Esposizione – Camera Obscura /it A blog/magazine dedicated to photography and contemporary art Fri, 22 Jan 2016 13:24:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.4.3 I sensi di colpa del voyeur, ovvero “antichambre avec vues” di Elene Usdin /it/2012/antichambre-avec-vues-elene-usdin/ /it/2012/antichambre-avec-vues-elene-usdin/#respond Wed, 04 Apr 2012 13:03:36 +0000 /?p=4540 Related posts:
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Fotografia di Elene Usdin (11)
© Elene Usdin
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Giusto di fronte a keyhole di Erwin Olaf, un’altra galleria di Art Paris espone un’installazione che supera la tipica bidimensionalità fotografica: antichambre avec vues d’Elene Usdin.

In fondo allo spazio dedicato alla galleria Esther Woerdehoff infatti, è stata costruita un’intera stanza all’interno della quale sono disposti vari oggetti e fotografie. Elene Usdin, prima di diventare fotografa e illustratrice, ha studiato arte decorativa, formazione che si riflette nel suo lavoro successivo. Elene Usdin costruisce quindi buona parte dei decori, degli abiti e degli accessori che utilizza nelle sue fotografie. In questo caso sono esposti insieme alle stampe proprio alcuni degli oggetti utilizzati nelle fotografie, il tutto realizzato con estrema cura.

Fotografia di Elene Usdin (8)
© Elene Usdin
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La sensazione è che di fatto per Elene Usdin l’opera artistica non si limiti alla fotografia in sé, gli oggetti e la loro realizzazione non sono dei semplici strumenti necessari unicamente al prodotto finale, al contrario tutto il processo creativo, nelle sue varie fasi e sfaccettature, costituisce nel complesso l’opera artistica. Ecco quindi che nella antichambre avec vues di Elene Usdin fotografie, abiti, decori, muri e tutta la stanza stessa, si trovano globalmente sullo stesso piano, in maniera indissociabile, costituendo appunto l’installazione artistica, intesa come opera nella sua totalità.

Fotografia di Elene Usdin (9)
© Elene Usdin
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Si entra camminando su un lungo e soffice tappeto rosso, posato nel mezzo della morbida moquette blu a motivi floreali. La stanza stessa è tutta giocata nelle tonalità del blu e dell’azzurro: i pannelli con trompe-l’œil, le mura dipinte a tinta unita e la carta da parati che fa pendant con gli arabeschi della moquette.

Vari oggetti riempono la stanza: delle sedie e poltrone sulle quali sono posati degli abiti da altra epoca, ma con un tocco di fantasia moderna, valigie sovrapposte, lampade, pantofole e calzettoni, scrigni e cofanetti. La cura dei dettagli è stupefacente. Lungo le due pareti laterali sono invece esposte le fotografie di Elene Usdin.

Fotografia di Elene Usdin (10)
© Elene Usdin
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Vari personaggi femminili -tutti autoritratti messi in scena- in posa in una camera d’hotel. antichambre avec vues nasce infatti come il seguito naturale della collaborazione iniziata con photo d’hôtel, photo d’auteur, un interessante progetto lanciato da HPRG: giovani fotografi emergenti vengono invitati a passare una notte in una stanza d’hotel, alla fine della quale dovranno scegliere un’unica fotografia e un testo ispirati dalla loro esperienza. Elene Usdin, cui è stata data carta bianca per la creazione della sua installazione, ha associato un personaggio famoso ad ogni stanza d’hotel in cui si è trovata: Giuseppina di Beauharnais all’Hôtel des Grands Hommes, George Sand a l’Hôtel Panthéon, Simone de Beauvoir a l’Hôtel Design Sorbonne, Isadora Duncan à l’Hôtel Jardin de l’Odéon e infine Juliette Récamier a La Belle Juliette. La serie di fotografie è quindi costituita dagli autoritratti di Elene Usdin, che immagina come queste cinque donne famose si sarebbero comportate nell’intimità della camera d’hotel che è stata loro attribuita.

Fotografia di Elene Usdin (5)
© Elene Usdin
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I personaggi delle foto di Elen Usdin, sono ripresi per lo più sul letto della loro camera, o su di una poltrona, a volte in situazioni incongrue e vagamente ironiche, come l’imperatrice Giuseppina, la poltrona su cui è quasi sdraiata, posata sopra al letto dalle lenzuola immacolate. Quasi tutte stanno dormendo, o perlomeno si trovano in posizione allungata, anche se spesso fanno vagare le gambe in posizioni curiose, quasi si annoiassero e manifestassero il proprio languore giocando col proprio corpo.

Fotografia di Elene Usdin (4)
© Elene Usdin
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Quello della gambe in movimento è anche il tema del video in stop motion intitolato les Impatiences, che è il nome popolare usato in francese per la sindrome di Ekbom. Nella parete centrale della camera ricostruita in antichambre avec vues infatti non ci sono fotografie, il tappeto rosso conduce dritto ad una porta, nella quale sono praticati due fori, un po’ come nei film erotici a sfondo voyeuristico. Dietro a questi viene proiettato appunto il video les Impatiences di Elene Usdin.

[youtube 72RqZ1PiMuc nolink]

Nei muri ai lati della porta sono praticate due fessure, bordate da una sottile cornice rossa. Dietro a queste sono esposte due fotografie di nudo, sempre tratte dalla serie di autoritratti di Elen Usdin ambientati nelle camere d’hotel. La posa è decisamente classica, ricordano le cartoline erotiche della belle époque, allora considerate come immagini puramente pornografiche mentre oggi farebbero quasi sorridere. Eppure, mentre guardo attraverso la fessura nel muro, mi sento proprio come un voyeur da film di una volta, con un misto di eccitazione vagamente morbosa e sensi di colpa, come se il cinema, internet, le pubblicità e soprattutto le mostre di fotografia non contenessero fotografie infinitamente più osé di questa. Faccio vagare lo sguardo sulle gambe nude, il deretano in bella mostra, la fessura del sesso e mi sembra proprio di fare qualcosa di estremamente trasgressivo, mi sento esattamente come immagino si sentissero i nostri nonni e bisnonni di fronte a fotografie come questa.

Fotografia di Elene Usdin (7)
© Elene Usdin
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Inizio a pensare che il fatto di guardare attraverso un foro sia qualcosa che risuona con prepotenza con il mio modo di sentire, oltre al recente keyhole di Erwin Olaf, mi viene subito in mente l’esperienza con le autochrome alla mep. Come se in tutti questi casi potessi guardare attraverso un’apertura su un altro mondo, in senso quasi psichedelico. Idea di cui non sono il solo a subire il fascino, tanto per citare l’esempio più famoso, non a caso i Pink Floyd in the wall chiedevano ripetutamente “C’è qualcuno là fuori?”. Come se di fatto i fori sfruttati come stratagemma espositivo, potessero veramente proiettarci in una realtà diversa, in un mondo altro, al di fuori della sfera esistenziale corrente.

Fotografia di Elene Usdin (1)
© Elene Usdin
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Il semplice espediente della fessura, il modificare quello che è il modo di guardare, trasforma in maniera prepotente tutta la percezione fotografica. Un’immagine che forse non mi avrebbe colpito in modo particolare, si trasforma invece in un’esperienza molto più vasta e complessa. È in atto una vera e propria trasfigurazione della fotografia. Il fatto di inserire un’immagine fotografia in un’opera tridimensionale, in un’installazione artistica, ne riscrive completamente le modalità di fruizione, rendendo l’esperienza visiva molto più completa e potente, immergendoci non solo fisicamente e soprattutto emotivamente nel cuore di un’opera artistica.

Fotografia di Elene Usdin (6)
© Elene Usdin
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Le analogie con quello che l’esperienza vissuta con keyhole di Erwin Olaf è evidente. In entrambi i casi si tratta di guardare attraverso un’apertura, che sia il buco della serratura o il foro di un voyeur poco importa. Le due opere sono praticamente gli unici esempi di esposizione fotografica presente ad Art Paris che va al di là della classica esposizione bidimensionale. In entrambi i casi la riscrittura della modalità visiva si è tradotta in una forte risposta emotiva da parte mia, in cui il senso di colpa è uno degli elementi principali. Cosa sicuramente voluta, visto che le due installazioni giocano sui temi estremamente vicini di vergogna e voyeurismo.

Fotografia di Elene Usdin (3)
© Elene Usdin
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La cosa divertente è che nel grande padiglione di Art Paris, la galleria Rabouan Moussion che espone keyhole di Erwin Olaf e la galleria Esther Woerdehoff che espone antichambre avec vues sono praticamente una di fronte all’altra. Mi viene subito in mente un caso analogo, quando a Paris Photo sex di Atta Kim e coït di Frédéric Delangle erano esposti praticamente dirimpetto. Eppure in questo caso, oltre alle considerazioni sempre valide citate ne l’ironia del nuovo, vale la pena sottolineare che -al di là delle analogie- sebbene le due installazioni esplorino temi vicini, il risultato, il messaggio, la realizzazione visiva, sono completamente diverse. Nessunissima impressione quindi di ridondanza, le due installazioni sono perfettamente complementari. In ogni caso, uno dei maggiori interessi dell’arte contemporanea, è appunto vedere dove approdano due artisti diversi intenti a lavorare sullo stesso tema.

 

Per ulteriori informazion su antichambre avec vues, oltre al sito di Elene Usdin, si visiti l’annuncio della mostra sul blog HPRG.

Fotografia di Elene Usdin (2)
© Elene Usdin
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Spiare con vergogna attraverso il buco della serratura, ovvero Keyhole di Erwin Olaf /it/2012/keyhole-erwin-olaf-art-paris/ /it/2012/keyhole-erwin-olaf-art-paris/#comments Sat, 31 Mar 2012 13:06:28 +0000 /?p=4537 Related posts:
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Erwin Olaf Keyhole (1)

Sole e cielo blu senza una nuvola, da diversi giorni ormai. Fa caldo, non troppo, ma nel primo pomeriggio abbastanza da stare in giro in maglietta. Mi ricordo dalle miei visite negli anni precedenti a Art Paris, che sotto la volta di vetro del Grand Palais si ha un po’ la sensazione di boccheggiare, soprattutto se c’è gente, la luce intensa fa quasi male agli occhi, e dopo qualche ora si è presi quasi da un certo affanno. Oggi mi son quindi preparato in anticipo per fare la mia abbuffata pomeridiana di arte contemporanea: pantaloni corti, camicia leggera e due litri d’acqua.

Faccio un primo giro, come al solito facendo prima tutto il perimetro e per ultime le maglie centrali. Sarà perché il mio centro di interesse è la fotografia, ma dipinti e sculture mi lasciano quasi tutti abbastanza freddo, salvo pochissime eccezioni non c’è praticamente niente che mi metterei in casa, che mi piace davvero. La fotografia invece a mio vedere ne esce molto meglio. Certo ci son tanti lavori che ho già visto ripetutamente e quindi non mi entusiasmano più come la prima volta, qualche opera che purtroppo proprio non incontra il mio gusto e qualche cosetta invece che non mi fa né caldo né freddo, ma nel complesso l’impressione è abbastanza positiva. In ogni caso mi sembra che la qualità delle fotografie esposte sia mediamente superiore a quella degli altri media. Oppure detto più precisamente, mi sembra che le fotografie siano più immediatamente godibili e fruibili rispetto al resto, chiuso nella sua cripticità concettuale. Come se la fotografia, pur artistica allo stato puro come può essere quella esposta ad Art Paris, paragonata alle altre arti figurative, soffrisse meno della maledizione dei ready made e di Duchamp. In ogni caso moltissime gallerie espongono fotografie, molte di più di quanto ricordassi dagli anni passati, il che mi sembra già una bella notizia, e soprattutto un fatto degno di nota. Nonostante i fotografi si lamentino per come va il mercato, sembra invece che gallerie e pubblico si interessino sempre di più alla fotografia.

Arrivato quasi alla fine del mio giro, inizio già a fare un piccolo riassunto mentale, chiedendomi cosa avesse effettivamente ritenuto la mia attenzione, in un certo senso se volesse la pena scrivere un articolo per Camera Obscura, visto che per il momento non ho molto da dire al di la dell’abbondanza di fotografie che contraddistingue Paris Photo 2012.

Ed ecco che lo vedo.

Un grande mobile in legno, a prima vista dall’aspetto vagamente art deco, con incastonate dentro delle foto di Erwin Olaf. Ogni volta che visito Paris Photo (vedi gli articoli scritti nel 2008 e 2010) e Art Paris, Erwin Olaf è immancabilmente fra i miei fotografi preferiti, quindi mi avvicino per non perdere l’occasione di ammirare nuovamente il suo lavoro. La struttura in legno è lunga 3-4 metri e alta un paio, lo stile ricorda i decori delle ultime serie di fotografie di Erwin Olaf, dal gusto retro, un po’ anni trenta. Pannelli in legno intagliato e carta da parati con arabeschi grigio chiari, come se le pareti della struttura fossero i muri dello sfondo di una delle sue foto. Su ogni lato di queste, all’interno di una piccola alcova, sono presenti cinque splendide foto, quasi tutte -se non fosse per un nudo maschile- ritratti di personaggi presi di spalle, che nascondono il volto allo sguardo. Uomini, donne e molti bambini, tutti voltati, come se si vergognassero, come se cercassero di sfuggire allo spettatore, chiusi nell’immobilità vagamente malinconica tipica degli ultimi lavori di Erwin Olaf. Come al solito, le fotografie sono favolose. Composizione, decoro, posa e luce magnifica, alla quale si aggiunge una tecnica indiscutibilmente perfetta e un’ottima stampa. Non posso fare a meno di pensare che secondo me i grandi artisti, oltre alle ottime idee, sono persone che portano alla massima espressione e quasi al perfezionismo puro gli oggetti che costituiscono le loro stesse opere. In ogni caso Erwin Olaf appartiene a questa categoria.

Nei due lati corti della struttura invece sono presenti unicamente due porte chiuse, davanti alle quali è stata posta una sedia con un paio di cuffie appoggiate sopra. Chiaramente un invito a sedersi e guardare attraverso il buco della serratura. Dall’altra parte un video. Un bambino, in piedi accanto alla madre, una donna di mezza età che legge un libro seduta sul letto. Le stesse persone delle foto, la stessa atmosfera, ma questa volta non sono immobili nella fissità della fotografia, si muovono, parlano, cambiano posizione. L’occhio, attraverso il buco stretto della serratura, non riesce ad abbracciare la totalità della scena, è costretto a spostarsi da un punto all’altro, esplorare lentamente la stanza, le persone, i decori. Grazie a questo movimento incessante, a causa dei limiti intrinseci d’osservazione, si scoprono con infinita intensità i dettagli, i particolari che sarebbero rimasti inosservati di fronte alla semplice superficie piatta di una fotografia. L’occhio si sofferma quindi sui decori e gli intagli del legno, la materia tridimensionale della tenda del mobile, il brillare improvviso dell’anello quando la mano della madre entra in un raggio di luce, la sua lunghissima treccia, che tocca quasi terra, le pantofole rosse posate ai suoi piedi, la scultura bianca su l comodino, stretta e lunga quasi come l’ombra della sera.

È chiaro perché keyhole, questo il titolo dell’installazione di Erwin Olaf, sia un’opera sulla vergogna. Al di là del fatto che le persone nelle foto siano quasi tutte di spalle, come se appunto si vergognassero di farsi vedere, spiare attraverso il buco di una serratura è un riferimento inequivocabile, un simbolo chiarissimo di un’attività che può portare con se un misto di voyerismo, curiosità e sensi di colpa. Perché appunto sembra quasi di violare l’intimità delle persone che si trovano al di là della porta, spiarle mentre si trovano in camera da letto, in vestaglia, nella fragilità del quotidiano.

Mi sposto sul lato opposto dell’installazione, per guardare l’altro video. Stessa atmosfera, ma un’altra stanza, questa volta un uomo che tiene il bambino in braccio, leggendo un libro, in uno studio. Mentre legge gli carezza la schiena, lentamente. Nelle cuffie, oltre a rumori soffusi, il respiro forte dell’uomo, quasi a tradire una forte eccitazione sessuale. Questa volta il malessere, questo senso di colpa di spiare ciò che è proibito, si fa molto più intenso, disturbante. Si teme di assistere ad atto di pedofilia, si intuisce tutta l’ambiguità della situazione, senza sapere se di fatto corrisponde al vero, o invece la morbosità è nella propria testa, ci si sta immaginando tutto.

Nel complesso, l’istallazione è veramente geniale. Al di là della bellezza delle fotografie e della perfezione formale della realizzazione, l’esperienza suscitata da keyhole è decisamente intensa. Non si è più semplici fruitori delle immagini, ma il fatto stesso di chinarsi e guardare attraverso un buco della serratura, precipita lo spettatore all’interno della scena, lo trasforma in attore stesso, lo priva del distacco emotivo cui è abituato, immergendolo in una situazione incerta e vagamente repulsiva.

Trovo sempre sorprendente che la quasi totalità delle fotografie siano presentate unicamente come supporto bidimensionale. Certo i fotografi a volte si lasciano andare sulla scelta delle cornici. Spesso le mostre giocano sui formati, o le disposizioni sapienti nello spazio, raggruppare immagini diverse, tanto per i formati che per i contenuti. Ma tutto ciò si limita in generale ad una semplice organizzazione di supporti bidimensionali quali sono le fotografie, senza andare al di là. Erwin Olaf invece, con la sua installazione keyhole, frantuma la bidimensionalità della fotografia, entrando con prepotenza nella realtà che ci avvolge e ci circonda.

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La poesia te la porti in tasca dentro una scatoletta di metallo, ovvero Gregor Beltzig al Festival Circulation /it/2012/gregor-beltzig-festival-circulation/ /it/2012/gregor-beltzig-festival-circulation/#respond Sun, 04 Mar 2012 12:07:35 +0000 /?p=4511 Related posts:
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Fotografia di Gregor Beltzig

Da diverso tempo volevo andare al Festival Circulations, sperando che non andasse a finire come l’anno scorso, che per i soliti mille impegni me l’ero lasciato scappare.

Nella metropolitana sono talmente preso dall’ottimo libro di Keigo Higashino “Mukashi bokuga shinda ie” (non credo sia tradotto in italiano) che mi son lasciato scappare la fermata. Scendo quindi a Sablons e mi incammino verso il Bois de Boulogne. È una giornata grigia e nebbiosa, ma non troppo fredda. Arrivo ai primi alberi e mi rendo conto che è proprio qui dove qualche anno fa mi ritrovai per caso assieme ad una ragazza bellissima, un giorno fatto solo di sole e felicità. Proprio qui, dove fra un bacio e l’altro scattai quello che divenne il suo ritratto preferito, subito dopo un gelato mangiato in due dalla stessa coppetta, rubandoselo a vicenda con i cucchiaini di plastica colorata. Come al solito quando ricapito in un luogo speciale, mi guardo intorno cercando di trovare nei luoghi una qualche traccia tangibile della mia esperienza, un segno concreto al di là del mio ricordo giù un po’ appassito. Ma la primavera al Bois de Boulogne non è ancora arrivata e mi rispondono solo i tronchi grigi e muti degli alberi spogli.

Non ho voglia di prendere un pullman, quindi vado a piedi, facendo un po’ attenzione perché nel Bois de Boulogne non mi oriento benissimo e non voglio perder troppo tempo. Passo davanti al museo delle arti e tradizioni popolari, che sembra abbandonato, le scritte tutte scrostate, qualche barbone che dorme avvolto in diverse coperte sotto alla tettoia dell’ingresso. Un cliente entra nel furgoncino di una prostituta coperta solo dal classico vestitino a pelle di leopardo. Mi chiedo se è solo un po’ grossa, o se le cosce importanti e le spalle tradiscono il fatto che sia in realtà un travestito. Un personaggio strano attraversa le sterpaglie sorseggiando una birra. I corridori passano uno dopo l’altro sbuffando fra gli alberi ancora completamente spogli e grigi.

Il Parc de Bagatelles, che ricordo nei fasti floreali estivi completamente stracolmo di gente che mi rimandava con la fantasia alle folle della belle époque, è invece grigio e silenzioso. Ma l’atmosfera è dopotutto pacata e piacevole, non triste. Seguo le frecce che mi portano al festival circulations, guardo senza troppa emozione le prime 2-3 serie di fotografie esposte all’aria aperta e mi infilo nella galleria che espone la prima metà della mostra. Odore di vernice fresca e sottofondo di rumori incongrui tipici dei video d’arte. Poca gente in giro, cosa che permette di ben usufruire delle opere esposte.

Come al solito, buona parte dei lavori che vedo non mi entusiasmano o proprio non mi piacciono. Certo sono piuttosto ben realizzati, le serie sono coerenti in linea con la fotografia contemporanea, però spesso mi sembra che tutti questi grandi concetti siano in realtà un po’ troppo facilotti, che le associazioni mentali siano abbastanza scontate e mi chiedo se l’arte contemporanea di fatto ha poi talmente poco da insegnarci. Le stampe poi sono passabili ma niente di particolare, si vede che son state fatte apposta per il festival, probabilmente senza troppa supervisione e controllo dalla parte degli artisti.

Naturalmente non mancano i lavori interessanti. Le situazioni vagamente incongrue di Amélie Chassary e Lucie Belarbi, il coraggioso reportage fra le prostitute brasiliane di Vincent Catala, le deliziose fotografie americane in piccolo formato di Matt Wilson, la crisi dei trent’anni di Paweł Fabjański, e per finire i misteriosi paesaggi postindustriali ottenuti mischiando fotografia e 3d di David De Beyter.

E poi il mio preferito del Festival Circulations: la serie Mæt di Johansen Per. Foto in grande formato di diversi tipi di cibo crudo infilato e pigiato dentro delle piccole taniche e bottiglie di plastica trasparente. Pesci, salsicce, polli, verdure… L’effetto è disturbante e claustrofobico, tutto questo cibo compresso che viene fuori dal collo della bottiglia quasi come vomito a mala pena trattenuto. Una serie di fotografie che leva veramente l’appetito ed è una splendida e riuscitissima rappresentazione visuale della bulimia del consumismo occidentale. Veramente un livello sopra tutti gli altri lavori esposti.

Sto per andarmene e -come faccio spesso- rifaccio un giro rapido della mostra per fare un riassunto mentale delle fotografie esposte e ben fissare nella memoria i lavori che più mi son piaciuti. Ed ecco che in mezzo alla stanza noto una tavolino di legno che mi era sfuggito. Mi avvicino incuriosito a questo tavolino un po’ dimesso e dall’aria vagamente retrò. Sul tavolo sono posate delle scatolette metalliche, anche queste con un sapore di oggetto antico, il metallo tirato a nudo ma con una bella patina che sembra frutto del tempo. Piccole scatolette che misurano dai quattro, cinque centimetri di lato ad un massimo di una quindicina, in fondo alle quali è posata una fotografia, ricoperta da una specie di resina trasparente che la rende tutt’uno con la scatoletta che la porta dentro.

Dei veri e propri gioielli, bellissimi. In primo luogo la dimensione, questa piccola miniatura, che invita a chinarcisi sopra, a guardare da vicino, a tenerla fra le mani come si fa con gli oggetti preziosi. Poi l’effetto della resina trasparente, che -vagamente irregolare- aggiunge una dimensione tattile e fisica all’immagine, un effetto che ricorda certe proprietà fisiche delle tecniche antiche di stampa. Naturalmente i soggetti malinconici delle foto, vagamente onirici e terribilmente poetici. E poi questa cosa della scatola di metallo, il fatto che alcune sono chiuse a vanno aperte per poter guardare la foto che racchiudono all’interno, l’impressione di aprire un ricordo conservato in un luogo prezioso della mente, un segreto appena confessato. Mi arriva dritta in petto la stessa emozione che provai una delle primissime volte che ebbi la fortuna di ammirare delle splendide autochrome, piccole finestre aperte sul passato.

Mi guardo intorno per scoprire chi è l’autore di questa splendida opera, misto fra fotografia e installazione, mostra che sta tutta su un vecchio tavolino di legno. In un cassetto di questo un foglio trovo il nome che cercavo –Gregor Beltzig– e queste righe:

Le scatole dei sentimenti

Quando avevamo ancora fiducia l’uno nell’altro, scrivevo delle poesie per te,
parlando d’amore, parlando di risa, parlando di quello che sentivo.
Quando avevamo ancora fiducia l’uno nell’altro, ti ho fotto delle foto.
Le tue spalle, il tuo seno, le tue voglie caffellatte e i tuoi capelli.
Ma visto che ormai non ci son più legami fra noi
le parole mi restano bloccate in gola.
Adesso i sentimenti sfuggono dai miei occhi,
ed è così che grido la mia sofferenza al mondo.

Al che non ho più niente da dire, se non di correre a vedere quel tavolino e le sue scatolette riempite di poesia, perché le foto in sé, private della loro scatoletta, nonché nessuna riproduzione del tavolino renderanno mai la magia di quest’opera. Scatole dei sentimenti che mi fa ritrovare la fiducia e la passione nell’arte contemporanea. Un po’ come la mostra di Ville Lenkkeri, ogni tanto fra le tonnellate di masturbazioni cerebrali, lavori insulsi che si vorrebbe poter dimenticare subito, qualcosa di eccezionale lo si finisce per trovare.

Grazie Gregor Beltzig, grazie di cuore.

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Esposizione alla P(AF)3: Fiera d’Arte Parallax a Londra /it/2012/fiera-arte-parallax-londra/ /it/2012/fiera-arte-parallax-londra/#respond Sat, 11 Feb 2012 22:16:18 +0000 /2012/exposing-at-paf3-parallax-art-fair-in-london-2/ Related posts:
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Parallax: King’s Road, a Londra dal 16 al 18 February 2012.
Invito alla fiera d'arte Parallax
Please visit Esposizione alla P(AF)3: Fiera d’Arte Parallax a Londra for the full size image.

Settimana prossima esporrò alcune foto della serie demoni, blow-up e palazzi dell’anima durante la terza edizione della fiera d’arte Parallax.

P(AF) si terrà alla Chelsea Town Hall, in King’s Road, a Londra dal 16 al 18 February 2012. L’ingresso è libero.

Una bella occasione per ammirare dipinti, sculture e fotografie che provengono da ogni angolo del globo, per seguire qualche conferenza dell’interessante programma di incontri ed eventualmente per comprare qualche opera d’arte, il ricavato devoluto interamente all’artista. Proprio così , P(AF) non tratterà nessuna commissione sulle vendite!

Se per caso siete a Londra settimana prossima sarò felice di incontrarvi agli spazi MH17&MH18 della sala principale. Altrimenti, ecco una visita virtuale della mostra di Fabiano Busdraghi alla fiera d’arte Parallax.

Mostra virtuale delle foto di Fabiano Busdraghi: Demoni, Blow-up e Palazzi dell'Anima
Fabiano Busdraghi alla fiera d'arte Parallax
Please visit Esposizione alla P(AF)3: Fiera d’Arte Parallax a Londra for the full size image.
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Una foto dell’Antartide per l’acqua pubblica /it/2011/antartide-acqua-pubblica/ /it/2011/antartide-acqua-pubblica/#comments Tue, 24 May 2011 05:12:11 +0000 /?p=4455 Related posts:
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Fabiano Busdraghi Antartide Acqua Pubblica
Donazione per l'iniziativa Fotografi per l'Acqua Pubblica© Fabiano Busdraghi
Please visit Una foto dell’Antartide per l’acqua pubblica for the full size image.

Qualche tempo fa sono stato invitato a partecipare ad una mostra in favore del referendum sull’acqua pubblica, iniziativa a cui hanno aderito 60 fotografi fra cui grandi nomi della fotografia italiana come Gabriele Basilico, Gianni Berengo Gardin e Ferdinando Scianna.

Le fotografie verranno esposte e vendute domani, mercoledì 25 maggio 2011, dalle ore 15 alle ore 22, a Milano, presso lo Spazio Theca, in piazza castello n°5. La mostra resterà aperta un solo giorno, ma le fotografie rimarranno in vendita sul sito Fotografi per l’Acqua anche durante i giorni successivi. Il ricavato andrà interamente al Comitato Provinciale 2Sì per l’Acqua Bene Comune per sostenere la campagna per evitare che l’acqua venga privatizzata al referendum del 12 e 13 giugno 2011.

Personalmente ho partecipato con una fotografia del mio secondo viaggio in Antartide:

Le spoglie mortali di Larsen, Fabiano Busdraghi

Mare di Weddell, Antartide. 2007

Gran parte del ghiacciaio Larsen si è disintegrato fra il 1995 e il 2002. Nel 2002 il settore Larsen-B si frantumato nell’arco di qualche settimana, trasformando in una miriade di iceberg un enorme blocco di ghiaccio dello spessore di 200m su un’area di 3250km² (Superficie pari a quella occupata dall’intera Valle d’Aosta). Nel giro di qualche anno tutti questi iceberg, ultime spoglie mortali del grande ghiacciaio, si sono sciolti nell’oceano Antartico. Larsen-B era stabile da circa 12000 anni, essenzialmente la totalità dell’Olocene.

La fotografia è stampata in formato 30x45cm su carta Hahnemühle Photo Rag Baryta 40x55cm, edizione firmata e numerata, esemplare 3/15, ed è venduta al prezzo di 300€. Il ricavato sarà interamente devoluto per il sostegno del referendum.

L’iniziativa Fotografi per l’Acqua è stata ampiamente pubblicizzata, si legga per esempio l’articolo su Repubblica o sul Sole 24 ore. Per più informazioni invece sui miei viaggi in Antartide si prega di leggere l’articolo Fisica, avventura, poesia e fotografia in Antartide o visitare la pagina del portfolio sull’Antartide.

fotografi per l'acqua pubblica
Invito alla mostra Fotografi per l'Acqua Pubblica
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Paura sulla città: Paris Match, Patrick Chauvel e Michael Wolf alla Monnaie di Parigi /it/2011/paris-match-patrick-chauvel-michael-wolf/ /it/2011/paris-match-patrick-chauvel-michael-wolf/#respond Mon, 28 Feb 2011 14:10:25 +0000 /?p=4367 Related posts:
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Patrick Chauvel

La Monnaie de Paris organizza di tanto in tanto delle mostre di fotografia, come per esempio la grande retrospettiva dedicata a David la Chapelle di qualche anno fa. L’esposizione attuale si intitola “La paura sulla città” e ci sono andato quasi esclusivamente per vedere le fotografie di Patrick Chauvel, un bravissimo reporter di guerra nonché autore di un libro che mi piacque moltissimo.

In realtà la mostra è articolata in tre sezioni: immagini tratte dall’archivio di Paris Match, Google Street View di Michael Wolf e infine i fotomontaggi di Patrick Chauvel.

Paris Match

La prima sezione della mostra, che rappresenta forse la metà delle immagini esposte, è costituita dagli scatti dei fotografi della rivista Paris Match che hanno documentato vari avvenimenti tragici e violenti avvenuti a Parigi nel corso del tempo.

Le prime fotografie esposte sono riproduzioni di immagini della seconda guerra mondiale. Anche se Parigi non è mai stata bombardata, gli scatti sono eloquenti. Barricate che chiudono completamente una strada, dietro la quale sono schierati i nostri nonni in canottiera bianca, un elmetto sottratto a qualche caduto tedesco, sigaretta che pende dalle labbra, sguardo duro e deciso. E spesso, dietro le barricate, vengono immortalate dal fotografo anche coraggiose donne col fucile imbracciato. Alcune foto sono epiche e splendide, e in ogni caso tutte sorprendenti. Effettivamente nel panorama odierno, sembra incredibile pensare che l’altro ieri Parigi fosse ancora un teatro di guerra, che il quotidiano della gente fossero i soldati e le sparatorie, le retate naziste e i partigiani nascosti nelle catacombe.

La mostra continua con le foto, più o meno in ordine cronologico, di alcuni attentati terroristici che hanno avuto luogo a Parigi nei decenni successivi. Anche queste immagini sono impressionanti, fra l’altro probabilmente perché visivamente sono molto più vicine a noi, Parigi inizia a somigliare a quella che vedo tutti i giorni, alla città com’è oggi. Le foto intanto iniziano ad essere a colori, ed è una bella differenza rispetto all’astrazione del bianco e nero, alcune strade son cambiate pochissimo, le insegne dei negozi e le facciate di molti bistrot sono rimaste praticamente identiche a quelle delle fotografie.

Uno degli ultimi episodi violenti mostrati nella estratto dell’archivo di Paris Match è la rivolta che ebbe luogo nelle periferie di Parigi nel 2005, quando in seguito alla morte di alcuni giovani che si erano rifugiati in una cabina elettrica per sfuggire alla polizia, vennero registrate diverse notti di violenza nella periferia di Parigi. Un avvenimento che ricordo bene in prima persona, anche se in quel momento vivevo a Napoli leggevo comunque tutti i giorni Le Monde, e molte delle foto esposte qui alla Monnaie di Parigi mi erano familiari per averle già viste sui giornali di allora.

Michael Wolf

La mostra “Paura sulla città” continua con le “fotografie” di Michael Wolf ottenute riproducendo lo schermo del computer mentre sta navigando con Google Street View, fotografie già viste a Paris Photo e nella personale di Michael Wolf alla splendida Galerie Particulière.

Michael Wolf in questo momento gode veramente di un grande successo, le sue foto sono dappertutto, non solo a Parigi, alcuni amici infatti mi hanno detto di averle viste in diverse altre città. Sono contento per lui, perché è un tipo molto simpatico e perché fa degli ottimi lavori, anche se la qualità delle stampe a volte potrebbe essere migliore. Inoltre utilizzare Street View per “cacciare” immagini, ovvero fare il reporter in un mondo virtuale piuttosto che in quello reale è tutt’altro che una novità. Diversi artisti e fotografi hanno fatto la stessa cosa, e anche persone normali, senza nessuna ambizione artistica, sondano tutti i giorni Google Street View a caccia di immagini particolari, poetiche, strambe, ironiche e via dicendo. Per questo motivo lo statment scritto dal gallerista che sembra ricercare l’artisticità di queste immagini nel media utilizzato mi lascia un po’ freddo.

Trovo inoltre curioso che questa serie di fotografie sia stata inserita di una mostra dal titolo “Paura sulla città”, perché in queste immagini tutto percepisco salvo la paura. Nel testo di accompagnamento Michael Wolf sembra interrogarsi sulla questione della privacy, e la paura dovrebbe derivare dal sentirsi continuamente osservati e monitorati. Ma non mi sembra proprio vero che sia il caso di Google Street View. Certo, l’algoritmo che sfoca visi e targhe delle macchine non è ancora infallibile, e di tanto in tanto qualche persona rimane riconoscibile. Ma è auspicabile che nel corso del tempo l’algoritmo verrà migliorato al punto da nascondere l’identità di tutte le persone che si trovavano per strada quando la macchina di Google è passata da quelle parti. E poi Google Street View a mio avviso non è costruito come strumento di controllo, ma somiglia molto più ad un pratico servizio gratuito per gli utenti, mi sembra che in altri campi esistano metodi e protocolli cui siamo sottoposti di fatto molto più performanti e soprattutto inquietanti di questo.

Per queste ragioni mi sembra che le foto di Michael Wolf siano un po’ fuori luogo in questa mostra. Sia chiaro, come ho già scritto le immagini mi piacciono molto, ma non tanto perché si tratti di un utilizzo originale di un certo media, né perché mi incutano timore o mi facciano riflettere sulla fragilità della privacy. Quello che mi piace di queste fotografie è l’aspetto un po’ “retro” e romantico, i colori caldi e slavati, l’impressione di rivedere la città che ho conosciuto solo attraverso “Ultimo Tango a Parigi”, film di Bernardo Bertolucci che amo tantissimo. Quello che mi attira, oltre alla bellezza estetica intrinseca delle immagini, è questa visione particolare di Michael Wolf, il fatto che utilizzando uno strumento modernissimo, una tecnologia per molti versi all’avanguardia, si ricada invece nel passato, in un mondo che ricorda quasi i fotografi umanisti francesi tanto amati da tutti.

Patrick Chauvel

Patrick Chauvel è un fotografo che amo tantissimo, ed è la vera ragione per cui ho visitato la mostra “Paura sulla città” alla Monnaie de Paris. In generale non condivido minimamente la visione piuttosto diffusa secondo la quale i fotografi di guerra sono sciacalli della sofferenza a caccia di una visione pornografica della guerra. Al contrario ammiro molto i fotografi che lavorano nelle zone calde per il loro coraggio e il sacrificio che implica tale scelta, e voglio continuare a credere che le immagini belliche possano in qualche modo contribuire a cambiare il corso della storia e convincere l’opinione pubblica ad abbandonare la maggior parte delle posizioni interventiste. Patrick Chauvel incarna un po’ tutto questo, avendo attraversato la maggior parte dei conflitti armati degli ultimi quarant’anni ed essendo stato ferito innumerevoli volte, alcune anche in modo molto grave.

Patrick Chauvel è inoltre l’autore di uno splendido libro che qualche hanno fa lessi con grandissimo piacere traversando in nave l’oceano Atlantico dall’Islanda a Boston. Sky racconta una bellissima storia di amicizia nata durante la guerra del Vietnam, dove il fotografo, allora poco più che diciottenne, iniziò a seguire un gruppo di incursori a lungo raggio che operavano in territorio nemico. Uno di questi, il cui nome di guerra “Sky” ha dato il titolo al libro di Patrick Chauvel, era un mezzo sangue indiano nativo d’America, dagli occhi blu come il cielo e i lunghissimi capelli neri. La storia raccontata da Patrick Chauvel è incredibile e splendida, sorprendente e toccante. Oltre all’amicizia, la guerra e la morte, sono abbordati molti altri temi interessantissimi, per esempio la parzialità di un fotoreporter quando -in situazione estrema- si trova ad imbracciare un’arma invece di una macchina fotografica. Un libro veramente stupendo, che consiglio viviamente a tutti i lettori di Camera Obscura.

Con queste premesse è naturale che, appena saputo della mostra con le fotografie di Patrick Chauvel, ho fatto il possibile per andare a vederla il più rapidamente possibile. Incuriosito fra l’altro dal fatto che si tratta di fotomontaggi, che è una pratica considerata tabù dai fotogiornalisti. Il fotoritocco è infatti considerato accettabile nella fotografia d’informazione esclusivamente quando riguarda cromia e densità globale dell’immagine, senza che questo modifichi il messaggio dell’immagine. Tutti gli interventi per eliminare, aggiungere o spostare elementi delle fotografie, ad esclusione dell’eliminazione dei granelli di polvere sul captore, sono vietatissimi, pena anche il licenziamento del fotoreporter in questione, come ha insegnato qualche caso esemplare. Mi sembra quindi interessante che un fotografo come Patrick Chauvel utilizzi le fotografie del suo archivio per inserirle le scene di guerra in un contesto completamente diverso: Parigi.

I fotomontaggi di Patrick Chauvel consistono infatti nell’inserire parti di fotografie di scene belliche: esplosioni, cadaveri, carri armati, edifici danneggiati… in fotografie di famosi monumenti Parigini. Devo dire che i fotomontaggi, eseguiti da Paul Biota, un professionista di Photoshop, sono maledettamente ben fatti e quasi credibili, senza contare che le stampe sono molto grandi e il minimo difetto salterebbe subito agli occhi. L’effetto finale purtroppo è comunque un po’ “plasticoso”, nel senso che si vede subito -almeno per un occhio allenato- che qualcosa stona. Sembra di vedere una pubblicità, quelle dove la realtà viene pesantemente trasformata con Photoshop, e tutto sembra finto e irreale. Non che cerchi a tutti i costi la corrispondenza con il reale, anzi. Però questo look fra il commerciale e il pubblicitario non mi sembra adatto a questo tipo di immagini.

Ogni foto montaggio è accompagnato dalla stampa della fotografia originale, più in piccolo. Lo stesso Patrick Chauvel spiega che è fondamentale farlo, per evitare di mostrare la violenza gratuitamente. Il fotografo, in un video che precede le immagini, spiega anche le proprie intenzioni. Dice che lo shock visivo generato dalla visione di scene di guerra a Parigi deve spingere il visitatore a riflettere sulla fragilità della pace, sul fatto che non si tratta minimamente di un risultato acquisito, ma che bisogna lavorare continuamente per mantenerla e diffonderla nel resto del mondo.

Detto cosi non c’è niente da ridire. Il problema secondo me è che queste buone intenzioni -e fotografie come queste- possono esser facilmente strumentalizzate. Invece di usarle come monito, è facile ribaltarne i significati, utilizzarle per terrorizzare il pubblico, per mantenerlo nell’inquietudine e nella paura, con il risultato forse di mantenere la pace in Europa ma spostare la guerra in Afganistan o altrove. A Parigi la paura collettiva mi sembra già sufficientemente elevata: sacchetti della spazzatura trasparenti nella metropolitana e niente cassonetti nella città, scanner all’entrata dei musei, controlli lunghissimi agli aeroporti, telecamere ovunque e tutte le altre regole di sicurezza che conosciamo (e subiamo) tutti. E poi soprattutto l’atteggiamento della gente, sempre sul chi vive. Il tutto è sicuramente fatto in buona parte per proteggerci, ma allo stesso tempo sembra importante per chi tiene i fili del mondo mantenere un livello alto di paura, alimentare i sospetti e l’impressione di esser sottoposti a una minaccia continua. Gli Stati Uniti, come è stato per esempio mostrato da Michael Moore, hanno addirittura un sistema economico e sociale in buona parte basato sulle guerre e sulla paura. In questo contesto, temo che i fotomontaggi di fotografie di guerra di Patrick Chauvel nelle strade di Parigi possano essere facilmente strumentalizzati. Credo che in realtà lui lo faccia veramente in buona fede, ma il rischio che le fotografie vengano usate non per mantenere la pace, ma per giustificare gli interventi militari dei paesi occidentali, sia tutt’altro che trascurabile.

Critica

Sebbene “Paura sulla città” alla Monnaie de Paris sia un’esposizione interessante e alcune fotografie siano molto belle o addirittura eccezionali, devo dire che nel complesso la mostra non mi è piaciuta molto.

Innanzi tutto il materiale esposto è abbastanza scarso, nel senso che l’esposizione è costruita attorno a troppe poche foto e forse troppi pochi autori. Alla fin fine si fa il giro delle stanza in una mezz’ora al massimo, mentre il costo del biglietto d’ingresso è comparabile a quello di musei dove si puo facilmente trascorrere una giornata intera. Mi sembra impossibile credere che, oltre alle foto dell’archivio di Paris Match, solo due fotografi lavorino su un tema compatibile con quello scelto per la mostra, direi che una sei o sette sia il minimo necessario per organizzare una vera esposizione collettiva che sia allo stesso tempo interessante e coerente. Manca inoltre un apparato informativo veramente chiaro e esplicatorio. Per me che non ho vissuto gli attentati francesi degli anni settanta, sarebbe stato interessante e istruttivo avere delle spiegazioni storiche che permettano di piazzare le foto nel contesto di allora. Di fatto si va alle mostre per il piacere della fotografia ma anche per imparare qualcosa, e questa è purtroppo un’ottima occasione persa per istruire il pubblico.

Per quanto riguarda i due autori principali della mostra, come già scritto nelle due sezioni precedenti, nutro qualche dubbio sulla coerenza delle fotografie di Michael Wolf in questo contesto e temo che i fotomontaggi di Patrick Chauvel -di cui non amo la resa vagamente pubblicitaria- possano venir strumentalizzati ed usati per fini che non corrispondono necessariamente a quelli dell’autore.

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Autour de l’Extrême alla MEP e i dolorosi autoritratti di David Nebreda /it/2011/extreme-david-nebreda/ /it/2011/extreme-david-nebreda/#comments Tue, 08 Feb 2011 21:47:18 +0000 /?p=4354 Related posts:
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David Nebreda
© David Nebreda
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Poco prima della chiusura ho visitato la mostra Autour de l’Extrême alla Maison Européenne de la Photographie.

Ancora prima di leggere anche solo il nome dei fotografi esposti mi sono posto qualche domanda sul titolo della mostra. Parlando di immagini estreme vengono subito in mente fotografie scoccanti: morti violente, vittime della guerra, coprofagia, perversioni e fantasmi personali, pornografia e sesso esplicito, controversie, provocazioni artistiche e chi più ne ha ne metta. Per esperienza so che alla MEP di solito le mostre sono decisamente politicamente corrette, al punto da esser spesso noiose. È molto più frequente vedere fotografie “estreme” nelle gallerie d’arte moderna di Parigi piuttosto che in questo museo ampiamente frequentato dal grande pubblico. Già in partenza quindi ero un po’ prevenuto e mi immaginavo di vedere di tutto salvo immagini veramente “estreme”.

Joel-Peter Witkin
© Joel-Peter Witkin
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Fin dalla prima sala ho potuto confermare quest’impressione. Poi però ho capito che in realtà il senso dato alla parola “estremo” è inteso in modo molto più vasto rispetto a quello che ho delineato nel paragrafo precedente. Per esempio viene mostrata la famosa foto di Armstrong sulla luna, visto che è il luogo più lontano -non per niente si dice anche “più estremo”- dove l’uomo abbia messo piede. Oppure la fato di un neonato immediatamente dopo il parto, visto che i due “estremi” della vita sono appunto la morte e la nascita. O ancora diverse immagini di cerimonie religiose o mistiche, intendendo probabilmente il divino come -cerco di indovinare l’intenzione dei curatori della mostra visto che personalmente sono ateo e miscredente- come la sfera più alta e nobile cui aspira l’umanità.

Pierre Molinier
© Pierre Molinier
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Nonostante quindi la parola “estremo” vada inteso in senso molto vasto, moltissime delle fotografie esposte di estremo secondo me hanno veramente poco, se non che siano estremamente famose. Mi riferisco per esempio alle molte fotografie di nudo dei grandi maestri della fotografia scattate fra gli anni 50 e gli anni 80. Fotografie splendide, stampe superlative, ma francamente non riesco a trovare una giustificazione per inserirle nella mostra.

Andres Serrano
© Andres Serrano
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Alla fine sembra giusto che i curatori abbiano tirato fuori la maggior parte dei migliori pezzi della collezione permanente della MEP. È sempre un piacere vedere dal vivo tutte queste splendide immagini, la mostra ripercorre in modo notevole la storia della fotografia, l’interesse storico è evidente e la mostra è sicuramente piacevolissima per un pubblico non troppo esperto, ma francamente mi aspetterei qualcosa di più e ho l’impressione che quasi la metà delle immagini siano fuori tema. Questo può sembrare secondario, ma in realtà è un punto fondamentale. Per creare una vera mostra non è sufficiente tirar fuori quattro foto dei fotografi più noti della storia. Un curatore dovrebbe cercare di inventare un vero percorso, raccontare qualcosa, proporre una visione inedita, fare accostamenti che aprono la mente. Da questo punto di vista la mostra Autour de l’Extrême non mi pare sia completamente riuscita.

Ralf Marsault
© Ralf Marsault
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Nonostante quanto detto alcune fotografi sono perfettamente in linea con i contenuti: Joel-Peter Witkin, Andres Serrano, Pierre Molinier, Manuel Álvarez Bravo, Sebastião Salgado giusto per citare i più conosciuti. Di seguito altri fotografi un po’ meno noti, ma il cui lavoro -oltre ad avermi colpito in modo particolare- mi è sembrato perfettamente in linea con il tema della mostra.

Ralf Marsault, di cui ho ammirato un paio di mostre in passato, ritratte punk, strafattoni, vagabondi e ogni altro tipo di individui al margine della società contemporanea, con un bel bianco e nero in stile reportage impegnato. Si sente subito che si tratta del progetto di una vita.

George Dureau
© George Dureau
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Le fotografie di amputati di George Dureau sono veramente splendide. Stile elegante e curato delle foto di moda di un po’ di tempo fa, pulizia ed eleganza delle forme, ottime stampe in bianco e nero. Le persone ritratte hanno tutte subito amputazioni anche molto gravi, ma mostrano un’eleganza, una forza, un coraggio fuori dal comune. Tanto di cappello.

Raphaël Dallaporta ha invece fotografato le mine antiuomo come se fossero oggetti di consumo? Bella luce che fa brillare i colori come in una réclame e fondo nero che fa pensare a lusso e gioielli. Quando ci si rende conto che si tratta invece di strumenti di morte ci si vergogna di vivere in un mondo dove le guerre sono all’ordine del giorno. Ogni fotografia è corredata da una didascalia che illustra in maniera imparziale e precisa il funzionamento e gli effetti di ogni mina. La malignità umana non ha limiti, è terribile pensare che scienziati e ingegneri sfruttino il proprio sapere per inventare maniere sempre più raffinate ed efficaci per uccidere e ferire. Da quando ho visto queste foto non riesco a smetter di pensarci.

Raphaël Dallaporta
© Raphaël Dallaporta
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La vera scoperta della mostra Autour de l’Extrême sono però le fotografie di David Nebreda. Si tratta di un fotografo di cui non avevo mai sentito parlare, e di cui si trova pochissimo su internet. Malato di schizofrenia fin da giovanissimo, David Nebreda vive segregato in casa, dove pratica una vita di rinuncia quasi ascetica: totale astinenza sessuale, regimi alimentari strettissimi e lunghi digiuni che lo riducono ad un’estrema magrezza, senza esagerare rimane poco più che pelle ed ossa, come una vittima di un campo di concentramento. E poi automutilazioni, flagellazioni, tagli, incisioni, sanguinamenti… il tutto fotografato e messo in scena con scritte, riferimenti iconografici, oggetti curiosi ed eterogenei, esposizioni multiple, uso sapiente della luce e in generale della pratica fotografia. Le fotografie sono permeate da un non so che di religioso, forse i riferimenti all’arte sacra, forse ricordi delle persecuzioni dei martiri, forse la luce e le espressioni, la rappresentazione della tortura e della sofferenza umana. Ciò che è certo è che si respira qualcosa di trascendentale e sacro.

Ma soprattutto ciò che è toccante nelle fotografie di David Nebreda è sopratutto l’intensità terribile, sconvolgente di questi scatti (le immagini che accompagnano questo articolo sono fra le meno dure in assoluto). Non ho quasi mai visto nessuno riuscire a mettere a nudo tanto dolore e tanta sofferenza, solo la follia forse permette di spogliarsi di tutto, di andare veramente a fondo delle cose, ai propri spettri e appunto alla propria follia.

Fotografie che fanno male, ma impossibili da dimenticare.

David Nebreda autoritratto
© David Nebreda
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Antartide di Fabiano Busdraghi alla Fotogalerie im Blauen Haus, Monaco /it/2011/antartide-fabiano-busdraghi-monaco/ /it/2011/antartide-fabiano-busdraghi-monaco/#respond Sat, 05 Feb 2011 18:06:34 +0000 /?p=4340 Related posts:
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Fabiano Busdraghi Antartide invito
Invito della mostra "Antartide" alla Fotogalerie im Blauen Haus, Monaco di Baviera
© Fabiano Busdraghi
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Fra un paio di settimane esporrò una selezione delle mie foto in Antartide alla Fotogalerie im Blauen Haus, una galleria dedicata alla fotografia situata a Monaco di Baviera, Germania.

È possibile visitare l’esposizione dal 18 febbraio al 26 marzo 2011 (Martedì-Venerdì: 15:00-19:00 e Sabato 11:00-16:00). Per chi volesse parlare un po’ dell’Antartide, farsi raccontare qualcuno degli aneddoti dai miei viaggi o solo conoscermi di persona, sarò presente per l’inaugurazione il 18 Febbraio 2011 a partire dalle 19:00.

Fabiano Busdraghi Antartide poster
Il poster della mostra in Antartide
© Fabiano Busdraghi
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Ecco l’indirizzo e i contatti della galleria:

Fotogalerie im Blauen Haus
Schellingstraße 143
Ecke Schleißheimer Straße
80798 München | Maxvorstadt
Phone: 089 – 700 969 44
[email protected]
www.fotogalerie-im-blauen-haus.de

Esporrò un totale di 26 fotografie dai miei viaggi in Antartide, scelte per la maggior parte tra le immagini più astratte e minimaliste che ho scattato sul continente bianco. Per ulteriori informazioni sul mio viaggio in Antartide e questa serie di fotografie consiglio di leggere l’articolo che scrissi l’anno scorso: Fisica, avventura, poesia e fotografia in Antartide.

Fabiano Busdraghi mappa Antartide
Mappa e posizione delle foto on Antartide
© Fabiano Busdraghi
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In occasione della mostra ho preparato un poster con diverse mappe dei miei viaggi per aiutare i visitatori a localizzare le foto. La versione visualizzate in questa pagina è piuttosto piccola, ma se siete interessati potete scaricare un file più grande (0.8Mb): Mappa Antartide.

Per quanto riguarda le stampe, esporrò undici 30x45cm edizione di 15, undici piccoli 8x12cm edizione di 15, due 50x75cm edizione di 9 e una panoramica 23x82cm edizione di 15. Tutte le foto hanno 5 centimetri di carta bianca attorno all’immagine, la firma e il numero di edizione si trova sul retro, al livello del margine bianco inferiore. Le foto sono stampe a getto d’inchiostro (standard di archiviazione museale) su di una carta veramente bella: la Photo Rag Baryta della Hahnemühle. Somiglia molto ad una baritata tradizionale semilucida utilizzata in camera oscura (Di fatto contiene per davvero uno strato di barite).

Se apprezzate il mio lavoro in Antartide per favore parlate della mostra con i vostri amici. Potete anche riutilizzare tutte le immagini presenti in questa pagina. Grazie mille e spero di vedervi presto a Monaco.

Fabiano Busdraghi Antartide visita virtuale
Visita virtuale delle foto in Antartide
© Fabiano Busdraghi
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Gaza di Kai Wiedenhöfer, al Museo d’Arte Moderna di Parigi /it/2011/gaza-kai-wiedenhofer/ /it/2011/gaza-kai-wiedenhofer/#comments Mon, 03 Jan 2011 14:43:16 +0000 /?p=4276 Related posts:
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Kai Wiedenhöfer (5)
© Kai Wiedenhöfer
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Il mese scorso ho visitato -subito prima della chiusura- Gaza, la mostra di Kai Wiedenhöfer al Museo d’Arte Moderna di Parigi.

Ne ero venuto a conoscenza grazie ad un articolo parso su Liberation, che riportava anche l’occupazione dei locali del museo e le degradazioni perpetuate da un gruppo di estremisti israeliani. Questi infatti, considerando le fotografie esposte come propaganda antisemita, qualche giorno prima della mia visita, hanno invaso le stanze della mostra di Kai Wiedenhöfer impedendo l’esposizione durante qualche tempo. Senza contare poi che il Museo d’Arte Moderna non ha nemmeno citato l’esposizione sul suo sito, cosa di cui si lamenta lo stesso Kai Wiedenhöfer.

Inutile dire come sia scandaloso che possa anche solo avvenire qualcosa del genere, nessuno comunque dovrebbe cercare di mettere il bavaglio agli artisti né tanto meno ai giornalisti. Quello che però mi sembra interessante sottolineare è l’uso strumentalizzato dell’immagine, il ribaltamento totale di significati. Le motivazioni date dagli israeliani per non rispettare i trattati di pace vengono spesso accettate senza fare una piega da tanti rappresentanti delle potenze occidentali, mentre un lavoro come quello di Kai Wiedenhöfer, imparziale al punto da esser quasi glaciale, viene tacciato di propaganda.

Kai Wiedenhöfer (3)
© Kai Wiedenhöfer
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Le foto di Kai Wiedenhöfer infatti sono estremamente obiettive, come le didascalie che le accompagnano. Ritratti di persone che hanno subito ferite e menomazioni a causa della guerra e paesaggi di luoghi distrutti. Ritratti sempre frontali, inquadratura spoglia, sempre in interni, contro pareti quasi anonime, sguardo in macchina, foto in posa regolare e spoglia. Paesaggi che sembrano cataloghi di luoghi devastati, foto posate e studiate, estremamente regolari. Didascalie spoglie da ogni sentimento, che raccontano i fatti con glaciale precisione al punto di sembrare le istruzioni tecniche di qualche macchina industriale.

Le fotografie dei ritratti sono terribili. Le persone sono state quasi senza eccezione fotografate mesi o anni dopo esser state ferite, nel senso che portano e porteranno durante tutta la vita i segni dei traumi subiti, ma sono assenti le ferite o le ustioni fresche, che potrebbero essere ancore più impressionanti. Nonostante questo le menomazioni sono spesso gravissime, soprattutto quelle di cui sono vittime i bambini. Molti visitatori non riescono a completare la visita, qualcuno deve addirittura sedersi. La sofferenza, sebbene spogliata dalla componente più emotivamente diretta è evidente. Gli sguardi delle persone ritratte sono duri, durissimi ed è facile immaginare come persone che hanno subito tali attacchi possano avvicinarsi a posizioni estremiste, fino ad alimentare il terrorismo.

Kai Wiedenhöfer (4)
© Kai Wiedenhöfer
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Le foto dei paesaggi sono molto diverse. Sempre esterni, quasi sempre col sole, spesso con il mare che fa da sfondo. Si respira tranquillità e un’aria mediterranea di estate e di vacanze, peccato che tutti i soggetti fotografati portino i segni evidenti della distruzione. La maggior parte delle fotografie di Kai Wiedenhöfer mostrano tutte edifici devastati dai bombardamenti, fotografati sempre frontalmente, la macchina perfettamente in bolla. Nella maggior parte dei casi non rimane molto di più che un cumulo informe di macerie, blocchi di cemento dai quali spuntano lunghi tondini d’acciaio che fan quasi sembrare le rovine una scultura contemporanea. Una delle fotografie più impressionanti è quella dell’aeroporto internazionale di Gaza, un deserto da cui spuntano solo due torrette in rovina.

Nelle fotografie di Kai Wiedenhöfer si realizza un perfetto equilibrio fra giornalismo puro e duro e arte figurativa. Il tema di attualità, l’approccio oggettivo, la precisione delle didascalie e delle informazioni testimoniano tutti il desiderio di raccontare una realtà nel modo più chiaro e diretto possibile. Allo stesso tempo l’approccio in stile scuole di Düsseldorf, l’alternanza di ritratti e paesaggi, la quasi astrazione delle rovine sono perfettamente in linea con la fotografia d’arte contemporanea. Inoltre questa dualità dell’opera si iscrive in una dedizione totale di Kai Wiedenhöfer alla sua causa. Il fotografo infatti ha deciso di imparare l’arabo in modo da poter interagire direttamente e umanamente con le persone che ritrae, per potersi far raccontare la loro storia. Ha vissuto diversi anni a Gaza, dove torna ancora regolarmente. Si sposta in moto, alla ricerca di persone e luoghi da fotografare, e posso solo immaginare a mala pena le difficoltà e i rischi che possano derivare da un simile approccio.

A questo punto è per me inevitabile scrivere due parole a proposito della questione etica. Molti critici e opinionisti si lamentano della fotografia di guerra, la considerano pornografica, e lesiva della dignità umana. Ma da dove viene questa idea che la sofferenza vada nascosta perché altrimenti non si rispetta la dignità umana? Ciò che offende la dignità umana sono le guerre, non i fotografi che rischiano la vita per raccontarle. Non rispetta la dignità umana chi non mostra sui quotidiani fotografie come quelle di Kai Wiedenhöfer perché potrebbero “urtare la sensibilità dei lettori”. Ma come dicevo in Adriano Sofri: scegliere di aprire gli occhi alla realtà, che venga urtata e sconvolta la sensibilità dei lettori, nella loro comodità e sicurezza, che abbiano incubi e non possano più levarsi queste fotografie dalla testa, e che se ne ricordino quando votano o quando condividono posizioni interventiste.

Kai Wiedenhöfer (2)
© Kai Wiedenhöfer
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Infine, anche la presentazione delle fotografie di Kai Wiedenhöfer essa stessa interessante, e vale la pena sottolinearlo. Le foto di ritratti sono alternativamente orizzontali o verticali, i paesaggi invece orizzontali o panoramici. I formati variano a seconda delle foto, ma l’altezza dell’immagine è sempre di circa 70cm in modo che una volta affiancate le fotografie si ottenga un fascio continuo di fotografie tutte della stessa altezza, cosa che dona una straordinaria unità all’alternanza di ritratti di feriti e foto di edifici distrutti. Ogni foto inserita in una sottile cornice dipinta di bianco ma che lascia ancora intravedere le venature del legno. Stampe tecnicamente di qualità decisamente buona, superiore alla norma per gli standard del giornalismo. Insomma, è evidente la cura dei dettagli e della presentazione, lo studio della disposizione, dei formati, dei dettagli, cosa che purtroppo accade più raramente del dovuto.

Insomma, Gaza di Kai Wiedenhöfer è una mostra da non perdere. Immagini numerose, sensibilità e attualità dei temi trattati, perfetto equilibrio fra giornalismo e arte, onestà intellettuale del fotografo, coinvolgimento personale al punto da determinare profondamente la vita stessa dell’autore, presentazione studiata e interessante, cura dei dettagli.

Kai Wiedenhöfer (1)
© Kai Wiedenhöfer
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Tendenze confermate a Paris Photo 2010 /it/2010/paris-photo-2010/ /it/2010/paris-photo-2010/#comments Mon, 29 Nov 2010 19:34:54 +0000 /?p=4233 Related posts:
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Paris Photo Nadav Kander
© Nadav Kander
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Mi sono appena riletto l’articolo dedicato a Paris Photo 2008 e mi sono reso conto che -al contrario di quanto ricordavo- l’anno scorso invece non ho scritto niente, probabilmente complici i mille impegni in cui riesco sempre a ficcarmi. Quest’anno mi sembra invece un bene scrivere di nuovo qualche linea su Paris Photo, uno degli eventi più importanti fra le esposizioni di fotografia non solo a Parigi, ma nel mondo.

Le impressioni di massima sono simili a quelle di un paio di anni fa, ma vale la pena ripeterle. Questo però non deve trarre in inganno, non si deve interpretare questa frase come un certo immobilismo di Paris Photo. Al contrario, ho l’impressione che le tendenze che si iniziavano appena a delineare un paio di anni fa, si sono confermate nel tempo per acquistare sempre più carattere e influenza, insomma, quella che era una vaga impressione adesso è diventata tendenza stabilita. Vale quindi la pena di sottolineare le impressioni di massima riguardo a Paris Photo 2010.

Paris Photo Sze Tsung Leong
© Sze Tsung Leong
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Sempre più estetica a Paris Photo

Primo punto da sottolineare è la bellezza delle opere esposte. Nelle gallerie di Parigi spesso si vedono lavori concettualmente interessanti (ma siamo proprio sicuri che sia sempre il caso?) ma esteticamente deludenti. A Paris Photo per fortuna si vede tanta “bella fotografia” e devo dire che ogni anno la tendenza è sempre più evidente, nel senso che sempre di più le opere esposte e vendute sono esteticamente ottime. Questo vale tanto per le foto antiche che per quelle contemporanee e si spiega probabilmente pensando al fatto che Paris Photo è una specie di supermercato della foto d’arte, una fiera dove l’interesse commerciale è preponderante. Allo stesso tempo sono forse sempre più abituato all’estetica dell’arte contemporanea, non che questo mi porti a trovare tutto indifferentemente bello, ma semmai sono più ricettivo rispetto ad una certa forma di bellezza moderna.

Paris Photo Ruud Van Empel
© Ruud Van Empel
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Sempre più getto d’inchiostro a Paris Photo

Le stampe sono globalmente di livello superiore a quelle dell’anno scorso e degli anni precedenti, anche se in certi casi ancora una volta si poteva fare meglio con un piccolo sforzo in più. Le pecche sono sempre le solite: ingrandimenti troppo spinti, file troppo lisci (assenza di grano) e “digitali”, sharpness eccessivo, ritocco grossolano, etc. In ogni caso si tratta per fortuna di una minoranza, il livello globale è decisamente alto -con qualche stampa veramente favolosa- e decisamente meglio degli anni precedenti.

Paris Photo
© Nadav Kander
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Da quando sono andato per la prima volta a Paris Pohoto, ovvero 5 o 6 anni fa, sono aumentate tantissimo le stampe a getto d’inchiostro rispetto alle lambda ed ai diasec. Il livello medio delle stampe inkjet è incomparabile rispetto a quello di pochi anni fa, ed a mio giudizio ormai è anche nettamente superiore alle stampe lambda e in certi casi anche a quelle analogiche, se non altro per la grandissima varietà di supporti e tecniche che offrono ai fotografi veramente l’imbarazzo della scelta. I diasec, salvo eccezioni, mi piacciono sempre meno, troppi riflessi sull’immagine e effetto troppo “plastico”. La sensazione è che i diasec siano ormai superati un po’, dopo esser stati lo stato dell’arte negli anni 90 e nel primo decennio del nuovo secolo stanno ormai cedendo sempre più spazio ai loro successori: le stampe a getto d’inchiostro.

Paris Photo
© Antoine D'Agata
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Sempre meno sesso a Paris Photo

Altre tendenza che si riconferma è l’assenza quasi totale di sesso e pornografia, della quale ho già ampiamente parlato (Si veda per esempio l’autonegazione della pornografia nell’arte contemporanea). A Paris Photo 2010 sono sparite quasi del tutto le già poche opere a contenuto sessuale. Il nudo, sebbene ancora presente, è pure lui un poco in declino, soprattutto il nudo adolescenziale o infantile, vero e proprio tabù dei nostri giorni. L’ironia della sorte è che le gallerie vintage o quelle degli anni 50-70 espongono spesso foto molto più osé delle gallerie d’arte contemporanea! L’unica foto porno che ho visto fra le migliaia di foto esposte a Paris Photo è un piccolo bianco e nero degli anni 60 di Hans Bellmer. Per il resto, praticamente le uniche foto a sfondo sessuale sono qualche flou di Antoine D’Agata o di Eric Rondepierre in cui di fatto di pornografico non resta niente di niente. Anche i nudi in generale sono poco provocatori e iconoclasti, almeno rispetto a quelli che si vedevano anche solo un paio d’anni fa. Tanto per dirne una: quasi niente Araki, Witkins o Serrano, autori maggiori ampiamente presenti a Paris Photo qualche anno fa.

Paris Photo Eric Rondepierre
© Eric Rondepierre
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Resta comunque da dire che quest’anno erano quasi completamente assenti anche le allusioni un po’ perbeniste alla pornografia, dove si dichiara di esplorare l’universo del sesso ma in realtà facendo di tutto per nasconderlo. Alla fine che il sesso sia un po’ assente dalla fotografia d’arte contemporanea mi stupisce un po’ ma non mi disturba poi tanto. Quello che mi irrita sono le allusioni politicamente corrette. Quindi quest’anno direi che da questo punto di vista è andata meglio che in passato.

Paris Photo Michael Wolf
© Michael Wolf
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Vecchie conoscenze a Paris Photo

Uno dei fotografi più esposti in assoluto è Michael Wolf. Questa cosa è un po’ stupefacente perché non è che sia un autore conosciutissimo, ma ne sono comunque contento perché le sue foto di palazzi cinesi sono favolose e perché Michael è una persona molto gradevole e simpatica che merita il successo di cui gode attualmente. Le ultime serie di fotografie su google street view e le persone compresse nella metropolitana giapponese non sono malaccio. Peccato in generale per le stampe, a mio giudizio da sempre un po’ deboli tecnicamente.

Il bravo Ruud Van Empel (già intervistato su Camera Obscura) è riuscito a reinventarsi restando comunque perfettamente all’interno del suo stile e della tematica che esplora ormai da anni. Stampa gigantesca impeccabile e immagine molto piacevole.

Paris Photo Erwin Olaf
© Erwin Olaf
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Erwin Olaf e Vee Speers, da sempre fra i miei fotografi preferiti a Paris Photo, si riconfermano come due grandi nomi della fotografia. Su Erwin Olaf non scriverò niente per non dire banalità, ma le sue foto à mezza via fra moda e depressione sono veramente stupende. Tecnicamente, tanto per la foto in sé che per la stampa, fra le migliori in assoluto di Paris Photo e più in generale di tutte quelle viste in giro negli ultimi anni. L’ultima serie di Vee Speers, pur essendo ben realizzata e intesa, invece è troppo kitch per i miei gusti e mi piace veramente meno dei suoi lavori precedenti. Peccato! Anche la nuova serie di Edward Burtynsky è deludente, nettamente inferiore alle splendide foto degli ultimi anni.

Paris Photo Nadav Kander
© Nadav Kander
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I migliori a Paris Photo

Il mio fotografo preferito in assoluto a Paris Photo 2010 è Nadav Kander. Conoscevo già i suoi lavori avendoli visti diverse volte su internet, ma dal vivo è tutta un’altra cosa. La serie di fotografie scattate seguendo il fiume giallo in Cina è veramente ottima.

Splendide atmosfere un po’ tristi e malinconiche, lavoro a metà strada fra il reportage e la fotografia personale. Scatti modernissimi tanto per i contenuti che per le inquadrature ma esteticamente apprezzabilissimi. Stampe perfette, senza il minimo difetto. Insomma, solo superlativi per Nadav Kander, secondo il sottoscritto miglior fotografo a Paris Photo 2010.

Squisiti anche gli orizzonti di Sze Tsung Leong, che è stato di recente al centro di una storia di plagio o più in generale di similitudini nel mondo dell’arte1.

Paris Photo Edgar Martins
© Edgar Martins
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Edgar Martins è un fotografo che conoscevo già, ma i suoi lavori precedenti non mi entusiasmavano molto. L’ultima serie invece è veramente notevole. Si tratta di foto notturne scattate in una riproduzione di città a dimensioni reali (tipo il set di un film) costruita per l’addestramento delle forze dell’ordine. Nelle foto si oscilla continuamente fra impressione di reale e irreale, tanto che mi chiedevo se non si trattasse di collages fatti al computer, e quello che è geniale è proprio il rimettere in discussione la pratica fotografica e la rappresentazione dal vero.

Paris Photo Naoya Hatakeyama
© Naoya Hatakeyama
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Naoya Hatakeyama ha realizzato una serie di fotografie notturne in bianco e nero di luoghi moderni illuminati al neon. Le fotografie per inquadratura, realizzazione, dimensioni etc sono abbastanza classiche, dei piccoli bianchi e nero analogici montati dietro un passprtout. Quello che cambia è che le stampe sono fatte si in camera oscura, ma su un materiale traslucido con una piccola scatola luminosa nascosta dietro la stampa. Il risultato è che i neon sembrano emettere veramente luce. Una splendida associazione di nuovo e antico, tradizionale e innovativo, assolutamente spiazzante.

Paris Photo Adam Magyar
© Adam Magyar
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La particolarità delle fotografie di Adam Magyar è che sono realizzate registrando in continuo l’informazione che passa su una banda di un pixel. Praticamente le immagini sono un modo per registrare il movimento (solo gli oggetti che si muovono sono visibili) e il tempo, che viene “spalmato” orizzontalmente sulla fotografia. Quello che è entusiasmante è pensare che le persone ritratte non si sono mai trovate nella configurazione rappresentata. Ottimo lavoro! La nuova serie sui treni, realizzata nello stesso modo, mi piace molto perché è più pulita dal punto di vista formale, ma è un peccato che -se non si sa come le fotografie sono state realizzate- l’immagine in sé è meno intrigante delle foto dei passanti.

Paris Photo Adam Magyar
© Adam Magyar
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  1. Alcune foto di David Burdeny effettivamente non solo sono estremamente simili a quelle di Sze Tsung Leong ma sono state scattate esattamente dalla stessa posizione.
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Jens Olof Lasthein alla Petite Poule Noire /it/2010/jens-olof-lasthein-petite-poule-noire/ /it/2010/jens-olof-lasthein-petite-poule-noire/#respond Tue, 09 Nov 2010 10:53:00 +0000 /?p=4084 Related posts:
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Jens Olof Lasthein (2)
© Jens Olof Lasthein
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Fra i contributi esterni pubblicati su Camera Obscura, White Sea Black Sea di Jens Olof Lasthein è in assoluto uno dei miei preferiti, tanto per quanto riguarda la bellezza delle panoramiche che per le fantastiche storie di viaggi che vi sono raccontate.

La gallerie Petite poule Noire è anche lei fra le mie preferite a Parigi. Discreto spazio ben gestito, fra l’elegante e il casual urbano, ma soprattutto gentilezza e simpatia del collettivo che l’ha recentemente creata, ragazzi giovani e appassionati con i quali mi sembra di poter dire che condivido una certa visione della fotografia.

Sabato scorso non potevo quindi perdermi il vernissage della mostra di Jens Olof Lasthein alla Petite Poule Noire, ottima occasione per riunire una galleria e un fotografo fra i miei preferiti.

Nonostante conoscessi quasi tutte le fotografie esposte, vederle dal vivo è comunque tutta un’altra cosa. Fra l’altro la dimensione delle immagini esposte permette ancora di più di godere della molteplicità di piani presenti nelle panoramiche di Jens Olof Lasthein. Al di là della bellezza delle immagini e del documento sulla vita nei paesi dell’est, sono infatti terribilmente affascinato da come Jens Olof Lasthein riesca a includere molteplici e disparati elementi nella stessa immagine, come se invece di scattare una sola fotografia ne avesse messe due due, tre o anche quattro nella stessa immagine. Ecco quindi che nella stessa foto si trovano diversi elementi che dialogano fra loro ma che potrebbero anche essere separati, obbligando lo spettatore a vagare nell’immagine, consentendogli dei via vai continui fra l’unità della fotografia e la molteplicità degli elementi che la compongono. Certo è una prerogativa delle immagini panoramiche, ma devo dire che Jens Olof Lasthein la sa sfruttare in modo magistrale.

Jens Olof Lasthein (3)
© Jens Olof Lasthein
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Per quanto riguarda la qualità delle stampe, dettaglio cui sono particolarmente sensibile e spesso punto dolente delle esposizioni cui assisto, niente di particolare a segnalare, ma giudizio complessivamente positivo. Nel senso che le stampe non mi hanno fatto urlare di stupore, ma anche che non c’è nessun difetto particolare che disturbi la visione delle immagini. Al contrario, la qualità è discreta, mettendole sopra la media delle mostre che ho occasione di vedere.

Pollice alto anche per la gestione del vernissage da parte dei ragazzi della Petite Poule Noire. Tanto per dirne una, invece del solito champagne con i vari stuzzichini e/o patatine e noccioline, hanno comprato un bel pezzettone di formaggio, un buon Compté di ottima qualità, con delle belle baguettes tradition e della buonissima uva. Un più che discreto vino bianco d’Alsazia, fresco e fruttato, Perrier o succo di frutta per gli astemi. A parte che personalmente non mi piace lo champagne e detesto patatine e salatini vari, il buffet era veramente simpatico, unendo semplicità e qualità, in uno stile cui aderisco completamente.

Per finire, Jens Olof Lasthein è veramente una persona simpatica, ed è stato un vero piacere poterlo finalmente incontrare di persona e scambiare quattro parole con lui.

Jens Olof Lasthein (1)
© Jens Olof Lasthein
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L’eccesso di effetti speciali a Photoquai 2009 e due perle cinesi di rara bellezza /it/2009/photoquai/ /it/2009/photoquai/#comments Mon, 19 Oct 2009 04:02:46 +0000 /?p=2313 Related posts:
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Lu Guang

Anche quest’anno, come ho fatto in occasione della scorsa edizione, ho visitato Photoquai, la biennale di immagini consacrata alla “fotografia non occidentale”.

Due anni fa scrissi che la mostra mi era sembrata una sorta di trionfo dell’accademismo moderno, e che solo pochi autori si discostavano da una media complessivamente deludente e lavori fondamentalmente manieristici. Anche quest’anno l’impressione generale è piuttosto negativa. Nella recensione di Photoquai 2009 pubblicata sul suo ottimo blog eyecurios, Marc Feustel arriva a conclusioni analoghe alle mie:

Il pericolo di festival organizzati per rappresentare la “fotografia non occidentale” è che i lavori vengano scelti per corrispondere a ideali occidentali esoticizzati, ovvero di ritrovarsi con una collezione di reportage fotogiornalistici sulla povertà e le privazioni del terzo mondo. […] La maggior parte dei lavori era da dimenticare, e alcuni fotografi presentati dovrebbero essere citati in giudizio per crimini di Photoshop contro la fotografia.

Condivido almeno in parte la prima critica, ma soprattutto mi trovo perfettamente in accordo per quanto riguarda il resto della citazione: la maggior parte dei lavori esposti sono anche a mio vedere veramente di scarso interesse e piuttosto amatoriali. Inoltre, come ho sottolineato l’anno scorso, l’impressione generale è che a Photoquai vengono privilegiate fotografie “ad effetti speciali”. Che si tratti di ritocco con Photoshop, dell’uso delle toycamera, o di una qualunque altra tecnica di ripresa o di elaborazione non ha poi molta importanza. Il punto è che nella maggior parte dei casi la tecnica diventa autoreferenziale, diventando l’unica giustificazione dell’immagine. Per un pubblico inesperto le immagini possono sembrare stupefacenti, ma se si ha un minimo di cultura fotografica ci si rende immediatamente conto della “facilità” di molti lavori presentati.

Julio Bittencourt
© Julio Bittencourt
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Oltre a questo eccessivo peso della tecnica sul contenuto, alcune fotografie ripropongono per l’ennesima volta idee veramente trite e ritrite, viste e riviste fino alla nausea, ed è veramente incredibile che fotografie così poco innovatrici vengano proposte in una festival parigino di prestigio. Basta citare i paesaggi che sembrano modellini di Esteban Pastorino Diaz o alle foto in cui Mouna Karray si sostituisce ad altre persone (lavori che varrebbe la pena aggiungere alla lista accennata in L’ironia del nuovo, fra tradizione e innovazione).

Infine, come sottolineato da photoculteur, se si desidera visitare la totalità del festival, senza limitarsi all’esposizione sul Quai Branly, la cifra da sborsare è decisamente eccessiva, molto più elevata di festival fotografici di vero spessore e fama incontestabile.

Nonostante quest’impressione negativa di fondo, come l’anno scorso molte fotografie di Photoquai valgono la pena di essere viste, ed è presente anche qualche piacevole scoperta, fra cui un paio di perle di rare bellezza. Ho molto apprezzato il reportage di Ilan Godfrey, per la durezza e sincerità dello spaccato di vita che riproduce, le fotografie misteriose e ben curate delle messe in scena di Gohar Dashti, dove una giovane coppia è colta in situazioni surreali e alienanti, le finestre scure e popolari di Julio Bittencourt, le belle immagini in bianco e nero dei ghiacci polari scattate da Joyce Campbell, così diverse dall’Antartide a colori che siamo abituati a vedere. Altri autori di livello sono: Pierrot Men, Daniela Edbourg, Masato Seto, Abbas Kowsari. Infine una piacevole sopresa è stata (ri)trovare le foto di Myrto Papadopoulos.

I miei due fotografi preferiti di Photoquai sono però due autori cinesi: Lu Guang e A Yin. Il primo, nonostante qualche sospetto di autenticità delle immagini che circola su Internet, è un fotogiornalista indipendente pluripremiato per le sue fotografie che di fatto trovo veramente intense e spettacolari. Tutto l’opposto rispetto alla maggior parte dei fotografi esposti a Photoquai: la tecnica oltre ad essere impeccabile è finalmente al servizio della fotografia, e quello che fa la qualità dell’immagine è soprattutto l’eccezionalità dei luoghi e delle situazioni, unite alla forza dello sguardo di Lu Guang, e non qualche effetto speciale di pessimo gusto. Stessa qualità elevatissima e stesso discorso vale per A Yin, che firma uno splendido reportage sugli ultimi nomadi mongoli. Un bianco e nero certamente classico ma perfettamente funzionale alla rappresentazione di questo mondo pittoresco e purtroppo in declino. In ogni caso -al di là dell’interesse puramente etnografico- alcune fotografie sono di un’intensità e forza indimenticabile.

Alla fin fine, bastano questi due fotografi per dirsi che la visita a Photoquai valeva la pena.

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Qualche critica sulla mostra di David la Chapelle a la Monnaie de Paris /it/2009/david-la-chapelle-paris/ /it/2009/david-la-chapelle-paris/#comments Fri, 27 Feb 2009 21:30:42 +0000 /?p=1075 Related posts:
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David la Chapelle
© David la Chapelle

Sono appena tornato dalla mostra di David la Chapelle alla Monnaie de Paris e devo ammettere che per certi versi sono rimasto piuttosto deluso.

Delle fotografie di la Chapelle non voglio parlare, perché è un autore che ho sempre apprezzato e in media mi sono piaciuti tutti i lavori che ho visto alla mostra, anche quelli più recenti che non conoscevo. La Chapelle è un fotografo che viene spesso accusato di non essere troppo originale, di ispirarsi in maniera eccessivamente direttamente alla cultura pop, o per esempio a Witkin per quanto riguarda i suoi quadri popolati da una moltitudine di paesaggi. Sebbene queste critiche siano in parte condivisibili, personalmente ho sempre ammirato le immagini dai colori elettrici di la Chapelle, i suoi ritratti stridenti, la presenza ricorrente di un nudo sfacciato e aggressivo, l’inventiva infinita che dimostra nelle sue foto.

Le fotografie viste a la Monnaie de Paris, anche se in buona misura le conoscevo già, non fanno che confermare queste mie impressioni, anche se devo ammettere che i ritratti un po’ folli delle varie star americane sono secondo me ancora più riusciti dei lavori recenti e più personali. Insomma, giudizio positivo per quanto riguarda i contenuti delle immagini. In questo breve articolo mi concentrerò allora su due aspetti più puramente tecnici: la stampa e la mostra stessa, due aspetti che mi hanno lasciato non completamente soddisfatto.

David la Chapelle
© David la Chapelle

So benissimo che quello che conta maggiormente in fotografia è l’immagine in sé, indipendentemente dai dettagli tecnici della stampa. I lettori che leggono regolarmente Camera Obscura sanno benissimo che critico aspramente chi giudica della qualità di una fotografia solo in base alla nitidezza, la gamma tonale e le altre caratteristiche tecniche dell’immagine generalmente considerate positive, caratteristiche che vengono elevate a dogmi indiscutibili e inattaccabili. Ma è anche vero che, tanto la stampa quanto il modo di presentarla, possono essere parte integrante dell’immagine fotografica intesa nella sua totalità.

David la Chappelle ha sicuramente i mezzi economici e umani (basta vedere le decine di assistenti che si affollano sui suoi set) per ottenere il massimo del massimo. E allora un peccato notare che i lavori esposti in questa retrospettiva sono di qualità disomogenea, soprattutto quando ogni tanto qualche stampa spicca fra le altre per bellezza e perfezione, mostrando chiaramente a che livelli è possibile arrivare, e facendo miseramente sfigurare quelle meno riuscite. Questo infatti mostra chiaramente come la perfezione tecnica sia di fatto raggiungibile e -almeno in certi momenti del suo percorso artistico- abbia avuto un peso importante nella visione artistica dell’autore.

David la Chapelle
© David la Chapelle

Per esempio, la famosa e splendida foto di Courtney Love “la pietà”, era stampata molto molto grande, direi all’incirca due metri per tre. È una fotografia che mi piace tantissimo, tanto per la messa in scena che per le idee che sottende, quindi ribadisco che nel seguito mi riferisco unicamente alla stampa e non all’immagine in sé. È stata una grande delusione avvicinarsi e notare la pesante perdita di dettaglio, gli evidenti artefatti digitali, addirittura la pixellizazione nelle diagonali degli elementi. Fra l’altro questo è un genere di foto dove, a mio giudizio, il dettaglio e la perfezione tecnica apportano comunque qualcosa all’immagine e la stampa è a mio gusto veramente deludente. Dal video del backstage mi pare che la Chapelle scattasse con una Hasselblad digitale. Mi verrebbe da dire che poteva stampare un po’ più piccolo oppure, se il formato così grande era veramente un punto fondamentale, scattare con una grande formato a pellicola e poi scansionare il negativo. Oppure aggiungere un bel grano per coprire i difetti e creare della materia, sono persuaso che un grano come quello che ho descritto in l’ingrandimento digitale avrebbe notevolmente migliorato la qualità di stampa.

David la Chapelle
© David la Chapelle

L’impressione negativa poi è rafforzata dal confronto con le varie stampe delle fotografie di vip scattate durante gli anni novanta, davvero stupende. Nella maggior parte dei casi si vede subito che sono foto analogiche, tanto per la bella grana, che per la mancanza di artefatti come color fringing, aloni e pixellizzazioni che rovinano alcune delle fotografie recenti. Certo, le stampe sono “più piccole”, quindi in un certo senso più facili; ma la cromia, il dettaglio e la “pasta” della foto sono splendide. I lettori di Camera Obscura sanno anche che adoro la fotografia digitale e che non penso che questa sia inferiore a quella analogica (anzi, ormai l’ago della mia bilancia pende più verso l’altro lato), ma non posso fare a meno di constatare che nel caso di David la Chapelle, i suoi lavori su pellicola mi sembrano migliori. Restan poi fuori una serie di lavori che non riesco a indovinare se sono digitali o analogici, ma di ottimo livello, che trovo perfettamente soddisfacenti. Credo comunque che -per quanto riguarda le foto in digitale- con una postproduzione più attenta sarebbe stato possibile ottenere un risultato decisamente migliore, ed è proprio questo fatto che mi ha fatto un po’ dispiacere e mi ha portato ad un po’ di disillusione nei confronti della mostra.

Oltre alle caratteristiche tecniche delle stampe, sono rimasto un po’ insoddisfatto a causa di un paio di punti negativi dell’esposizione, questi non attribuibili a David la Chapelle, ma unicamente al museo.

In primo luogo, dopo la prima bella sala, ampia e spaziosa, le stanze si fanno via via sempre più strette ed anguste, ed è difficile godere delle stampe facendo la coda pressati dalla folla, senza potersi spostare a piacimento, senza potersi avvicinare e allontanare, ma facendosi trasportare dal flusso di visitatori. Ho evitato apposta i fine settimana, ma nonostante questo le sale erano troppo piccole e affollate, uno spazio più ampio e con più respiro sarebbe stato certamente preferibile.

David la Chapelle
© David la Chapelle

Secondo punto negativo -incredibile ma vero- tutti i vetri che proteggevano le stampe erano piuttosto sporchi, a volte sporchissimi. La splendida foto di David Bowie per esempio aveva sul vetro delle incrostazioni grigie di diversi centimetri quadrati, che ricoprivano interamente i due angoli inferiori dell’immagine. Non riesco a capire come sia possibile presentare delle foto sporche in questo modo. Qualche ditata passi, ma c’è comunque un limite al ragionevole.

Infine, nonostante siano esposte almeno un centinaio delle fotografie di David la Chapelle, si ha la spiacevole impressione che le foto esposte siano veramente troppo poche. Quando si pensa di essere ancora all’inizio della mostra si scopre che invece ci si trova già nell’ultima stanza, subito prima dell’uscita. Fra l’altro, appena fuori da questa, si entra nella boutique del museo, dove vengono beffardamente vendute centinaia di cartoline e poster di foto non presenti nella retrospettiva. Anche sfogliando il catalogo della mostra si notano subito con rammarico le decine e decine di fotografie presenti nel libro ma non sui muri del museo, ed è terribilmente frustrante doverle guardare nelle riproduzioni del catalogo e non poterle ammirare dal vero. Quest’impressione di essere un po’ presi in giro e di aver visto molte meno fotografie di quello che sarebbe stato possibile è particolarmente spiacevole, è mi ha guastato la visita. Opinione fra l’altro condivisa dalle 4 o 5 persone che hanno visitato la mostra insieme a me. Per un biglietto d’ingresso che costa -per uno studente- più della visita al Louvre, è veramente frustrante la sensazione di aver appena appena sfiorato la produzione di la Chapelle, tutt’altro che esigua, con la beffa poi di vederla rappresentata molto meglio negli oggetti in vendita.

Per concludere, al di la di alcune stampe -per un perfezionista come me- di qualità forse non allo stato dell’arte, una mostra che permette di ammirare alcuni splendidi lavori di uno dei fotografi giustamente più famosi al mondo. Peccato che il sovraffollamento nelle piccole stanze, i vetri di protezione sporchi, e soprattutto un numero di fotografie esposte relativamente esiguo, rovinino in parte la visita alla mostra di David la Chapelle.

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Demoni e Palazzi dell’Anima a Art Madrid 2009 /it/2009/art-madrid/ /it/2009/art-madrid/#comments Sat, 21 Feb 2009 07:27:06 +0000 /?p=1046 Related posts:
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Fabiano Busdraghi Art Madrid
Fabiano Busdraghi a Art Madrid 2009

Durante il salone d’arte contemporanea Art Madrid, di cui abbiamo parlato proprio ieri in Arco e Art Madrid 2009, la galleria Manel Mayoral di Barcellona ha esposto due foto dei Palazzi dell’Anima e Loquerion, una foto della serie i Demoni.

Lo spazio era bello e ben gestito, ed è stata comunque una bella soddisfazione vedere le mie foto accanto a Picasso, Dali, Tapies e tanti altri grandi nomi dell’arte moderna. Inoltre il gallerista mi ha detto che molti visitatori hanno particolarmente apprezzato le fotografie e sono rimasti colpiti dal procedimento usato e dalla resa particolare delle immagini, soprattutto per quanto riguarda Loquerion. Devo dire che le stampe erano particolarmente riuscite e che la resa finale ha lasciato molto soddisfatto pure me, che sono un perfezionista difficile da accontentare.

Le foto dei Palazzi dell’Anima, dimensioni circa 70x100cm (gli ingrandimenti sono stati eseguiti con la tecnica descritta nell’articolo L’ingrandimento digitale), sono state stampate con i pigmenti al carbone piezografici su carta Museum Etching della Hahnemuehle in edizione di 5 esemplari, mentre Loquerion, circa 100x160cm, è stato stampato a getto d’inchiostro (Epson UltraChrome K3) sulla stessa carta, in 3 esemplari. Il tutto finito con uno strato di vernice protettiva che ha saturato i neri rendendoli ancora più profondi e intensi, messo in risalto la bella struttura della carta nella campiture uniformi dell’immagine e dato un piacevole aspetto “gommoso” alla stampa, rendendola più tridimensionale e presente.

Tutte le stampe sono state eseguite insieme a Christophe Batifoulier di Picto Bastille.

Approfitto dell’occasione per pubblicare una minigalleria dell’esposizione.

[See image gallery at www.co-mag.net] ]]>
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Arco e Art Madrid 2009 /it/2009/arco-art-madrid/ /it/2009/arco-art-madrid/#comments Fri, 20 Feb 2009 05:05:30 +0000 /?p=1023 Related posts:
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Edward Burtynsky
Silver Lake Operations #10, Lake Lefroy, Western Australia, 2007
© Edward Burtynsky

Settimana scorsa sono andato a Madrid per visitare due delle più importanti fiere di arte contemporanea e moderna in Spagna: Arco e Art Madrid.

Arco

A parte il prezzo del biglietto di ingresso, di gran lunga al di là del ragionevole, la visita ad Arco è stata veramente splendida. Il salone è ampio e spazioso, gli stand grandi e di facile accesso. Rispetto a Paris Photo la visita è molto più piacevole e meno stancante, c’è meno rumore, più ossigeno, più possibilità di riposarsi e prendere una boccata d’aria.

Nonostante Arco sia una fiera di arte contemporanea e moderna in generale, quindi che presenta pittura, scultura, video e installazioni, devo dire che la fotografia ha veramente un posto di spicco, tanto che mi sembra di poter dire che almeno la metà delle opere presentate sia costituita da fotografie, cosa che naturalmente mi rende particolarmente contento. Il livello fra l’altro delle foto esposte è veramente alto, come della maggior parte delle opere artistiche, mentre sono pochissime quelle che fanno scuotere la testa con disappunto.

Ripercorro brevemente i lavori che più mi son piaciuti, evitando di parlare dei grandi nomi della fotografia che conoscono tutti, ma concentrandomi soprattutto su autori che conoscevo meno o sui talenti emergenti. In ogni caso, come a Paris Photo, i lavori che in generale mi sono più piaciuti appartengono di solito ai grandi fotografi più noti, a riprova del fatto che il successo arriva quando la qualità dell’opera è veramente alta, e non solo come conseguenza delle logiche di mercato e delle scelte dei galleristi.

Le foto che in assoluto sono stato più contento di vedere sono i nuovi lavori di Edward Burtynsky. Li avevo già notati qualche settimana fa sul suo sito, che -cosa piuttosto rara- presenta moltissime foto e non solo un succinto portfolio, la maggior parte delle quali possono essere visionate a risoluzione relativamente elevata, permettendo di visionarle con maggior soddisfazione. Nonostante questo, vederle dal vivo è sempre un’altra cosa, tanto più per le foto scattate in grande formato.

Le nuove foto di Edward Burtynsky come al solito rappresentano un paesaggio modificato dall’uomo, ma questa volta sono tutte riprese aeree. Come per tutte le sue foto, i paesaggi sono straordinari e incredibili, dai colori impressionanti ma -si sente subito- assolutamente non dovuti al ritocco, ma piuttosto all’eccezionalità dei luoghi. Grandi estensioni di bianco che sembra neve, ma probabilmente è del sale e il bianco delle nubi che si riflette sull’acqua, terra rossa e nera, laghetti verdissimi in fondo alle cave a cielo aperto. E tutte queste estensioni di colori sono organizzate su geometrie rigorose, tanto da far sembrare le fotografie di Edward Burtynsky quasi dei quadri astratti, fino che non si nota un camion, una strada, un dettaglio che riconduce alla realtà.

Molto belle le fotografie di Anthony Goicolea, soprattutto la serie Shelter, ricomposizioni digitali assolutamente credibili, di personaggi mascherati confrontati ad un mondo immenso, foreste di alberi giganti, in cui si nascondono catapecchie e casupole di legno. Al di là della realizzazione tecnica impeccabile e dello statment dell’autore, il risultato è intrigante e esteticamente molto gradevole, con uno stile a mezza via fra reportage, staged photography e fotocollage.

Delle fotografie sulla spiaggia di Yorgos Kordakis mi sono piaciuti in particolar modo i colori slavati, un incrocio fra le polaroid e certe pellicole scadute. Colori poco saturi e improbabili, cieli marroncini, ombrelloni appena accennati. Molto bella anche la sovraesposizione, che appiattisce la materia e elimina i dettagli superflui avvicinando la fotografia alla pittura; così come i difetti dell’ottica, che sfoca pesantemente i bordi dell’immagine, facendo sembrare i soggetti dei minuscoli manichini in un plastico di una città.

Michael Najjar
Netropolis
© Michael Najjar

È curioso, perché la maggior parte dei fotoamatori evoluti cerca a tutti i costi il massimo dettaglio nelle foto, mentre personalmente trovo che ce ne sia quasi sempre troppo. Certo, in molti casi è funzionale, ma spessissimo troppo abbondante in certe zone dell’immagine, tanto da distogliere l’attenzione. L’utilizzo di sfocature e sovraesposizioni, come nel caso delle foto di Yorgos Kordakis, aggiunge una dimensione pittorica e sognante che mi è particolarmente cara.

Michael Najjar è stato forse la scoperta più interessante di Arco, in particolar modo mi è piaciuto il fatto che erano presentati lavori completamente agli antipodi fra di loro. Di solito gli artisti, una volta trovato un filone che funziona, tendono a mantenerlo, invece di continuare a reinventarsi. Questo per diverse ragioni. Sicuramente è difficile essere variegati e diversi, se lo stile artistico è l’espressione ultima del proprio io, a meno di non soffrire vagamente di personalità multiple, sarà normale tendere verso un unico stile ben riconoscibile e determinato. Più spesso però è una questione di mercato e di comodità, da una parte è difficile dover ripartire da zero mentre ci si può accomodare su un risultato già assodato, dall’altra c’è una forte pressione da parte di galleristi e pubblico, che si attendono lavori in linea con quelli che li hanno sedotti precedentemente. Detto ciò personalmente preferisco chi ha il coraggio di presentare e sostenere delle serie di lavori completamente diverse fra di loro, ed è sicuramente il caso di Michael Najjar.

Justin Ponmany
© Justin Ponmany

Una delle serie di fotografie presentate, Netropolis, è stata una di quelle che più mi son piaciute in assoluto ad Arco. Si tratta di diverse foto di una stessa città, riprese da un punto di vista panoramico, e poi sovrapposte fra loro. Il risultato visivamente ricorda vagamente le lunghissime pose di Michael Wesely, e restituisce perfettamente la sensazione confusa di città infinita che rimane nel ricordo al di là dell’immagine visiva dell’esperienza diretta della realtà.

Interessanti anche le fotografie di Justin Ponmany, ottenute “srotolando” delle facce. Credo che per la realizzazione fotografi diverse volte il viso di una persona, girandogli intorno, e poi ricomponendo le foto fra di loro, come se fosse una panoramica, o come se la pelle si fosse srotolata attorno ad un cilindro.

Art Madrid

Art Madrid è una fiera di arte contemporanea e moderna parallela ad Arco. Più piccola della precedente, e con lavori meno di spicco, le due differenze che saltano subito agli occhi è che c’è molta più pittura che fotografia e che la percentuale di arte moderna piuttosto che contemporanea è più elevata che ad Arco. La visita è stata comunque molto piacevole e interessante.

Fra le fotografie preferite posso citare delle splendide e finissime eliogravure di Unai San Martin, che riconfermano questa tecnica come una delle mie predilette fra i procedimenti storici di stampa, con i grigi perfetti, quest’aspetto granuloso e meterico. Molto belli anche dei bei bianchi e neri di personaggi un po’ improbabili firmati Mark Laita: vecchiettini, punk, culturisti… tutti mischiati insieme in un incontro fra l’underground e il popolare, la cultura alternativa e le tradizioni.

Molto belle anche le foto di Rosa Basurto. Fotografie dai toni grigiastri e desaturi, come mi sono sempre piaciute, con una texture sovrapposta nel cielo che probabilmente è quella di un muro, personaggi sognanti alla ricerca di chissà cosa sotto un misterioso cielo pieno di uccelli.

Paola de Grenet
© Paola de Grenet

Le fotografie che forse ho in assoluto preferito ad Art Madrid sono però i ritratti di albini di Paola de Grenet, dalla bellezza così diversa ma così intensa e toccante. Un punto in favore inoltre è dato dal fatto che non devono assolutamente niente al procedimento utilizzato, a qualche espediente particolare, una tecnica che impressiona e fa scalpore. Sono semplici fotografie, pure e dure, che devono la loro bellezza solo al fascino dei soggetti ritratti e alle caratteristiche puramente fotografiche delle foto stesse. Ormai sono state scattate così tante foto di così tanti temi e soggetti diversi, che è difficilissimo non ricadere nel “già visto” senza ricorrere ad espedienti stilistici che reinventino l’immagine in modo originale; Paola de Grenet vince quindi la difficile scommessa di creare splendide fotografie senza tradirne la natura.

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