Edward Burtynsky
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Tiro fuori il catalogo dalla busta e noto che non è scritto né in spagnolo, né in catalano.

– Guarda che non è un semplice catalogo, ma un libro edito dal Centro Culturale di Milano.

Un po’ sorpresi dal fatto che un libro italiano sia finito in una mostra a Barcellona, per poi esser girato al mio amico, ci mettiamo a sfogliare il quaderno, e mi dico che è una buona occasione per scriverne una breve recensione. In passato ne ho già fatte per Camera Obscura, ma solo quando i fotografi stessi mi hanno gentilmente regalato il loro libro in cambio appunto di una recensione: per esempio The Chronicles of Time di Giacomo Costa o Camera Architectura, di Gabor Ösz. Da un bel po’ di tempo invece ho in testa di scrivere una recensione di tutti i miei libri di fotografia, che ho piano piano accumulato nel corso del tempo. Il Quaderno CMC Edward Burtynsky mi sembra quindi la buona occasione per cominciare.

Edward Burtynsky (2)
© Edward Burtynsky
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Innanzitutto le caratteristiche tecniche: il libro è abbastanza piccolo, formato 19,5×22,5cm, 102 pagine e costa 28€. L’impaginazione è sobria e piacevole e la stampa corretta.

Per quanto riguarda le immagini niente da ridire, le fotografie di Edward Burtynsky sono splendide come sempre. In ogni caso nessuna sorpresa, né in male né in bene, si tratta di una specie di piccola retrospettiva di buona parte dei lavori di Edward Burtynsky: mine, cave, fiumi di nikel, deforestazione lungo i binari della ferrovia, demolizioni navi e via dicendo; con in più un estratto del suo lavoro recente sulla fuga di petrolio nel Golfo del Messico. Personalmente non sono un amante delle antologie, preferisco un libro per argomento, ma il Quaderno CMC Edward Burtynsky è comunque un discreto riassunto dell’opera di questo grande fotografo.

Edward Burtynsky (4)
© Edward Burtynsky
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Il libro è inoltre accompagnato da un saggio di Giuseppe Frangi e un’intervista a cura di Enrica Viganò.

Personalmente il saggio non mi entusiasma poi tanto. Sebbene sia ben scritto e molto piacevole da leggere, secondo il mio personale modo di vedere la citazione di Dante e gli aneddoti su Michelangelo nella cave di Massa Carrara poco o nulla hanno a che vedere con Edward Burtynsky. Certo sono riferimenti dotti e fatti affascinanti, ma l’unico legame con il fotografo è il luogo stesso di Massa Carrara, peraltro visitato episodicamente nella totalità del suo lavoro. Allora perché non infilarci dentro anche Botero e tutti gli altri artisti che hanno usato i famosi marmi? In ogni caso, pur lasciando tranquillo Michelangelo, nel complesso -ben inteso sempre a mio vedere- tutto il saggio mi sembra più un esercizio di stile e una raffinata dimostrazione di cultura enciclopedica, più che una vera analisi e descrizione dell’opera di Edward Burtynsky.

Edward Burtynsky (5)
© Edward Burtynsky
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Ben diversa invece l’impressione derivata dall’intervista che accompagna il Quaderno CMC Edward Burtynsky, la maggior parte delle domande sono pertinenti e le risposte del fotografo articolate e sagge. Al di la della posizione molto equilibrata sulla questione ambientale, mi è particolarmente piaciuta l’onesta intellettuale nel descrivere certi aspetti agli inizi della sua carriera:

Neanche mia madre ci credeva: quando all’inizio degli anni ’80 mi sono girato il Nord America a fotografare le miniere mi diceva:”chi potrebbe mai voler comperare queste fotografie per appenderle in casa?”. E in effetti io non sapevo se prima o poi la gente avrebbe comprato le mie opere per appenderle sulle pareti e soprattutto non sapevo se avrebbero mai chiamato il mio lavoro “arte”.

Edward Burtynsky

Mi pare evidente che la creazione artistica sia, innanzitutto, una questione di passione. Immagino il giovane Edward Burtynsky girare per le miniere con la sua macchina tipicamente americana tutta polverosa e piena zeppa di materiale fotografico. Sono pronto a scommettere che lo faceva non tanto perché doveva scattare una nuova serie per la sua galleria a Londra, o perché doveva assolutamente trovare un’idea per creare una nuova ed originale opera d’arte, ma soprattutto perché gli piaceva. Sarà poi la posterità, o perlomeno il lavoro che si è accumulato nell’arco di una vita, a decidere che si tratti di arte o meno.

Una parte dell’intervista invece mi fa un po’ sorridere: quando si disquisisce sull’infinita ricchezza di dettagli delle fotografie fatte col banco ottico. Peccato che le stampe viste a Paris Photo un paio di anni fa fossero abbastanza deludenti da questo punto di vista, tirate troppo grandi per avere appunto la ricchezza dettaglio che meriterebbero.

Edward Burtynsky (3)
© Edward Burtynsky
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/it/2012/edward-burtynsky-quaderni-cmc/feed/ 0
I sensi di colpa del voyeur, ovvero “antichambre avec vues” di Elene Usdin /it/2012/antichambre-avec-vues-elene-usdin/ /it/2012/antichambre-avec-vues-elene-usdin/#respond Wed, 04 Apr 2012 13:03:36 +0000 /?p=4540 Related posts:
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Fotografia di Elene Usdin (11)
© Elene Usdin
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Giusto di fronte a keyhole di Erwin Olaf, un’altra galleria di Art Paris espone un’installazione che supera la tipica bidimensionalità fotografica: antichambre avec vues d’Elene Usdin.

In fondo allo spazio dedicato alla galleria Esther Woerdehoff infatti, è stata costruita un’intera stanza all’interno della quale sono disposti vari oggetti e fotografie. Elene Usdin, prima di diventare fotografa e illustratrice, ha studiato arte decorativa, formazione che si riflette nel suo lavoro successivo. Elene Usdin costruisce quindi buona parte dei decori, degli abiti e degli accessori che utilizza nelle sue fotografie. In questo caso sono esposti insieme alle stampe proprio alcuni degli oggetti utilizzati nelle fotografie, il tutto realizzato con estrema cura.

Fotografia di Elene Usdin (8)
© Elene Usdin
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La sensazione è che di fatto per Elene Usdin l’opera artistica non si limiti alla fotografia in sé, gli oggetti e la loro realizzazione non sono dei semplici strumenti necessari unicamente al prodotto finale, al contrario tutto il processo creativo, nelle sue varie fasi e sfaccettature, costituisce nel complesso l’opera artistica. Ecco quindi che nella antichambre avec vues di Elene Usdin fotografie, abiti, decori, muri e tutta la stanza stessa, si trovano globalmente sullo stesso piano, in maniera indissociabile, costituendo appunto l’installazione artistica, intesa come opera nella sua totalità.

Fotografia di Elene Usdin (9)
© Elene Usdin
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Si entra camminando su un lungo e soffice tappeto rosso, posato nel mezzo della morbida moquette blu a motivi floreali. La stanza stessa è tutta giocata nelle tonalità del blu e dell’azzurro: i pannelli con trompe-l’œil, le mura dipinte a tinta unita e la carta da parati che fa pendant con gli arabeschi della moquette.

Vari oggetti riempono la stanza: delle sedie e poltrone sulle quali sono posati degli abiti da altra epoca, ma con un tocco di fantasia moderna, valigie sovrapposte, lampade, pantofole e calzettoni, scrigni e cofanetti. La cura dei dettagli è stupefacente. Lungo le due pareti laterali sono invece esposte le fotografie di Elene Usdin.

Fotografia di Elene Usdin (10)
© Elene Usdin
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Vari personaggi femminili -tutti autoritratti messi in scena- in posa in una camera d’hotel. antichambre avec vues nasce infatti come il seguito naturale della collaborazione iniziata con photo d’hôtel, photo d’auteur, un interessante progetto lanciato da HPRG: giovani fotografi emergenti vengono invitati a passare una notte in una stanza d’hotel, alla fine della quale dovranno scegliere un’unica fotografia e un testo ispirati dalla loro esperienza. Elene Usdin, cui è stata data carta bianca per la creazione della sua installazione, ha associato un personaggio famoso ad ogni stanza d’hotel in cui si è trovata: Giuseppina di Beauharnais all’Hôtel des Grands Hommes, George Sand a l’Hôtel Panthéon, Simone de Beauvoir a l’Hôtel Design Sorbonne, Isadora Duncan à l’Hôtel Jardin de l’Odéon e infine Juliette Récamier a La Belle Juliette. La serie di fotografie è quindi costituita dagli autoritratti di Elene Usdin, che immagina come queste cinque donne famose si sarebbero comportate nell’intimità della camera d’hotel che è stata loro attribuita.

Fotografia di Elene Usdin (5)
© Elene Usdin
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I personaggi delle foto di Elen Usdin, sono ripresi per lo più sul letto della loro camera, o su di una poltrona, a volte in situazioni incongrue e vagamente ironiche, come l’imperatrice Giuseppina, la poltrona su cui è quasi sdraiata, posata sopra al letto dalle lenzuola immacolate. Quasi tutte stanno dormendo, o perlomeno si trovano in posizione allungata, anche se spesso fanno vagare le gambe in posizioni curiose, quasi si annoiassero e manifestassero il proprio languore giocando col proprio corpo.

Fotografia di Elene Usdin (4)
© Elene Usdin
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Quello della gambe in movimento è anche il tema del video in stop motion intitolato les Impatiences, che è il nome popolare usato in francese per la sindrome di Ekbom. Nella parete centrale della camera ricostruita in antichambre avec vues infatti non ci sono fotografie, il tappeto rosso conduce dritto ad una porta, nella quale sono praticati due fori, un po’ come nei film erotici a sfondo voyeuristico. Dietro a questi viene proiettato appunto il video les Impatiences di Elene Usdin.

[youtube 72RqZ1PiMuc nolink]

Nei muri ai lati della porta sono praticate due fessure, bordate da una sottile cornice rossa. Dietro a queste sono esposte due fotografie di nudo, sempre tratte dalla serie di autoritratti di Elen Usdin ambientati nelle camere d’hotel. La posa è decisamente classica, ricordano le cartoline erotiche della belle époque, allora considerate come immagini puramente pornografiche mentre oggi farebbero quasi sorridere. Eppure, mentre guardo attraverso la fessura nel muro, mi sento proprio come un voyeur da film di una volta, con un misto di eccitazione vagamente morbosa e sensi di colpa, come se il cinema, internet, le pubblicità e soprattutto le mostre di fotografia non contenessero fotografie infinitamente più osé di questa. Faccio vagare lo sguardo sulle gambe nude, il deretano in bella mostra, la fessura del sesso e mi sembra proprio di fare qualcosa di estremamente trasgressivo, mi sento esattamente come immagino si sentissero i nostri nonni e bisnonni di fronte a fotografie come questa.

Fotografia di Elene Usdin (7)
© Elene Usdin
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Inizio a pensare che il fatto di guardare attraverso un foro sia qualcosa che risuona con prepotenza con il mio modo di sentire, oltre al recente keyhole di Erwin Olaf, mi viene subito in mente l’esperienza con le autochrome alla mep. Come se in tutti questi casi potessi guardare attraverso un’apertura su un altro mondo, in senso quasi psichedelico. Idea di cui non sono il solo a subire il fascino, tanto per citare l’esempio più famoso, non a caso i Pink Floyd in the wall chiedevano ripetutamente “C’è qualcuno là fuori?”. Come se di fatto i fori sfruttati come stratagemma espositivo, potessero veramente proiettarci in una realtà diversa, in un mondo altro, al di fuori della sfera esistenziale corrente.

Fotografia di Elene Usdin (1)
© Elene Usdin
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Il semplice espediente della fessura, il modificare quello che è il modo di guardare, trasforma in maniera prepotente tutta la percezione fotografica. Un’immagine che forse non mi avrebbe colpito in modo particolare, si trasforma invece in un’esperienza molto più vasta e complessa. È in atto una vera e propria trasfigurazione della fotografia. Il fatto di inserire un’immagine fotografia in un’opera tridimensionale, in un’installazione artistica, ne riscrive completamente le modalità di fruizione, rendendo l’esperienza visiva molto più completa e potente, immergendoci non solo fisicamente e soprattutto emotivamente nel cuore di un’opera artistica.

Fotografia di Elene Usdin (6)
© Elene Usdin
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Le analogie con quello che l’esperienza vissuta con keyhole di Erwin Olaf è evidente. In entrambi i casi si tratta di guardare attraverso un’apertura, che sia il buco della serratura o il foro di un voyeur poco importa. Le due opere sono praticamente gli unici esempi di esposizione fotografica presente ad Art Paris che va al di là della classica esposizione bidimensionale. In entrambi i casi la riscrittura della modalità visiva si è tradotta in una forte risposta emotiva da parte mia, in cui il senso di colpa è uno degli elementi principali. Cosa sicuramente voluta, visto che le due installazioni giocano sui temi estremamente vicini di vergogna e voyeurismo.

Fotografia di Elene Usdin (3)
© Elene Usdin
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La cosa divertente è che nel grande padiglione di Art Paris, la galleria Rabouan Moussion che espone keyhole di Erwin Olaf e la galleria Esther Woerdehoff che espone antichambre avec vues sono praticamente una di fronte all’altra. Mi viene subito in mente un caso analogo, quando a Paris Photo sex di Atta Kim e coït di Frédéric Delangle erano esposti praticamente dirimpetto. Eppure in questo caso, oltre alle considerazioni sempre valide citate ne l’ironia del nuovo, vale la pena sottolineare che -al di là delle analogie- sebbene le due installazioni esplorino temi vicini, il risultato, il messaggio, la realizzazione visiva, sono completamente diverse. Nessunissima impressione quindi di ridondanza, le due installazioni sono perfettamente complementari. In ogni caso, uno dei maggiori interessi dell’arte contemporanea, è appunto vedere dove approdano due artisti diversi intenti a lavorare sullo stesso tema.

 

Per ulteriori informazion su antichambre avec vues, oltre al sito di Elene Usdin, si visiti l’annuncio della mostra sul blog HPRG.

Fotografia di Elene Usdin (2)
© Elene Usdin
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Spiare con vergogna attraverso il buco della serratura, ovvero Keyhole di Erwin Olaf /it/2012/keyhole-erwin-olaf-art-paris/ /it/2012/keyhole-erwin-olaf-art-paris/#comments Sat, 31 Mar 2012 13:06:28 +0000 /?p=4537 Related posts:
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Erwin Olaf Keyhole (1)

Sole e cielo blu senza una nuvola, da diversi giorni ormai. Fa caldo, non troppo, ma nel primo pomeriggio abbastanza da stare in giro in maglietta. Mi ricordo dalle miei visite negli anni precedenti a Art Paris, che sotto la volta di vetro del Grand Palais si ha un po’ la sensazione di boccheggiare, soprattutto se c’è gente, la luce intensa fa quasi male agli occhi, e dopo qualche ora si è presi quasi da un certo affanno. Oggi mi son quindi preparato in anticipo per fare la mia abbuffata pomeridiana di arte contemporanea: pantaloni corti, camicia leggera e due litri d’acqua.

Faccio un primo giro, come al solito facendo prima tutto il perimetro e per ultime le maglie centrali. Sarà perché il mio centro di interesse è la fotografia, ma dipinti e sculture mi lasciano quasi tutti abbastanza freddo, salvo pochissime eccezioni non c’è praticamente niente che mi metterei in casa, che mi piace davvero. La fotografia invece a mio vedere ne esce molto meglio. Certo ci son tanti lavori che ho già visto ripetutamente e quindi non mi entusiasmano più come la prima volta, qualche opera che purtroppo proprio non incontra il mio gusto e qualche cosetta invece che non mi fa né caldo né freddo, ma nel complesso l’impressione è abbastanza positiva. In ogni caso mi sembra che la qualità delle fotografie esposte sia mediamente superiore a quella degli altri media. Oppure detto più precisamente, mi sembra che le fotografie siano più immediatamente godibili e fruibili rispetto al resto, chiuso nella sua cripticità concettuale. Come se la fotografia, pur artistica allo stato puro come può essere quella esposta ad Art Paris, paragonata alle altre arti figurative, soffrisse meno della maledizione dei ready made e di Duchamp. In ogni caso moltissime gallerie espongono fotografie, molte di più di quanto ricordassi dagli anni passati, il che mi sembra già una bella notizia, e soprattutto un fatto degno di nota. Nonostante i fotografi si lamentino per come va il mercato, sembra invece che gallerie e pubblico si interessino sempre di più alla fotografia.

Arrivato quasi alla fine del mio giro, inizio già a fare un piccolo riassunto mentale, chiedendomi cosa avesse effettivamente ritenuto la mia attenzione, in un certo senso se volesse la pena scrivere un articolo per Camera Obscura, visto che per il momento non ho molto da dire al di la dell’abbondanza di fotografie che contraddistingue Paris Photo 2012.

Ed ecco che lo vedo.

Un grande mobile in legno, a prima vista dall’aspetto vagamente art deco, con incastonate dentro delle foto di Erwin Olaf. Ogni volta che visito Paris Photo (vedi gli articoli scritti nel 2008 e 2010) e Art Paris, Erwin Olaf è immancabilmente fra i miei fotografi preferiti, quindi mi avvicino per non perdere l’occasione di ammirare nuovamente il suo lavoro. La struttura in legno è lunga 3-4 metri e alta un paio, lo stile ricorda i decori delle ultime serie di fotografie di Erwin Olaf, dal gusto retro, un po’ anni trenta. Pannelli in legno intagliato e carta da parati con arabeschi grigio chiari, come se le pareti della struttura fossero i muri dello sfondo di una delle sue foto. Su ogni lato di queste, all’interno di una piccola alcova, sono presenti cinque splendide foto, quasi tutte -se non fosse per un nudo maschile- ritratti di personaggi presi di spalle, che nascondono il volto allo sguardo. Uomini, donne e molti bambini, tutti voltati, come se si vergognassero, come se cercassero di sfuggire allo spettatore, chiusi nell’immobilità vagamente malinconica tipica degli ultimi lavori di Erwin Olaf. Come al solito, le fotografie sono favolose. Composizione, decoro, posa e luce magnifica, alla quale si aggiunge una tecnica indiscutibilmente perfetta e un’ottima stampa. Non posso fare a meno di pensare che secondo me i grandi artisti, oltre alle ottime idee, sono persone che portano alla massima espressione e quasi al perfezionismo puro gli oggetti che costituiscono le loro stesse opere. In ogni caso Erwin Olaf appartiene a questa categoria.

Nei due lati corti della struttura invece sono presenti unicamente due porte chiuse, davanti alle quali è stata posta una sedia con un paio di cuffie appoggiate sopra. Chiaramente un invito a sedersi e guardare attraverso il buco della serratura. Dall’altra parte un video. Un bambino, in piedi accanto alla madre, una donna di mezza età che legge un libro seduta sul letto. Le stesse persone delle foto, la stessa atmosfera, ma questa volta non sono immobili nella fissità della fotografia, si muovono, parlano, cambiano posizione. L’occhio, attraverso il buco stretto della serratura, non riesce ad abbracciare la totalità della scena, è costretto a spostarsi da un punto all’altro, esplorare lentamente la stanza, le persone, i decori. Grazie a questo movimento incessante, a causa dei limiti intrinseci d’osservazione, si scoprono con infinita intensità i dettagli, i particolari che sarebbero rimasti inosservati di fronte alla semplice superficie piatta di una fotografia. L’occhio si sofferma quindi sui decori e gli intagli del legno, la materia tridimensionale della tenda del mobile, il brillare improvviso dell’anello quando la mano della madre entra in un raggio di luce, la sua lunghissima treccia, che tocca quasi terra, le pantofole rosse posate ai suoi piedi, la scultura bianca su l comodino, stretta e lunga quasi come l’ombra della sera.

È chiaro perché keyhole, questo il titolo dell’installazione di Erwin Olaf, sia un’opera sulla vergogna. Al di là del fatto che le persone nelle foto siano quasi tutte di spalle, come se appunto si vergognassero di farsi vedere, spiare attraverso il buco di una serratura è un riferimento inequivocabile, un simbolo chiarissimo di un’attività che può portare con se un misto di voyerismo, curiosità e sensi di colpa. Perché appunto sembra quasi di violare l’intimità delle persone che si trovano al di là della porta, spiarle mentre si trovano in camera da letto, in vestaglia, nella fragilità del quotidiano.

Mi sposto sul lato opposto dell’installazione, per guardare l’altro video. Stessa atmosfera, ma un’altra stanza, questa volta un uomo che tiene il bambino in braccio, leggendo un libro, in uno studio. Mentre legge gli carezza la schiena, lentamente. Nelle cuffie, oltre a rumori soffusi, il respiro forte dell’uomo, quasi a tradire una forte eccitazione sessuale. Questa volta il malessere, questo senso di colpa di spiare ciò che è proibito, si fa molto più intenso, disturbante. Si teme di assistere ad atto di pedofilia, si intuisce tutta l’ambiguità della situazione, senza sapere se di fatto corrisponde al vero, o invece la morbosità è nella propria testa, ci si sta immaginando tutto.

Nel complesso, l’istallazione è veramente geniale. Al di là della bellezza delle fotografie e della perfezione formale della realizzazione, l’esperienza suscitata da keyhole è decisamente intensa. Non si è più semplici fruitori delle immagini, ma il fatto stesso di chinarsi e guardare attraverso un buco della serratura, precipita lo spettatore all’interno della scena, lo trasforma in attore stesso, lo priva del distacco emotivo cui è abituato, immergendolo in una situazione incerta e vagamente repulsiva.

Trovo sempre sorprendente che la quasi totalità delle fotografie siano presentate unicamente come supporto bidimensionale. Certo i fotografi a volte si lasciano andare sulla scelta delle cornici. Spesso le mostre giocano sui formati, o le disposizioni sapienti nello spazio, raggruppare immagini diverse, tanto per i formati che per i contenuti. Ma tutto ciò si limita in generale ad una semplice organizzazione di supporti bidimensionali quali sono le fotografie, senza andare al di là. Erwin Olaf invece, con la sua installazione keyhole, frantuma la bidimensionalità della fotografia, entrando con prepotenza nella realtà che ci avvolge e ci circonda.

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Aiuta a scegliere un nuovo dominio e vinci una stampa firmata e numerata! /it/2012/nome-dominio-vinci-stampa/ /it/2012/nome-dominio-vinci-stampa/#comments Thu, 29 Mar 2012 21:11:35 +0000 /2012/domain-name-win-print-2/ Related posts:
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Nuovo dominio per Camera Obscura
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Da qualche settimana sto lavorando duramente sul nuovo layout di Camera Obscura e vorrei inaugurarlo assieme ad un nuovo dominio. Mi aiutate a scegliere il migliore?

Purtroppo www.cameraobscura.com o www.camera-obscura.com e gli equivalenti tipo .net sono già presi. Stavo pensando a qualcosa come www.camera-obscura-magazine.com o www.cameraobscuramagazine.com o anche www.co-magazine.com o addirittura un nome completamente nuovo?

La mia domanda è dunque: quale sarebbe il tuo dominio preferito per Camera Obscura? Potete aggiungere un commento con il vostro punto di vista e i vostri consigli?

Quando alla fine comprerò il nuovo dominio, userò random.org per estrarre un vincitore da tutti i commenti a questo post (e le sue traduzioni). In premio una mia stampa firmata e numerata. Non aspettare più, suggerisci il tuo dominio da sogno per Camera Obscura!

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Il nuovo tunnel degli orrori /it/2012/il-nuovo-tunnel-degli-orrori/ /it/2012/il-nuovo-tunnel-degli-orrori/#respond Wed, 21 Mar 2012 21:37:53 +0000 /?p=4523 Related posts:
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L'urlo di Edvard Munch
L'urlo di Edvard Munch
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Negli ultimi mesi i post su CO si sono purtroppo rarefatti, complici un agenda lavorativa particolarmente fornita e vari progetti fotografici che sono passati in primo piano rispetto al blog. Non che le idee mancassero, anzi. Una cosa che ho in testa da almeno un annetto, è riprendere la serie di articoli sugli orrori.

Erano gli albori di Camera Obscura, quando ancora si trattava semplicemente di un diario di sperimenti con tecniche antiche di stampa. Di tanto in tanto postavo un articolo su qualcosa che era andato storto in una certa tecnica, perché alla fine è istruttivo imparare dai propri errori. Poi piano piano sono passato al digitale al cento per cento e questa personale galleria degli orrori è sparita dalle pagine di Camera Obscura. Ma ho sempre pensato di riprenderla, e anzi ampliarla. Non solo nel digitale si possono incappare in tanti orrori quasi quanto con le tecniche antiche, ma la mia esperienza nel mondo della fotografia e del ritocco digitale è farcita di aneddoti venuti dritti dritti dal mondo degli orrori. Orrori per certi versi più interessanti, perché il più delle volte vanno al di là della tecnica, e poi perché si tratta di esperienze di vita vissuta.

A dir la verità ho un po’ esitato se lanciarmi o meno in questa nuova avventura. Principalmente perché non si tratta di orrori miei, ma di situazioni viste attraverso i miei occhi. Non è mai bello parlar male della gente, però non è nemmeno giusto nascondersi dietro i sorrisetti ipocriti. E poi penso che di tanto in quanto una critica un po’ cattiva piacerà ai lettori di Camera Obscura. In ogni caso, se qualcuno si riconoscerà nelle situazioni che verranno descritte in seguito, non se ne abbia a male, la vita di tutti è costellata di errori e orrori, ne racconterò qualcuno su questo sito, ma senza disprezzo, sperando che ne possiamo ridere tutti, anche i diretti interessati.

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La poesia te la porti in tasca dentro una scatoletta di metallo, ovvero Gregor Beltzig al Festival Circulation /it/2012/gregor-beltzig-festival-circulation/ /it/2012/gregor-beltzig-festival-circulation/#respond Sun, 04 Mar 2012 12:07:35 +0000 /?p=4511 Related posts:
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Fotografia di Gregor Beltzig

Da diverso tempo volevo andare al Festival Circulations, sperando che non andasse a finire come l’anno scorso, che per i soliti mille impegni me l’ero lasciato scappare.

Nella metropolitana sono talmente preso dall’ottimo libro di Keigo Higashino “Mukashi bokuga shinda ie” (non credo sia tradotto in italiano) che mi son lasciato scappare la fermata. Scendo quindi a Sablons e mi incammino verso il Bois de Boulogne. È una giornata grigia e nebbiosa, ma non troppo fredda. Arrivo ai primi alberi e mi rendo conto che è proprio qui dove qualche anno fa mi ritrovai per caso assieme ad una ragazza bellissima, un giorno fatto solo di sole e felicità. Proprio qui, dove fra un bacio e l’altro scattai quello che divenne il suo ritratto preferito, subito dopo un gelato mangiato in due dalla stessa coppetta, rubandoselo a vicenda con i cucchiaini di plastica colorata. Come al solito quando ricapito in un luogo speciale, mi guardo intorno cercando di trovare nei luoghi una qualche traccia tangibile della mia esperienza, un segno concreto al di là del mio ricordo giù un po’ appassito. Ma la primavera al Bois de Boulogne non è ancora arrivata e mi rispondono solo i tronchi grigi e muti degli alberi spogli.

Non ho voglia di prendere un pullman, quindi vado a piedi, facendo un po’ attenzione perché nel Bois de Boulogne non mi oriento benissimo e non voglio perder troppo tempo. Passo davanti al museo delle arti e tradizioni popolari, che sembra abbandonato, le scritte tutte scrostate, qualche barbone che dorme avvolto in diverse coperte sotto alla tettoia dell’ingresso. Un cliente entra nel furgoncino di una prostituta coperta solo dal classico vestitino a pelle di leopardo. Mi chiedo se è solo un po’ grossa, o se le cosce importanti e le spalle tradiscono il fatto che sia in realtà un travestito. Un personaggio strano attraversa le sterpaglie sorseggiando una birra. I corridori passano uno dopo l’altro sbuffando fra gli alberi ancora completamente spogli e grigi.

Il Parc de Bagatelles, che ricordo nei fasti floreali estivi completamente stracolmo di gente che mi rimandava con la fantasia alle folle della belle époque, è invece grigio e silenzioso. Ma l’atmosfera è dopotutto pacata e piacevole, non triste. Seguo le frecce che mi portano al festival circulations, guardo senza troppa emozione le prime 2-3 serie di fotografie esposte all’aria aperta e mi infilo nella galleria che espone la prima metà della mostra. Odore di vernice fresca e sottofondo di rumori incongrui tipici dei video d’arte. Poca gente in giro, cosa che permette di ben usufruire delle opere esposte.

Come al solito, buona parte dei lavori che vedo non mi entusiasmano o proprio non mi piacciono. Certo sono piuttosto ben realizzati, le serie sono coerenti in linea con la fotografia contemporanea, però spesso mi sembra che tutti questi grandi concetti siano in realtà un po’ troppo facilotti, che le associazioni mentali siano abbastanza scontate e mi chiedo se l’arte contemporanea di fatto ha poi talmente poco da insegnarci. Le stampe poi sono passabili ma niente di particolare, si vede che son state fatte apposta per il festival, probabilmente senza troppa supervisione e controllo dalla parte degli artisti.

Naturalmente non mancano i lavori interessanti. Le situazioni vagamente incongrue di Amélie Chassary e Lucie Belarbi, il coraggioso reportage fra le prostitute brasiliane di Vincent Catala, le deliziose fotografie americane in piccolo formato di Matt Wilson, la crisi dei trent’anni di Paweł Fabjański, e per finire i misteriosi paesaggi postindustriali ottenuti mischiando fotografia e 3d di David De Beyter.

E poi il mio preferito del Festival Circulations: la serie Mæt di Johansen Per. Foto in grande formato di diversi tipi di cibo crudo infilato e pigiato dentro delle piccole taniche e bottiglie di plastica trasparente. Pesci, salsicce, polli, verdure… L’effetto è disturbante e claustrofobico, tutto questo cibo compresso che viene fuori dal collo della bottiglia quasi come vomito a mala pena trattenuto. Una serie di fotografie che leva veramente l’appetito ed è una splendida e riuscitissima rappresentazione visuale della bulimia del consumismo occidentale. Veramente un livello sopra tutti gli altri lavori esposti.

Sto per andarmene e -come faccio spesso- rifaccio un giro rapido della mostra per fare un riassunto mentale delle fotografie esposte e ben fissare nella memoria i lavori che più mi son piaciuti. Ed ecco che in mezzo alla stanza noto una tavolino di legno che mi era sfuggito. Mi avvicino incuriosito a questo tavolino un po’ dimesso e dall’aria vagamente retrò. Sul tavolo sono posate delle scatolette metalliche, anche queste con un sapore di oggetto antico, il metallo tirato a nudo ma con una bella patina che sembra frutto del tempo. Piccole scatolette che misurano dai quattro, cinque centimetri di lato ad un massimo di una quindicina, in fondo alle quali è posata una fotografia, ricoperta da una specie di resina trasparente che la rende tutt’uno con la scatoletta che la porta dentro.

Dei veri e propri gioielli, bellissimi. In primo luogo la dimensione, questa piccola miniatura, che invita a chinarcisi sopra, a guardare da vicino, a tenerla fra le mani come si fa con gli oggetti preziosi. Poi l’effetto della resina trasparente, che -vagamente irregolare- aggiunge una dimensione tattile e fisica all’immagine, un effetto che ricorda certe proprietà fisiche delle tecniche antiche di stampa. Naturalmente i soggetti malinconici delle foto, vagamente onirici e terribilmente poetici. E poi questa cosa della scatola di metallo, il fatto che alcune sono chiuse a vanno aperte per poter guardare la foto che racchiudono all’interno, l’impressione di aprire un ricordo conservato in un luogo prezioso della mente, un segreto appena confessato. Mi arriva dritta in petto la stessa emozione che provai una delle primissime volte che ebbi la fortuna di ammirare delle splendide autochrome, piccole finestre aperte sul passato.

Mi guardo intorno per scoprire chi è l’autore di questa splendida opera, misto fra fotografia e installazione, mostra che sta tutta su un vecchio tavolino di legno. In un cassetto di questo un foglio trovo il nome che cercavo –Gregor Beltzig– e queste righe:

Le scatole dei sentimenti

Quando avevamo ancora fiducia l’uno nell’altro, scrivevo delle poesie per te,
parlando d’amore, parlando di risa, parlando di quello che sentivo.
Quando avevamo ancora fiducia l’uno nell’altro, ti ho fotto delle foto.
Le tue spalle, il tuo seno, le tue voglie caffellatte e i tuoi capelli.
Ma visto che ormai non ci son più legami fra noi
le parole mi restano bloccate in gola.
Adesso i sentimenti sfuggono dai miei occhi,
ed è così che grido la mia sofferenza al mondo.

Al che non ho più niente da dire, se non di correre a vedere quel tavolino e le sue scatolette riempite di poesia, perché le foto in sé, private della loro scatoletta, nonché nessuna riproduzione del tavolino renderanno mai la magia di quest’opera. Scatole dei sentimenti che mi fa ritrovare la fiducia e la passione nell’arte contemporanea. Un po’ come la mostra di Ville Lenkkeri, ogni tanto fra le tonnellate di masturbazioni cerebrali, lavori insulsi che si vorrebbe poter dimenticare subito, qualcosa di eccezionale lo si finisce per trovare.

Grazie Gregor Beltzig, grazie di cuore.

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Esposizione alla P(AF)3: Fiera d’Arte Parallax a Londra /it/2012/fiera-arte-parallax-londra/ /it/2012/fiera-arte-parallax-londra/#respond Sat, 11 Feb 2012 22:16:18 +0000 /2012/exposing-at-paf3-parallax-art-fair-in-london-2/ Related posts:
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Parallax: King’s Road, a Londra dal 16 al 18 February 2012.
Invito alla fiera d'arte Parallax
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Settimana prossima esporrò alcune foto della serie demoni, blow-up e palazzi dell’anima durante la terza edizione della fiera d’arte Parallax.

P(AF) si terrà alla Chelsea Town Hall, in King’s Road, a Londra dal 16 al 18 February 2012. L’ingresso è libero.

Una bella occasione per ammirare dipinti, sculture e fotografie che provengono da ogni angolo del globo, per seguire qualche conferenza dell’interessante programma di incontri ed eventualmente per comprare qualche opera d’arte, il ricavato devoluto interamente all’artista. Proprio così , P(AF) non tratterà nessuna commissione sulle vendite!

Se per caso siete a Londra settimana prossima sarò felice di incontrarvi agli spazi MH17&MH18 della sala principale. Altrimenti, ecco una visita virtuale della mostra di Fabiano Busdraghi alla fiera d’arte Parallax.

Mostra virtuale delle foto di Fabiano Busdraghi: Demoni, Blow-up e Palazzi dell'Anima
Fabiano Busdraghi alla fiera d'arte Parallax
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Quattro, morte o perfezione /it/2011/quattro-morte-o-perfezione/ /it/2011/quattro-morte-o-perfezione/#respond Mon, 06 Jun 2011 05:52:48 +0000 /?p=4481 Related posts:
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Quattro stagioni Mucha
Quattro stagioni di Alfonso Mucha, circa 1895
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Da un punto di vista matematico quattro, è numero composto e altamente composto, numero difettivo, numero di Smith e numero di Harshad completo.

Secondo i cinesi invece il “quattro” porta sfortuna, semplicemente perché si pronuncia in modo simile (o uguale, a seconda delle regioni) di 死, che significa “morire”. Per questo in Cina, dove la superstizione è ancora estremamente viva, non si trovano mai combinazioni di quattro elementi, per esempio le tazze dei servizi da tè di solito sono sei (felicità). I numeri di telefono che contengono la cifra quattro, soprattutto se ripetuta, sono offerti a prezzi stracciati, al contrario di quelli che contengono la cifra otto (fortuna), che possono raggiungere cifre astronomiche. In certi hotel e condomini, non esiste il quarto piano, perché altrimenti nessuno vorrebbe abitarci. Naturalmente il quarto piano fisicamente esiste, semplicemente viene chiamato “quinto piano”.

In Europa il quattro invece è un simbolo positivo, e in ogni caso carico di significati. Basti pensare ai quattro elementi (che sono cinque nella cosmologia tradizionale cinese), le quattro stagioni, i quattro venti dominanti, il quadrato figura geometrica contrapposta al cerchio e via dicendo.

In ogni caso oggi il quattro è semplicemente il numero di anni di Camera Obscura.

Buon compleanno!

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Una foto dell’Antartide per l’acqua pubblica /it/2011/antartide-acqua-pubblica/ /it/2011/antartide-acqua-pubblica/#comments Tue, 24 May 2011 05:12:11 +0000 /?p=4455 Related posts:
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Fabiano Busdraghi Antartide Acqua Pubblica
Donazione per l'iniziativa Fotografi per l'Acqua Pubblica© Fabiano Busdraghi
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Qualche tempo fa sono stato invitato a partecipare ad una mostra in favore del referendum sull’acqua pubblica, iniziativa a cui hanno aderito 60 fotografi fra cui grandi nomi della fotografia italiana come Gabriele Basilico, Gianni Berengo Gardin e Ferdinando Scianna.

Le fotografie verranno esposte e vendute domani, mercoledì 25 maggio 2011, dalle ore 15 alle ore 22, a Milano, presso lo Spazio Theca, in piazza castello n°5. La mostra resterà aperta un solo giorno, ma le fotografie rimarranno in vendita sul sito Fotografi per l’Acqua anche durante i giorni successivi. Il ricavato andrà interamente al Comitato Provinciale 2Sì per l’Acqua Bene Comune per sostenere la campagna per evitare che l’acqua venga privatizzata al referendum del 12 e 13 giugno 2011.

Personalmente ho partecipato con una fotografia del mio secondo viaggio in Antartide:

Le spoglie mortali di Larsen, Fabiano Busdraghi

Mare di Weddell, Antartide. 2007

Gran parte del ghiacciaio Larsen si è disintegrato fra il 1995 e il 2002. Nel 2002 il settore Larsen-B si frantumato nell’arco di qualche settimana, trasformando in una miriade di iceberg un enorme blocco di ghiaccio dello spessore di 200m su un’area di 3250km² (Superficie pari a quella occupata dall’intera Valle d’Aosta). Nel giro di qualche anno tutti questi iceberg, ultime spoglie mortali del grande ghiacciaio, si sono sciolti nell’oceano Antartico. Larsen-B era stabile da circa 12000 anni, essenzialmente la totalità dell’Olocene.

La fotografia è stampata in formato 30x45cm su carta Hahnemühle Photo Rag Baryta 40x55cm, edizione firmata e numerata, esemplare 3/15, ed è venduta al prezzo di 300€. Il ricavato sarà interamente devoluto per il sostegno del referendum.

L’iniziativa Fotografi per l’Acqua è stata ampiamente pubblicizzata, si legga per esempio l’articolo su Repubblica o sul Sole 24 ore. Per più informazioni invece sui miei viaggi in Antartide si prega di leggere l’articolo Fisica, avventura, poesia e fotografia in Antartide o visitare la pagina del portfolio sull’Antartide.

fotografi per l'acqua pubblica
Invito alla mostra Fotografi per l'Acqua Pubblica
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Paura sulla città: Paris Match, Patrick Chauvel e Michael Wolf alla Monnaie di Parigi /it/2011/paris-match-patrick-chauvel-michael-wolf/ /it/2011/paris-match-patrick-chauvel-michael-wolf/#respond Mon, 28 Feb 2011 14:10:25 +0000 /?p=4367 Related posts:
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Patrick Chauvel

La Monnaie de Paris organizza di tanto in tanto delle mostre di fotografia, come per esempio la grande retrospettiva dedicata a David la Chapelle di qualche anno fa. L’esposizione attuale si intitola “La paura sulla città” e ci sono andato quasi esclusivamente per vedere le fotografie di Patrick Chauvel, un bravissimo reporter di guerra nonché autore di un libro che mi piacque moltissimo.

In realtà la mostra è articolata in tre sezioni: immagini tratte dall’archivio di Paris Match, Google Street View di Michael Wolf e infine i fotomontaggi di Patrick Chauvel.

Paris Match

La prima sezione della mostra, che rappresenta forse la metà delle immagini esposte, è costituita dagli scatti dei fotografi della rivista Paris Match che hanno documentato vari avvenimenti tragici e violenti avvenuti a Parigi nel corso del tempo.

Le prime fotografie esposte sono riproduzioni di immagini della seconda guerra mondiale. Anche se Parigi non è mai stata bombardata, gli scatti sono eloquenti. Barricate che chiudono completamente una strada, dietro la quale sono schierati i nostri nonni in canottiera bianca, un elmetto sottratto a qualche caduto tedesco, sigaretta che pende dalle labbra, sguardo duro e deciso. E spesso, dietro le barricate, vengono immortalate dal fotografo anche coraggiose donne col fucile imbracciato. Alcune foto sono epiche e splendide, e in ogni caso tutte sorprendenti. Effettivamente nel panorama odierno, sembra incredibile pensare che l’altro ieri Parigi fosse ancora un teatro di guerra, che il quotidiano della gente fossero i soldati e le sparatorie, le retate naziste e i partigiani nascosti nelle catacombe.

La mostra continua con le foto, più o meno in ordine cronologico, di alcuni attentati terroristici che hanno avuto luogo a Parigi nei decenni successivi. Anche queste immagini sono impressionanti, fra l’altro probabilmente perché visivamente sono molto più vicine a noi, Parigi inizia a somigliare a quella che vedo tutti i giorni, alla città com’è oggi. Le foto intanto iniziano ad essere a colori, ed è una bella differenza rispetto all’astrazione del bianco e nero, alcune strade son cambiate pochissimo, le insegne dei negozi e le facciate di molti bistrot sono rimaste praticamente identiche a quelle delle fotografie.

Uno degli ultimi episodi violenti mostrati nella estratto dell’archivo di Paris Match è la rivolta che ebbe luogo nelle periferie di Parigi nel 2005, quando in seguito alla morte di alcuni giovani che si erano rifugiati in una cabina elettrica per sfuggire alla polizia, vennero registrate diverse notti di violenza nella periferia di Parigi. Un avvenimento che ricordo bene in prima persona, anche se in quel momento vivevo a Napoli leggevo comunque tutti i giorni Le Monde, e molte delle foto esposte qui alla Monnaie di Parigi mi erano familiari per averle già viste sui giornali di allora.

Michael Wolf

La mostra “Paura sulla città” continua con le “fotografie” di Michael Wolf ottenute riproducendo lo schermo del computer mentre sta navigando con Google Street View, fotografie già viste a Paris Photo e nella personale di Michael Wolf alla splendida Galerie Particulière.

Michael Wolf in questo momento gode veramente di un grande successo, le sue foto sono dappertutto, non solo a Parigi, alcuni amici infatti mi hanno detto di averle viste in diverse altre città. Sono contento per lui, perché è un tipo molto simpatico e perché fa degli ottimi lavori, anche se la qualità delle stampe a volte potrebbe essere migliore. Inoltre utilizzare Street View per “cacciare” immagini, ovvero fare il reporter in un mondo virtuale piuttosto che in quello reale è tutt’altro che una novità. Diversi artisti e fotografi hanno fatto la stessa cosa, e anche persone normali, senza nessuna ambizione artistica, sondano tutti i giorni Google Street View a caccia di immagini particolari, poetiche, strambe, ironiche e via dicendo. Per questo motivo lo statment scritto dal gallerista che sembra ricercare l’artisticità di queste immagini nel media utilizzato mi lascia un po’ freddo.

Trovo inoltre curioso che questa serie di fotografie sia stata inserita di una mostra dal titolo “Paura sulla città”, perché in queste immagini tutto percepisco salvo la paura. Nel testo di accompagnamento Michael Wolf sembra interrogarsi sulla questione della privacy, e la paura dovrebbe derivare dal sentirsi continuamente osservati e monitorati. Ma non mi sembra proprio vero che sia il caso di Google Street View. Certo, l’algoritmo che sfoca visi e targhe delle macchine non è ancora infallibile, e di tanto in tanto qualche persona rimane riconoscibile. Ma è auspicabile che nel corso del tempo l’algoritmo verrà migliorato al punto da nascondere l’identità di tutte le persone che si trovavano per strada quando la macchina di Google è passata da quelle parti. E poi Google Street View a mio avviso non è costruito come strumento di controllo, ma somiglia molto più ad un pratico servizio gratuito per gli utenti, mi sembra che in altri campi esistano metodi e protocolli cui siamo sottoposti di fatto molto più performanti e soprattutto inquietanti di questo.

Per queste ragioni mi sembra che le foto di Michael Wolf siano un po’ fuori luogo in questa mostra. Sia chiaro, come ho già scritto le immagini mi piacciono molto, ma non tanto perché si tratti di un utilizzo originale di un certo media, né perché mi incutano timore o mi facciano riflettere sulla fragilità della privacy. Quello che mi piace di queste fotografie è l’aspetto un po’ “retro” e romantico, i colori caldi e slavati, l’impressione di rivedere la città che ho conosciuto solo attraverso “Ultimo Tango a Parigi”, film di Bernardo Bertolucci che amo tantissimo. Quello che mi attira, oltre alla bellezza estetica intrinseca delle immagini, è questa visione particolare di Michael Wolf, il fatto che utilizzando uno strumento modernissimo, una tecnologia per molti versi all’avanguardia, si ricada invece nel passato, in un mondo che ricorda quasi i fotografi umanisti francesi tanto amati da tutti.

Patrick Chauvel

Patrick Chauvel è un fotografo che amo tantissimo, ed è la vera ragione per cui ho visitato la mostra “Paura sulla città” alla Monnaie de Paris. In generale non condivido minimamente la visione piuttosto diffusa secondo la quale i fotografi di guerra sono sciacalli della sofferenza a caccia di una visione pornografica della guerra. Al contrario ammiro molto i fotografi che lavorano nelle zone calde per il loro coraggio e il sacrificio che implica tale scelta, e voglio continuare a credere che le immagini belliche possano in qualche modo contribuire a cambiare il corso della storia e convincere l’opinione pubblica ad abbandonare la maggior parte delle posizioni interventiste. Patrick Chauvel incarna un po’ tutto questo, avendo attraversato la maggior parte dei conflitti armati degli ultimi quarant’anni ed essendo stato ferito innumerevoli volte, alcune anche in modo molto grave.

Patrick Chauvel è inoltre l’autore di uno splendido libro che qualche hanno fa lessi con grandissimo piacere traversando in nave l’oceano Atlantico dall’Islanda a Boston. Sky racconta una bellissima storia di amicizia nata durante la guerra del Vietnam, dove il fotografo, allora poco più che diciottenne, iniziò a seguire un gruppo di incursori a lungo raggio che operavano in territorio nemico. Uno di questi, il cui nome di guerra “Sky” ha dato il titolo al libro di Patrick Chauvel, era un mezzo sangue indiano nativo d’America, dagli occhi blu come il cielo e i lunghissimi capelli neri. La storia raccontata da Patrick Chauvel è incredibile e splendida, sorprendente e toccante. Oltre all’amicizia, la guerra e la morte, sono abbordati molti altri temi interessantissimi, per esempio la parzialità di un fotoreporter quando -in situazione estrema- si trova ad imbracciare un’arma invece di una macchina fotografica. Un libro veramente stupendo, che consiglio viviamente a tutti i lettori di Camera Obscura.

Con queste premesse è naturale che, appena saputo della mostra con le fotografie di Patrick Chauvel, ho fatto il possibile per andare a vederla il più rapidamente possibile. Incuriosito fra l’altro dal fatto che si tratta di fotomontaggi, che è una pratica considerata tabù dai fotogiornalisti. Il fotoritocco è infatti considerato accettabile nella fotografia d’informazione esclusivamente quando riguarda cromia e densità globale dell’immagine, senza che questo modifichi il messaggio dell’immagine. Tutti gli interventi per eliminare, aggiungere o spostare elementi delle fotografie, ad esclusione dell’eliminazione dei granelli di polvere sul captore, sono vietatissimi, pena anche il licenziamento del fotoreporter in questione, come ha insegnato qualche caso esemplare. Mi sembra quindi interessante che un fotografo come Patrick Chauvel utilizzi le fotografie del suo archivio per inserirle le scene di guerra in un contesto completamente diverso: Parigi.

I fotomontaggi di Patrick Chauvel consistono infatti nell’inserire parti di fotografie di scene belliche: esplosioni, cadaveri, carri armati, edifici danneggiati… in fotografie di famosi monumenti Parigini. Devo dire che i fotomontaggi, eseguiti da Paul Biota, un professionista di Photoshop, sono maledettamente ben fatti e quasi credibili, senza contare che le stampe sono molto grandi e il minimo difetto salterebbe subito agli occhi. L’effetto finale purtroppo è comunque un po’ “plasticoso”, nel senso che si vede subito -almeno per un occhio allenato- che qualcosa stona. Sembra di vedere una pubblicità, quelle dove la realtà viene pesantemente trasformata con Photoshop, e tutto sembra finto e irreale. Non che cerchi a tutti i costi la corrispondenza con il reale, anzi. Però questo look fra il commerciale e il pubblicitario non mi sembra adatto a questo tipo di immagini.

Ogni foto montaggio è accompagnato dalla stampa della fotografia originale, più in piccolo. Lo stesso Patrick Chauvel spiega che è fondamentale farlo, per evitare di mostrare la violenza gratuitamente. Il fotografo, in un video che precede le immagini, spiega anche le proprie intenzioni. Dice che lo shock visivo generato dalla visione di scene di guerra a Parigi deve spingere il visitatore a riflettere sulla fragilità della pace, sul fatto che non si tratta minimamente di un risultato acquisito, ma che bisogna lavorare continuamente per mantenerla e diffonderla nel resto del mondo.

Detto cosi non c’è niente da ridire. Il problema secondo me è che queste buone intenzioni -e fotografie come queste- possono esser facilmente strumentalizzate. Invece di usarle come monito, è facile ribaltarne i significati, utilizzarle per terrorizzare il pubblico, per mantenerlo nell’inquietudine e nella paura, con il risultato forse di mantenere la pace in Europa ma spostare la guerra in Afganistan o altrove. A Parigi la paura collettiva mi sembra già sufficientemente elevata: sacchetti della spazzatura trasparenti nella metropolitana e niente cassonetti nella città, scanner all’entrata dei musei, controlli lunghissimi agli aeroporti, telecamere ovunque e tutte le altre regole di sicurezza che conosciamo (e subiamo) tutti. E poi soprattutto l’atteggiamento della gente, sempre sul chi vive. Il tutto è sicuramente fatto in buona parte per proteggerci, ma allo stesso tempo sembra importante per chi tiene i fili del mondo mantenere un livello alto di paura, alimentare i sospetti e l’impressione di esser sottoposti a una minaccia continua. Gli Stati Uniti, come è stato per esempio mostrato da Michael Moore, hanno addirittura un sistema economico e sociale in buona parte basato sulle guerre e sulla paura. In questo contesto, temo che i fotomontaggi di fotografie di guerra di Patrick Chauvel nelle strade di Parigi possano essere facilmente strumentalizzati. Credo che in realtà lui lo faccia veramente in buona fede, ma il rischio che le fotografie vengano usate non per mantenere la pace, ma per giustificare gli interventi militari dei paesi occidentali, sia tutt’altro che trascurabile.

Critica

Sebbene “Paura sulla città” alla Monnaie de Paris sia un’esposizione interessante e alcune fotografie siano molto belle o addirittura eccezionali, devo dire che nel complesso la mostra non mi è piaciuta molto.

Innanzi tutto il materiale esposto è abbastanza scarso, nel senso che l’esposizione è costruita attorno a troppe poche foto e forse troppi pochi autori. Alla fin fine si fa il giro delle stanza in una mezz’ora al massimo, mentre il costo del biglietto d’ingresso è comparabile a quello di musei dove si puo facilmente trascorrere una giornata intera. Mi sembra impossibile credere che, oltre alle foto dell’archivio di Paris Match, solo due fotografi lavorino su un tema compatibile con quello scelto per la mostra, direi che una sei o sette sia il minimo necessario per organizzare una vera esposizione collettiva che sia allo stesso tempo interessante e coerente. Manca inoltre un apparato informativo veramente chiaro e esplicatorio. Per me che non ho vissuto gli attentati francesi degli anni settanta, sarebbe stato interessante e istruttivo avere delle spiegazioni storiche che permettano di piazzare le foto nel contesto di allora. Di fatto si va alle mostre per il piacere della fotografia ma anche per imparare qualcosa, e questa è purtroppo un’ottima occasione persa per istruire il pubblico.

Per quanto riguarda i due autori principali della mostra, come già scritto nelle due sezioni precedenti, nutro qualche dubbio sulla coerenza delle fotografie di Michael Wolf in questo contesto e temo che i fotomontaggi di Patrick Chauvel -di cui non amo la resa vagamente pubblicitaria- possano venir strumentalizzati ed usati per fini che non corrispondono necessariamente a quelli dell’autore.

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