Consigliati – Camera Obscura /it/ A blog/magazine dedicated to photography and contemporary art Sat, 03 Dec 2016 22:24:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.8 Intervista con Aline Smithson /it/2012/intervista-aline-smithson/ /it/2012/intervista-aline-smithson/#respond Sat, 28 Apr 2012 10:20:39 +0000 /?p=5263 Related posts:
  1. Intervista alla redazione di Miciap parte 3
  2. Intervista a Ars-Imago
]]>
© Aline Smithson
Please visit Intervista con Aline Smithson for the full size image.

Intervista con Aline Smithson, photografa artista e curatrice di Lenscratch, un blogzine dedicato alla fotografia contemporanea.

 

Fabiano Busdraghi: Dopo aver lavorato come redattrice gomito a gomito con i grandi nomi della fotografia di moda, sei tu stessa diventata una fotografa e artista di successo. Oggi sei anche la redattrice di Lenscratch, uno dei blog fotografici più letti al mondo, una lettrice di portafoglio e curatrice per diverse riviste e gallerie. Infine, intraprendi diverse attività didattiche in forma di workshop e conferenze.

© Aline Smithson
Please visit Intervista con Aline Smithson for the full size image.

Un cliché romantico ricorrente vorrebbe che un artista debba concentrare tutte le sue energie unicamente sulla creazione artistica. Personalmente penso che una serie eclettica di occupazioni renda la vita più ricca e interessante, ma -per esempio nel mio caso personale- è facile finire per fare troppe cose e non finirne mai nessuna. Di conseguenza, a volte ho paura che intraprendere troppe attività diverse possa in qualche modo diluire la produzione artistica. Al tempo stesso una vita stimolante, rende possibile la produzione di opere d’arte interessanti.

Pensi che tutte le tue attività possano sostenere e migliorare la creatività artistica? O tutti i differenti aspetti della tua vita professionale e artistica sono solo diverse manifestazioni del tuo amore per la fotografia? O forse le varie esperienze sono semplicemente i risultati dei tuoi interessi eclettici?

© Aline Smithson
Please visit Intervista con Aline Smithson for the full size image.

Aline Smithson: Onestamente, non sono sicura che le mie attività, sostengano o migliorino il mio lavoro… in realtà, penso che mi impediscano di svolgerlo, nel senso che ho meno tempo per creare e concentrarmi su me stessa. In verità, certi giorni ho solo voglia di gettare la spugna, soprattutto quando vedo tutti gli incredibili progetti in fase di creazione nel mondo della fotografia. È stimolante e allo steso tempo deprimente vedere:

  1. quanti fotografi lavorino oggigiorno;
  2. quanto sia alto il livello di ciò che fanno;
  3. quello che si può ottenere con un iPhone.

Ma niente di tutto questo mi impedisce di continuare a produrre, o influenza il lavoro che faccio. Ho una forza nella mia visione personale, ma questo non vuol dire che non mi capiti di sbavare sul lavoro degli altri fotografi.

© Aline Smithson
Please visit Intervista con Aline Smithson for the full size image.

Il mio entusiasmo per la fotografia -unito al mio desiderio di comprendere e restituire alla comunità fotografica- è il motore dietro alla produzione di tutto quello che faccio. Quando ho iniziato a scrivere il mio Lenscratch, doveva essere un luogo dove condividere i miei nuovi lavori e le mie idee; ma dopo pochi mesi, mi sono annoiata all’idea di me, me, e solo me. Ho allora iniziato a considerarlo come un’opportunità per imparare tutto ciò che riguarda la fotografia contemporanea, e questo naturalmente insieme ai miei lettori. Inoltre, visto il mio percorso di insegnante, ho pensato che i miei studenti sarebbero potuti crescere più facilmente con una dose giornaliera di fotografia in più.

Quando sento di avere troppe cose in ballo, faccio un po’ di spazio, mi prendo una settimana senza distrazioni, faccio le pulizie nel mio ufficio, creo qualcosa di nuovo, leggo un po’ di articoli e riparto da zero. Vorrei che potessimo avere almeno un giorno alla settimana senza e-mail … sono le e-mail che stanno cominciando veramente a uccidermi.

© Aline Smithson
Please visit Intervista con Aline Smithson for the full size image.

Fabiano Busdraghi: Hai trionfato in ogni campo che hai esplorato. Quale pensi sia la chiave del tuo successo?

Aline Smithson: duro lavoro, non prendermi troppo sul serio, essere curiosa, gentile e professionale. Dire grazie a ogni mano che mi ha sostenuto. Celebrare le persone intorno a me. Rimanere fedele alla mia visione del mondo. Non mi ricordo se l’ho detto, il duro lavoro?

Fabiano Busdraghi: Personalmente, penso che sia molto difficile promuovere il mio lavoro fotografico. Mi piace ogni fase del processo di creazione, ma la promozione è un aspetto quasi spiacevole. Lo so è necessario. È un peccato chiudere le mie foto in una scatola o nel disco duro di un computer, regolarmente mi obbligo a fare un po’ di auto pubblicità. Quando succede, mi sembra che tutte le mie energie e il mio tempo vengano completamente risucchiate, non lasciando più spazio per la creazione. Recentemente ho assistito ad una conferenza sulla fotografia emergente al Festival Circulations, e ne ho approfittato per chiedere a tutti i fotografi presenti come facessero per trovare un equilibrio fra creazione e promozione. Senza eccezioni, la risposta di tutti è che promuovere il proprio lavoro è estremamente difficile, ed effettivamente richiede moltissimo tempo.

© Aline Smithson
Please visit Intervista con Aline Smithson for the full size image.

Sei d’accordo con questa affermazione? Nel tuo caso personale, come fai a bilanciare la diffusione con la creazione? Cosa consiglieresti a un fotografo emergente per gestire l’aspetto promozionale dell’attività fotografica?

Aline Smithson: La promozione è come l’esercizio fisico … non ti piace, ma è necessario farlo! Dico sempre ai miei studenti che dovrebbero produrre lavori che saranno entusiasti di promuovere per i prossimi 10 anni. Dopo aver terminato un corpus fotografico, si dovrà lottare per anni per metterlo sotto i riflettori del mondo della fotografia. Dopo un intenso 2011, ricco di mostre e di viaggi, ho fatto marcia indietro e quest’anno sto presentando le mie foto unicamente se la giuria o i luoghi sono veramente d’interesse. Non sto saltando su tutti i baracconi che passano. Si deve pensare a questo viaggio come una strada lunga, e non abbiamo bisogno di correre né presentarsi ad ogni festa. Ho sputato sangue per anni, facendo presentazioni, bussando a tutte le porte, frequentando le letture di portafoglio, niente di ciò che ho realizzato è venuto senza uno sforzo enorme. Ma la vita è fatta così, e non possiamo sempre avere la stessa concentrazione o energia per creare e promuovere il nostro lavoro. Una volta che lo ammetti a te stesso, ti senti decisamente meglio. Cerco di vedere le cose a lungo termine, se un anno faccio un sacco di mostre, è bene rallentare l’anno successivo. Abbiamo veramente bisogno di tempo per non fare auto-promozione. Salto di continuo dalla promozione alla creazione… alla fine ho finito per abituarmi a questo ritmo.

© Aline Smithson
Please visit Intervista con Aline Smithson for the full size image.

Ma è effettivamente una scocciatura dover promuovere costantemente il proprio lavoro. Sembra si stia continuamente sventolando una bandiera gridando: “Guarda, guarda il mio lavoro” ed è una cosa che odio. Il trucco è circondarsi di una comunità solidale e quando qualcuno sventola la propria bandiera, lo celebri come se fosse te stesso. Come fotografi, siamo veramente fortunati ad avere la quantità di opportunità a nostra disposizione per diffondere il nostro lavoro nel mondo. Ci sono incredibili organizzazioni come Center e Photolucida che supportano totalmente fotografi emergenti, e molte gallerie e centri espositivi che offrono tantissime opportunità fotografiche. Inoltre le opportunità su internet sono infinite. Io suggerirei di fissare degli obiettivi ragionevoli… sottoporre qualcosa una volta a settimana … una cosa da poco on-line, e una cosa importante una volta al mese. Ma dedicare comunque più tempo a produrre lavori di qualità.

© Aline Smithson
Please visit Intervista con Aline Smithson for the full size image.

Fabiano Busdraghi: La recente crisi finanziaria mondiale ha influito in qualche modo sul tuo lavoro? Qual’è la tua strategia professionale in questi anni difficili? Ancora una volta, hai qualche suggerimento per i fotografi e gli artisti emergenti?

Aline Smithson: Per essere onesti, ci sono pochissimi fotografi d’arte che possono realmente vivere del proprio lavoro. La maggior parte sono insegnanti, lavorano principalmente in un altro campo o sono in pensione. Sto insegnando sempre di più, ho un’agenzia di stock, ho un agente che inserisce il mio lavoro in spettacoli televisivi e film, e cerco di inventare un sacco di piccoli espedienti in modo da aggiunge qualcosa alla fine del mese. Sto vendendo la stessa quantità di foto rispetto a prima, -e sto vendendo bene in Europa- ma le gallerie si stanno prosciugando, il che è molto, molto triste. È tempo di creare un nuovo modello di vendita. Sembra che la fascia bassa e alta continuino a vendere, ma la gamma media è al contrario molto immobile. Inoltre la tecnologia ha reso un po’ tutti un fotografo, quindi le persone fondamentalmente danno via di tutto e di più.

© Aline Smithson
Please visit Intervista con Aline Smithson for the full size image.

Fabiano Busdraghi: Ho curato Camera Obscura durante gli ultimi cinque anni, e in un certo senso ancora mi chiedo perché lo sto facendo. Naturalmente conosco la risposta, non è solo per diffondere la cultura fotografica, ma soprattutto si tratta di un modo per continuare a pensare ed esercitare la mia mente. Una sorta di ginnastica per il cervello. In ogni caso, la questione resta per me importante, e mi piace porla a tutti gli autori di blog che incontro.

Puoi descrivere il motivo per cui ha deciso di iniziare il blogzine Lenscratch e perché lo continui a pubblicare ancora oggi? Perché scrivere blog è un’attività importante per un fotografo?

© Aline Smithson
Please visit Intervista con Aline Smithson for the full size image.

Aline Smithson: troppo spesso mi chiedo perché sto ritagliando così tanto del mio tempo per promuovere altre persone. La notte, dopo un cocktail o due, quando sto per addormentarmi mi ricordo che non ho scritto l’articolo per domani e mi impongo di farlo. Ho fissato uno standard molto alto decidendo di pubblicare un articolo al giorno. Certo si tratta di una regola che posso cambiare in futuro, ma scrivere ogni giorno è davvero, come dici tu, una palestra del cervello. Scrivendo ogni giorno, diventa via via più facile. Una volta ho letto che le star delle soap opera hanno una memoria incredibile, perché devono imparare quotidianamente decine di pagine di dialoghi, e lo fanno come se niente fosse.

Ho anche incontrato o tessuto legami con centinaia di fotografi grazie a Lenscratch e quando posso aiutarli ulteriormente lungo la loro strada verso il successo, la cosa mi rende molto felice. Non voglio che il mio viaggio fotografico sia una spedizione in solitario, voglio con me un’allegra banda d’amici, e il blog mi ha dato proprio questo. Ho sentito dire da fotografi che hanno lavorato in isolamento, che è veramente fantastico quando qualcuno dedica il proprio tempo per apprezzare il loro lavoro e informarsi a dovere. Ecco qualcosa che vale veramente la pena.

© Aline Smithson
Please visit Intervista con Aline Smithson for the full size image.

Fabiano Busdraghi: tutti saranno d’accordo se dico che Internet è uno strumento formidabile per diffondere un lavoro fotografico a un pubblico davvero ampio. Ma allo stesso tempo ho la sensazione che è abbastanza difficile utilizzarlo per convertire la semplice diffusione del lavoro dell’artista in un business concreto. Voglio dire, una mostra in una galleria d’arte di solito viene visitata da qualche centinaia di persone al massimo, ma spesso un certo numero di questi acquisteranno le stampe in mostra. Un portfolio on-line può essere visitato migliaia di volte ogni mese, ma quanti visitatori sono veramente interessati a comprare le opere d’arte suddette? Le riviste cartacee generare denaro, ma la maggior parte dei blog sono tenuti per passione, senza nessun compenso economico. Mi sembra che, anche se Internet è un veicolo perfetto per diffondere il nome di un fotografo, ciò non implica necessariamente che sarà più facile per questi vendere il proprio lavoro, ovvero guadagnarsi da vivere con le proprie opere d’arte.

Qual è la tua opinione su questo argomento? Pensi che sia veramente utile per i fotografi spendere così tanto tempo ed energie per diffondere il proprio lavoro su Internet o sarebbe meglio dedicarsi alla promozione nel mondo reale?

© Aline Smithson
Please visit Intervista con Aline Smithson for the full size image.

Aline Smithson: Beh, in definitiva, il lavoro deve essere da urlo, e alla fine conta poco come la notizia venga fuori. Nel mondo commerciale, il pendolo sta tornando indietro verso strumenti promozionali tradizionali: cartoline, ecc, visto che i direttori artistici sono stanchi del diluvio di newsletter e mailing promozionali che ricevono quotidianamente. Internet diffonde il tuo lavoro in tutto il mondo in un batter d’occhio, molti fotografi che ho pubblicato sul mio blog sono stati contattati il giorno successivo da ogni parte del mondo, dimostrando un grande interesse per il loro lavoro. Non è mai potuto accadere con la posta ordinaria. Non abbiamo ancora un’idea precisa della quantità di opportunità offerte da Internet oggigiorno: nuove riviste, blog e siti di vendita online fioriscono quotidianamente. Potremmo passare tutta la vita scendendo nelle tane dei bianconiglio delle opportunità da esplorare o da presentare.

© Aline Smithson
Please visit Intervista con Aline Smithson for the full size image.

Se vuoi far andare in giro per il mondo il tuo lavoro, la mostra in una galleria non dovrebbe essere il tuo obiettivo principale. Pubblicare il tuo lavoro in una rivista ad ampia diffusione o in un blog molto seguito lo metterà sotto agli occhi di tantissime persone in giro per il mondo. E solo dopo potrai cominciare a pensare alle gallerie…

Sto vendendo proprio grazie a tale esposizione mediatica. Le gallerie che mi rappresentano possono solo trarre vantaggio dalla diffusione delle mie fotografie e dalla mia attività di auto-promozione. Il mio amico Cole Thompson vende direttamente dal suo sito, e -quando gli ho chiesto chi erano i suoi collezionisti- mi ha risposto che la maggior sono fotografi essi stessi. Credo che quando Jen Beckman ha iniziato 20×200, ogni fotografo stava collezionando immagini dal suo sito. Quindi tutto ciò che rappresenta visibilità, orientata al pubblico fotografico, alla fine paga. Ci aiutiamo reciprocamente.

© Aline Smithson
Please visit Intervista con Aline Smithson for the full size image.

Fabiano Busdraghi: Un altro aspetto sorprendente di Internet è la quantità di contenuti disponibili e come questo influisca sul nostro approccio all’informazione. Ricevo ogni giorno decine di messaggi nel mio lettore di feed, ed è difficile trovare il tempo e la concentrazione per leggere attentamente ciascuno di questi. Un ben noto comportamento dei visitatori di un sito Internet è che tendono a eseguire una scansione della pagina invece di leggerla come farebbero con un libro. Certo, c’è un sacco di rumore rispetto all’informazione utile, e dobbiamo trovare strategie per filtrarlo rapidamente, ma mi accorgo che -anche limitandomi alle informazioni di alto livello- queste restano comunque troppo abbondanti per essere assimilate. A mio parere questo determina una sorta di consumismo culturale, e la tendenza a leggere superficialmente ogni testo, indipendentemente dalla qualità delle informazioni in esso contenute.

Sei d’accordo con questa descrizione della fruizione di Internet? È ancora utile scrivere lunghe e approfondite analisi o sarebbe meglio limitarsi unicamente a Twitter? Cosa si potrebbe fare per invertire questa tendenza?

© Aline Smithson
Please visit Intervista con Aline Smithson for the full size image.

Aline Smithson: io sono uno di questi scanner. Trovo difficilmente il tempo per leggere altri blog, e sono sempre stata una persona attratta soprattutto dalle foto, e questo ancora prima di leggere l’articolo stesso. Penso anche che ognuno di noi soffra della sindrome da deficit di attenzione. Il miei figli parlano e scrivono in un nuovo linguaggio e il mondo intero sta solo cercando la prossima frase fatta. Scrivere il blog è uno dei pochi momenti al giorno in cui mi concentro completamente su me stessa. Altrimenti sto sempre facendo un milione di cose allo stesso tempo e non sono mai totalmente concentrata su una cosa precisa. Purtroppo non ho il tempo di digerire lunghi articoli approfonditi, ma leggo i tweets … e sono pienamente consapevole che sto digerendo il fast food della fotografia, il che non è che mi piaccia molto.

© Aline Smithson
Please visit Intervista con Aline Smithson for the full size image.

Non so come cambiare la cosa… in realtà, penso che la situazione peggiorerà sicuramente. Sono preoccupata per gli effetti che tutto questo può avere sui nostri figli. Visto che sono cresciuta senza un computer, sento come una marea di pressione tecnologica che mi attacca di continuo le calcagna. So che i miei figli non lo vivono affatto in questo modo, e vedono ogni nuova invenzione e applicazione come qualcosa da gustare con piacere.

Fabiano Busdraghi: Sono particolarmente interessato alle storie di vita vissuta, gli aneddoti e i dietro le quinte. Puoi scegliere qualche foto dal tuo portfolio un po ‘speciale e raccontare la sua storia?

Harmony
© Aline Smithson
Please visit Intervista con Aline Smithson for the full size image.

Aline Smithson: L’immagine Harmony è stata creata quando ero nella mia prima fase di apprendimento della fotografia. Uno dei miei insegnanti mi aveva detto che avevo bisogno di sorvegliare attentamente quello che stavo per fotografare per trovare la luce giusta. Questo non è sempre facile con i bambini piccoli fra i piedi. Così, ero in vacanza con la mia famiglia e stavo guidando sulla strada lungo la costa della California. Pioveva e quando ho superato un cartello che diceva “Harmony” ho subito saputo che era una grande scatto. Ho fatto un’inversione a U selvaggia sull’autostrada 101 e accostato mentre mio marito e i miei figli mi gridavano addosso come pazzi. Sono saltata fuori con la mia macchina fotografica giocattolo e ha questa foto. Non ho mai più seguito il consiglio del mio insegnante.

Lexie con il pavone
© Aline Smithson
Please visit Intervista con Aline Smithson for the full size image.

Lexie con il pavone è un’immagine che ho avuto in testa per molto tempo. Sono sempre stata affascinata dalle immagini di Lewis Carroll di bambini, e mi piace l’idea del colore, delle testure e oggetti di scena esotici che aggiungono alla bellezza di una composizione. Inoltre non guasta che per caso posseggo un pavone imbalsamato. Lexie abita lungo la strada e assomiglia molto a mia figlia quando aveva la sua età, inoltre ha quell’anima un po’ all’antica che aggiunge grande spessore al ritratto. Ciò che lo spettatore non vede è che la madre di Lexie, la sorella minore, e il cugino tredicenne venuto dal Midwest, sono seduti dietro di me pensando: “Ma cosa diavolo sta combinando questa donna!”. Nella pratica fotografica moderna, credo che abbiamo perso il gusto delle cose belle e il desiderio di creare bellezza. Sentivo che era arrivato il momento di crearne un po’.

Il dito medio
© Aline Smithson
Please visit Intervista con Aline Smithson for the full size image.

Non posso farne a meno, di tanto in tanto mi piace essere un po’ irriverente. Questa natura morta, il dito medio, mi ha sempre fatto ridere.

Nonostante mi piaccia produrre fotografie intense e significative, amo ugualmente creare qualcosa dal nulla, e soprattutto immagini stravaganti. Questa foto, Hugos a Hollywood, è stato scattata quando ho reso visita a un’amica che soggiornava in un hotel veramente classe, subito prima di partecipare ai Golden Globes. Semplicemente è “successo” che avevo con me tre delle mie bambole Hugo e si son godute i resti della sua colazione a letto.

Hugos a Hollywood
© Aline Smithson
Please visit Intervista con Aline Smithson for the full size image.

E infine, amo talmente questo ritratto di Elizabeth Taylor —tanto il colore che la posa— che volevo trovare un modo per celebrarlo. Ho iniziato a creare una piccola serie di ritratti nei libri che amo, chiamato ritratti di ritratti. E questo è intitolato Liz e le rose.

 

Per ulteriori informazioni, si prega di visitare il sito di Aline Smithson o abbonarsi a Lenscratch, un blogzine dedicato alla fotografia contemporanea.

Liz e le rose
© Aline Smithson
Please visit Intervista con Aline Smithson for the full size image.
]]>
/it/2012/intervista-aline-smithson/feed/ 0
Fisica, avventura, poesia e fotografia in Antartide, di Fabiano Busdraghi /it/2010/antartide-fabiano-busdraghi/ /it/2010/antartide-fabiano-busdraghi/#comments Mon, 22 Feb 2010 11:32:12 +0000 /?p=3690 Related posts:
  1. Antartide di Fabiano Busdraghi alla Fotogalerie im Blauen Haus, Monaco
  2. Fotografia e verità 6: quasi niente è fotografia
]]>
Antartide Fabiano Busdraghi (1)
© Fabiano Busdraghi
Please visit Fisica, avventura, poesia e fotografia in Antartide, di Fabiano Busdraghi for the full size image.

Qualche tempo fa sono stato invitato da Paul O’Sullivan, il Social Media Editor dello studio di Ed Kashi, a partecipare all’esposizione online Impact: una mostra collettiva virtuale di articoli e fotografie. Ecco il mio contributo e -in fondo all’articolo- una descrizione più precisa di Impact e i link per navigare fra le varie gallerie.

Due viaggi in Antartide

Durante il mio dottorato1 in oceanografia fisica, ho avuto modo di partecipare a due grandi spedizioni scientifiche nell’Oceano Australe. La prima, a bordo del rompighiaccio tedesco Polarstern, era dedicata alla misura in situ del trasporto della Corrente Circumpolare Antartica nel passaggio di Drake. La seconda invece, a bordo del rompighiaccio dell’esercito argentino Almirante Irizar, è durata molto più a lungo e si è spinta fino al limite estremo del Mare di Weddell. Obbiettivo: studiarne la struttura termica e eventualmente spiegare la gigantesca distruzione del ghiacciaio Larsen.

Antartide Fabiano Busdraghi (2)
© Fabiano Busdraghi
Please visit Fisica, avventura, poesia e fotografia in Antartide, di Fabiano Busdraghi for the full size image.

Su una nave oceanografica e ancor più a bordo di una rompighiaccio militare l’atmosfera è completamente diversa da quella delle navi per viaggi turistici in Antartide. Senza contare che per ragioni logistiche e di sicurezza le navi da crociera in genere si limitano unicamente al nord della penisola Antartica, mentre l’Irizar si è spinta fin nella parte più meridionale del mare di Weddell, Ho quindi avuto la fortuna di navigare in un luogo praticamente inaccessibile e camminare sul continente Antartico vero e proprio, infinitamente più intenso delle già splendide isole antartiche.

Ne sono tornato con ricordi indimenticabili, un libro/diario che aspetta solo di trovare un editore e esser pubblicato, qualche migliaia di fotografie di cui molte sono probabilmente fra le migliori che abbia mai scattato, aneddoti e storie a non finire, emozioni e riflessioni che hanno cambiato per sempre la mia vita.

Antartide Fabiano Busdraghi (3)
© Fabiano Busdraghi
Please visit Fisica, avventura, poesia e fotografia in Antartide, di Fabiano Busdraghi for the full size image.

Mare di Weddell, 2 febbraio 2007

È mezzanotte, e il sole indugia all’orizzonte, tingendo le nuvole dei colori intensi del tramonto che non viene. Il bianco del ghiaccio sfuma nel rosa e nell’arancio. Lo spettacolo è semplicemente meraviglioso.

Mi invade un senso fortissimo di pace. Di fronte a questo gioco di luci, alle dune bianchissime carezzate dai barbagli caldi del tramonto, al silenzio e alla grandezza del paesaggio, tutto sembra più chiaro, quasi evidente. Quest’armonia fatta da nient’altro se non il semplice scorrere delle cose, l’interagire naturale degli elementi, ti fa ritrovare il ruolo che hai perso, dentro te stesso e nel mondo.

Questa secondo me è la sensazione più preziosa dell’Antartide. Dimenticare se stessi. Dimenticare le proprie gioie e paure, i propri bisogni, le bassezze di tutti i giorni, i ruoli che ogni giorno dobbiamo vestire. Perdere tutte le sovrastrutture inutili che si sono ammassate nel corso dei secoli, dimenticare la propria stupida cultura, gli schemi di pensiero, l’intelletto, le buone maniere. Perdere la poetica letta troppe volte, i canoni del bello, del grandioso e magnifico. Polverizzare le proprie aspirazioni, i desideri, le speranze. L’Antartide ti restituisce alla dimensione primordiale dell’esistenza. È l’unico posto in cui ti senti perfettamente pulito, sgombro, nuovo e ti lasci riempire dalle sensazioni le più elementari.

Niente ha più alcuna importanza se non l’attimo stesso che costituisce il presente. Si ha l’impressione che la vita vera sia qui, fra questi ghiacci senza fine. Perché non esiste nient’altro che l’interazione perfetta fra mondo esteriore e mondo interiore. Perché si intuisce che noi esseri umani siamo fatti proprio per questa dimensione particolarissima e il resto poi non ha alcuna importanza.

Antartide Fabiano Busdraghi (4)
© Fabiano Busdraghi
Please visit Fisica, avventura, poesia e fotografia in Antartide, di Fabiano Busdraghi for the full size image.

Spero non mi si fraintenda. Queste righe non sono l’invito a diventare un eremita, ma un tentativo di descrizione delle impressioni che si vivono in Antartide, un’analisi che può esser molto interessante. Il vuoto dei grandi spazi restituisce un’impressione di vita più intesa e pura, primordiale e quasi animale, che sembra più autentica e dionisiaca di quella di ogni giorno.

Oceanografia fisica

L’oceano intorno all’Antartide si chiama Oceano Australe2. Uno dei motivi per cui occupa un posto di primo piano nella ricerca oceanografica attuale è che si tratta dell’unico oceano al mondo che connette l’Oceano Atlantico, Pacifico e Indiano. Inoltre l’Oceano Australe ha un impatto fondamentale sul clima mondiale, capirne il funzionamento è quindi un elemento chiave per la ricerca sul cambiamento climatico.

Antartide Fabiano Busdraghi (5)
© Fabiano Busdraghi
Please visit Fisica, avventura, poesia e fotografia in Antartide, di Fabiano Busdraghi for the full size image.

La mia tesi di laurea in fisica applicata all’università di Pisa è stata dedicata allo studio della variabilità bassa frequenza e su larga scala della profondità dello strato rimescolato superficiale nell’Oceano Australe… aspetta, aspetta! Cosa diavolo c’entra la fisica con la fotografia? E poi che cavolo è lo strato rimescolato? Ecco un accenno di risposta, i lettori interessati possono consultare la mia tesi di laurea (pdf, 5Mb), mentre chi è sempre stato allergico alla matematica può passare subito al capitolo successivo.

L’oceano può esser schematizzato come composto da due strati d’acqua dalle caratteristiche molto diverso. Il primo strato, vicino alla superficie, si chiama strato rimescolato, perché le interazioni con l’atmosfera producono quasi continuamente della turbolenza che appunto rimescola l’acqua. Numerosi e complessi fenomeni ne influenzano la profondità. In generale tutti i processi che generano turbolenza3 tendono ad approfondire lo strato rimescolato, mentre i processi che inducono la stratificazione4 della colonna d’acqua tendono a ridurne la profondità.

Antartide Fabiano Busdraghi (6)
© Fabiano Busdraghi
Please visit Fisica, avventura, poesia e fotografia in Antartide, di Fabiano Busdraghi for the full size image.

La profondità dello strato rimescolato è caratterizzata da un’alta variabilità tanto spaziale che temporale. Nel Mar Mediterraneo in estate lo strato rimescolato misura solo qualche metro di profondità, ma nell’Oceano Australe, lo strato rimescolato in inverno può addirittura arrivare a qualche centinaia di metri di profondità. La variabilità stagionale della profondità dello strato rimescolato è abbastanza ben compresa, poco è invece noto della sua variabilità interannuale, soprattutto nell’Oceano Australe, dove le misure disponibili sono particolarmente scarse.

La profondità dello strato rimescolato è estremamente importante, perché determina e influenza praticamente tutte le interazioni oceano atmosfera. Questo significa che la variabilità lungo termine della profondità dello strato rimescolato ha un impatto fondamentale sul clima mondiale, sulla piccola e larga scala spaziale che su una scala di tempo che va da qualche mese a addirittura a diverse centinaia di anni.

Antartide Fabiano Busdraghi (7)
© Fabiano Busdraghi
Please visit Fisica, avventura, poesia e fotografia in Antartide, di Fabiano Busdraghi for the full size image.

La varietà dell’esperienza

Una grande fetta della fotografia d’arte contemporanea è puramente concettuale tanto che a volte lo statement artistico assume più importanza delle immagini stesse. Alcuni artisti pensano a priori il loro statement, e scattano le foto solo in un secondo momento. Altri, seguono piuttosto un’aspirazione, una sensazione, un’idea vaga per scattare seguendo il proprio istinto e intuizione. Solo in secondo momento scrivo lo statement artistico che restituisce unità e coerenza alla serie di fotografie. Personalmente appartengo a questa seconda categoria di fotografi.

Le mie fotografie di ghiacci e iceberg in primo luogo sono le foto di due viaggi in Antartide. Sono un puro inno alla bellezza della natura, di cui il fotografo si fa semplice spettatore. Una bellezza sconvolgente e indimenticabile, di fronte alla quale si rimane muti e stupiti. Ma allo stesso tempo possono esser lette su più piani, diversi fra loro ma tutti complementari. Diversi piani tutti presenti più o meno implicitamente al momento dello scatto e nelle fotografie finite.

Antartide Fabiano Busdraghi (8)
© Fabiano Busdraghi
Please visit Fisica, avventura, poesia e fotografia in Antartide, di Fabiano Busdraghi for the full size image.

Da una parte queste foto sono il documento di un sistema fragilissimo e in pericolo. Gli iceberg quasi completamente sciolti che solo pochi anni fa costituivano Larsen, uno dei ghiacciai più grandi sulla faccia della terra, sono un chiaro esempio visivo e tangibile di ciò che l’uomo sta facendo al pianeta terra, sono un monito e una prova della fragilità troppo spesso sottovalutata di un sistema climatico a rischio. Conoscere la bellezza del pianeta su cui viviamo e sapere che potrà rapidamente cambiare in modo irreversibile, forse può aiutare a diffondere l’idea della necessità di rispettare la natura e far sviluppare un comportamento ecologicamente più responsabile. O almeno documentare come era il clima polare in un certo momento, raccontare ai figli dei nostri figli quello che è stato l’Antartide.

Inoltre queste fotografie sono in un certo senso il coronamento visivo dei miei anni di studio e di ricerca in fisica e oceanografia. Sebbene nelle modalità la fotografia sia spesso lontanissima dalla ricerca scientifica, e il mondo scientifico guarda spesso all’arte (e viceversa) con diffidenza e a volte addirittura sprezzo, credo sarebbe meglio provare a seguire l’esempio leonardesco, almeno come ideale. Oltrepassare i limiti fra le varie discipline, saper esser tanto pittore che ingegnere, anatomista o inventore. Senza voler per forza avere una conoscenza enciclopedica di tutto lo scibile, credo che sia comunque necessario essere aperti alle contaminazioni e alle connessioni fra i diversi campi del sapere umano.

Antartide Fabiano Busdraghi (9)
© Fabiano Busdraghi
Please visit Fisica, avventura, poesia e fotografia in Antartide, di Fabiano Busdraghi for the full size image.

Le mie foto dell’Antartide infine sono anche il riflesso diretto di quelle sensazioni di vuoto e di purezza primordiale che impregnano tutte le mie pagine del diario. È curioso, perché all’epoca non avevo ancora letto Zhuangzi e non conoscevo molto del taoismo filosofico, se non qualche idea condita di misticismo alternativo da manuale esoterico che detesto completamente. Concezione fra l’altro che non può essere più lontana da quello che mi sembra esser il vero senso del filosofo cinese. Eppure leggendo le pagine scritte in Antartide -e probabilmente traspare anche dalle immagini- la presenza delle idee proprie alla filosofia taoista è chiarissima. Non mi ricordo più se si tratta di una frase di Jean François Billeter, di Jean Levi o di Romain Graziani, ma da qualche parte ho letto qualcosa come:

Riuscirai a capire cosa vuol dire Zhaungzi solamente se lo avevi già capito da solo prima ancora di iniziare a leggerlo.

Antartide Fabiano Busdraghi (10)
© Fabiano Busdraghi
Please visit Fisica, avventura, poesia e fotografia in Antartide, di Fabiano Busdraghi for the full size image.

Qualche anno più tardi, leggendo con grandissimo piacere questo splendido libro ho sempre pensato con un pizzico di presunzione che tante pagine di Zhuangzi le avevo già fatte mie prima ancora di leggerle. Moltissimi punti essenziali li avevo già intuiti proprio grazie ai ghiacci del deserto bianco, grazie ai miei viaggi in Antartide.

 

Chi sono io allora? Chi è Fabiano Busdraghi? Un fisico che studia l’impatto della profondità dello strato rimescolato sul cambiamento climatico? Un poeta abbagliato dalla luce accecante dei ghiacci? Un avventuriero su di una nave militare argentina? Un sinologo che si interessa al taoismo filosofico della Cina antica? Un fotografo in caccia di belle immagini? Una persona che non sa scegliere cosa fare nella vita?

Antartide Fabiano Busdraghi (11)
© Fabiano Busdraghi
Please visit Fisica, avventura, poesia e fotografia in Antartide, di Fabiano Busdraghi for the full size image.

Non amo utilizzare la parola “arte” quando parlo delle mie fotografie, perché è un termine abusato e vago. Ma quando si tratta di un puro atto creativo, chiamatelo arte se volete, credo debba essere un po’ come per la vita stessa. Almeno per quanto riguarda la mia di vita. Ho voglia di fare tutto, di provare tutte le mille esperienze che la vita ci può offrire. Una vita sola mi sembra troppo poco, sono sempre a correr dietro a tutte quelle possibili e immaginabili. Allora a voler esser sinceri e coerenti alla fine in quello che creo -e in particolare nelle mie fotografie- deve poterci entrare un po’ di tutto questo: fisica, emozioni, avventura, poesia, filosofia, viaggi, incontri, termodinamica, relazioni…

Non so se in che misura sia evidente, ma in ogni caso le mie fotografie in Antartide sono il prodotto di tutto questo.

Antartide Fabiano Busdraghi (12)
© Fabiano Busdraghi
Please visit Fisica, avventura, poesia e fotografia in Antartide, di Fabiano Busdraghi for the full size image.

Altre fotografie dall’Antartide sono disponibili alla pagina del mio portfolio antartico.

Thank you very much to Matteo Cantiello for his useful suggestions and kind help provided during this article revision and translation.

L’esibizione online Impact

Benvenuti alla nuova mostra online Impact, un progetto che esplora Internet come un luogo per grandi lavori fotografici. Nel tentativo di ricordare agli spettatori l’importante ruolo svolto dai fotografi in tutto il mondo, abbiamo invitato una serie di autori a condividere delle gallerie sui propri blog (come questo). Gallerie di 12 immagini che rappresentano una esperienza in cui esse hanno avuto un impatto o che lo abbiano subito. Cliccando sui link sotto al logo di Impact, si può navigare attraverso l’esposizione, visualizzando le gallerie dei diversi fotografi. Cliccando sul logo di Impact si approda ad un articolo del blog Resolve di liveBooks dove si può vedere un indice di tutti i fotografi partecipanti. Ci auguriamo che collegando diverse visioni fotografiche del nostro tema originario, “Outside Looking In”, possiamo offrire una visione multiforme del tema, nonché rappresentare l’impatto che l’individuo può avere sul mondo che ci circonda.

Previous Essay Essay Index Random Essay Next Essay
  1. Presso il laboratorio Locean (Università Parigi 6 e la Stazione Zoologica di Napoli (Università Federico II).
  2. In italiano in realtà non esiste, come in inglese un termine universalmente riconosciuto, L’oceano Australe è spesso chiamato Oceano Antartico o anche Oceano Meridionale.
  3. Come per esempio l’attrito del vento, il rompersi delle onde, il raffreddamento superficiale, i vortici, l’emissione di sale consequente alla formazione della banchisa, le celle di Langmuir, la frizione delle correnti…
  4. Come il riscaldamento superficiale, le intrusioni orizzontale, Il trasporto di Ekman
]]>
/it/2010/antartide-fabiano-busdraghi/feed/ 3
I rischi dell’etimologia, la fotografia giapponese e i semantemi cinesi /it/2009/etimologia-cinese-fotografia-giapponese/ /it/2009/etimologia-cinese-fotografia-giapponese/#comments Sun, 24 May 2009 22:35:30 +0000 /?p=1879 Related posts:
  1. Fotografia e verità 1: ma questa non è fotografia!
  2. Fotografia dall’estremo oriente
  3. L’eccesso di effetti speciali a Photoquai 2009 e due perle cinesi di rara bellezza
]]>
Scrittura cinese
Scrittura cinese
Please visit I rischi dell’etimologia, la fotografia giapponese e i semantemi cinesi for the full size image.

Poco tempo fa su Magma (Il gruppo di discussione fondato da Roberto Vacis e Massimo Cristaldi), si è parlato di “Setting Sun – Writings by Japanese Photographers” di Ivan Vartanian, Akihiro Hatanaka e Yutaka Kambayashi, un libro sulla fotografia giapponese che sembra molto interessante. In particolare è stato scritto:

[…] Al giorno d’oggi il termine che indica l’atto di fare una foto è “satsu-ei”, 撮影, letteralmente “prendere/catturare un’ombra”. Immaginatevi le implicazioni filosofiche sulla fotografia di persone […]

Questa frase mi ha subito stimolato a fare un commento linguistico, che ho prontamente spedito in risposta. Nei giorni successivi però ho continuato a pensarci, perché è un argomento che mi è caro. Riporto qui allora la mia risposta dopo averla sviluppata e approfondita.

Intanto premetto che non è un attacco personale rivolto all’autore della frase che ho citato. Semplicemente ho notato spessissimo la tendenza ad utilizzare l’etimologia per spiegare la realtà, il più delle volte a mio vedere in modo improprio. Invece di mordermi la lingua per una volta vale la pena dire tutto quello che penso.

Nell’articolo Il disegno di luce e la persecuzione dei greci mi sono già lamentato di quella che ho chiamato appunto “la persecuzione dei greci”. L’idea che fotografia è “scrittura con la luce”, quindi che “fotografia” è tutto ciò che è ottenuto unicamente tramite interazione fra luce e materiale sensibile è ampiamente diffusa. Nella serie di articoli fotografia e verità cerco di mettere in luce il fatto che la presenza dell’avverbio unicamente è assolutamente fuori luogo e non corrisponde alla realtà della pratica fotografica, che include invece tutta una serie di interventi esterni oltre all’unica interazione fra luce e materia. Quello che è interessante sottolineare in questo ambito è che molti partigiani della fotografia come unica interazione fra materiale sensibile e radiazione elettromagnetica cercano di spiegare cosa sia la fotografia -e più in particolare l’idea che sia frutto unicamente dell’interazione con la luce- a partire dall’etimologia della parola stessa. Come se l’etimologia fosse una prova sufficiente delle caratteristiche ultime della fotografia. È chiaro che la parola fotografia è stata inventata appunto perché gli inventori la percepivano come “disegno di luce”, ma fare il percorso inverso, partire dalla parola stessa per determinare la verità ontologica della pratica fotografica, non è a mio vedere giustificabile a rigor di logica.

Da una parte è vero che l’etimologia permette di capire i modi di pensare e di interpretare la realtà di un popolo o di una civilizzazione. Ma bisogna stare attenti all’interpretazione che si fa della storia di una porala. Intanto perché l’etimologia permette di accedere ai modi di percezione del mondo in vigore precisamente nel momento storico in cui la parola è stata inventata, ma non necessariamente a quella delle epoche successive. La percezione delle cose può essere cambiata col passare del tempo, anche considerabilmente. Inoltre non è detto che i modi di vedere degli antichi siano pienamente razionali e logici, in altre parole che corrispondano al vero, o perlomeno ad una caratterizzazione razionale della realtà. Inferire quindi delle caratteristiche fondamentali di una pratica a partire dall’etimologia della parola che la definisce è perlomeno un atto poco oggettivo.

Insomma, in molti casi l’etimologia spiega particolarmente bene perché certe parole siano state inventate proprio in questo modo, perché a partire dall’osservazione della realtà o da un’associazione di idee è stata scelta, o costruita, proprio la parola diventata poi di uso corrente. Fare però il percorso inverso, spiegare quindi lo stato delle cose a partire dalle parole, è a mio vedere spesso fuorviante. Come dicevo purtroppo è un’abitudine che vedo troppo spesso realizzata in ambito intellettuale, utilizzata con disinvoltura da tanti filosofi, psichiatri, giornalisti e analisti, che prendono l’origine greca o latina di una parola e la considerano come realtà fondante. Dall’irritazione che provo ogni volta che incappo in utilizzi di questo tipo dell’etimologia, nasce la motivazione a scrivere questo articolo vagamente polemico.

Ma torniamo a noi. In cinese1 i due sinogrammi 撮影 naturalmente non sono pronunciati come in giapponese, ma anche loro, se presi individualmente significano “raccogliere ombre”. Questo fatto non deve sorprendente, di fatto i giapponesi hanno preso la scrittura cinese e l’hanno fatta loro. Non per niente Kanji è la pronuncia giapponese di hanzi, che letteralmente vuol dire “caratteri cinesi”, o detto più correttamente “sinogrammi”.

Anche in cinese quindi fotografia significa “catturare ombre”2. Bisogna però fare attenzione a concludere che per i cinesi, fosse anche a livello inconscio, fotografia significa “catturare ombre”. Al più, questa è l’immagine più espressiva venuta in mente circa 150 anni fa agli inventori della parola “fotografia” in Cina, ma oggi? Siamo sicuri che i cinesi considerino la fotografia in questo modo?

Il cinese è una lingua in cui non è possibile creare parole senza combinare fra di loro semantemi3. Di solito, quando è necessario creare una nuova parola, vengono combinati due o più di semantemi già esistenti, per creare appunto il neologismo in questione. La creazione di nuovi sinogrammi è invece più unica che rara.

La maggior parte delle parole cinesi sono composte di due sillabe che, nella stragrande maggioranza dei casi, hanno entrambe un significato originale ben preciso; detto altrimenti la maggior parte delle parole cinesi sono composte da due semantemi. Le regole di costruzione sono molto varie, si può trattare di due sinogrammi praticamente sinonimi (o contrari)4, di associazioni di idee spesso molto descrittive5, di combinazioni fonetico-semantiche 6, etc. In ogni caso quando i cinesi devono inventare una nuova parola sono obbligati a ricorrere alle unità base della loro lingua, ovvero i sinogrammi.

Come dicevamo la maggior parte delle parole cinesi sono bisillabiche. In generale le parole di questo genere (e per conseguenza la maggior parte di queste) sono però “lessicalizzate”, ovvero si è perso il senso individuale delle componenti della parola, il senso dei due sinogrammi presi individualmente. Quando per esempio un cinese dice 火车 per dire treno, non pensa a “fuoco” e “vettura” ma pensa proprio a treno. Certo, è chiaro perché il treno è stato chiamato in questo modo, ma fare il percorso inverso, ovvero partire dalla parola per spiegare la visione della realtà attuale, dicendo che i cinesi percepiscono il treno come una “macchina di fuoco” è contradditorio. Se fosse possibile allora bisognerebbe ammettere che i cinesi continuano a interpretare i treni moderni come “macchine e fuoco”, anche se ormai la maggior parte dei treni sono elettrici. In realtà quando a un cinese si dice 火车 questi penserà a un treno punto e basta. Ecco che i due sinogrammi che compongono la parola sono stati lessicalizzati, il senso originario dei semantemi è stato dimenticato e rimane unicamente il senso lessicalizzato.

Non è però necessario scomodare una lingua come il cinese che è completamente esotica per la maggior parte degli italiani. Operazioni di questo genere, seppure in misura minore, le facciamo di continuo pure noi. Quando racconto a qualche amico che bicicletta in cinese si dice 自行车 letteralmente “vettura che cammina da sola”, la maggior parte della gente scuote la testa dicendo: “sono proprio fuori ‘sti cinesi, possibile che non siano mai andati in bicicletta in salita? Come diavolo fanno a immaginare che le bici vanno avanti senza che le si spinga?”. La maggior parte della gente che risponde in questo modo non si rende conto che in realtà i cinesi facevano semplicemente riferimento al fatto che non ci fosse il cavallo, e non a qualche proprietà magica della biciletta. Il sinogramma infatti indica tutti i veicoli a ruote, quindi tutto ciò che somiglia ad un carro; la bici di fatto è una specie di carretta a due ruote che per muoversi veloce non ha bisogno di un cavallo, da cui il nome. Ma soprattutto le persone che scuotono la testa con sufficienza dimenticano anche che in italiano “macchina” si dice più elegantemente “automobile”, che vuol dire esattamente la stessa cosa che bicicletta in cinese. E allora? Possibile che gli italiani non si siano resi conti che senza benzina assolutamente una macchina non si muove automaticamente?

Ma qual’è il rapporto fra fotografia e il significato della parola automobile? Semplicemente non mi sembra si possa partire dall’etimologia della parola giapponese per dire fotografia, per dedurre la visione che hanno i giapponesi della fotografia stessa. Non mi sembra corretto poter dire che i giapponesi percepiscono necessariamente la fotografia come “cattura delle ombre” perché questa è la parola usata nella loro lingua. Se questo fosse vero allora gli italiani percepirebbero le macchine con cui vanno al lavoro come dei carretti magici che viaggiano da soli, quando dicono natura hanno in realtà in testa un po’ di latino: “natus” -il participio passato di nascere- e “urus”, suffisso del participio futuro, i francobolli sono dei marchi che liberano dalle spese postali chi riceve una busta su cui sono stati incollati, e via dicendo. Senza contare poi che in una lingua come il cinese, in certi sensi molto primitiva, dove è necessario combinare costantemente diversi sinogrammi per creare l’equivalente delle parole, la lessicalizzazione è un fenomeno diffusissimo e molto più forte che in italiano. Spessissimo i cinesi, quando gli si chiede il significato individuale di due sinogrammi che costituiscono un parola disillabica, sono addirittura incapaci di rispondere, tanto il senso lessicalizzato è diventato preponderante sui due significati originali dei sinogrammi presi individualmente.

Se è evidente che nella lingua rimane il riflesso della percezione della realtà di un popolo, affermare il contrario, ovvero che a partire dalla lingua è possibile spiegare la visione della realtà di una civilizzazione, è un cammino forse un po’ troppo irto di pericoli.

  1. Discuto del cinese perché è l’ambito per il quale sono competente, ma le mie conoscenze (limitate) del giapponese mi permettono di affermare con ragionevole certezza che i meccanismi descritti per il cinese sono simili a quelli del giapponese.
  2. Iin cinese in realtà “fotografia” si scrivere differentemente che in giapponese, ovvero 摄影. Questa differenza però non ha nessuna conseguenza fondamentale sul discorso esposto, significa raccogliere e in questo contesto può essere assimilato a , che appunto significa anche lui raccogliere.
  3. Un semantema è la più piccola unità portatrice di senso di una lingua. In italiano spesso corrisponde ad una parola, ma non necessariamente. In “automatico” la parte “auto”, pur non costituendo una parola a sé stante, è comunque portatrice di senso, ed è quindi un semantema.
  4. Per esempio 认识 che significa “conoscere”, è formato da che vuol dire “riconoscere, distinguere” e che significa “conoscere, chiaroveggenza”. Conoscere non si può dire né con né con individualmente (anche se questi caratteri concorrono alla formazione di molte altre parole), ma con la combinazione dei due.
  5. Contraddizione 矛盾 letteralmente significa “lancia scudo”. Una storia nota a tutti i cinesi narra di un mercante di armi che vantando i suoi articoli diceva: “I miei scudi sono talmente solidi che niente può spaccarli. Le mie lance sono così appuntite che niente può arrestarle”. Al che qualcuno chiese: “E se si usano le tue lance contro i tuoi scudi cosa succede?”
  6. Camion 卡车 utilizza la prima sillaba della parola inglese camion 卡 (che vuol dire “carta” come in “carta da visita”, ma si pronuncia ka come “camion” in inglese) e la combina con 车 che indica tutti i veicoli a ruote.
]]>
/it/2009/etimologia-cinese-fotografia-giapponese/feed/ 1
Fade to White, di Charlie Simokaitis /it/2009/charlie-simokaitis/ /it/2009/charlie-simokaitis/#respond Sat, 28 Feb 2009 21:40:52 +0000 /?p=2603 Related posts:
  1. Ritocco di Photoshop un po’ troppo evidente
]]>
Charlie Simokaitis

Charlie Simokaitis è il primo fotografo che ha risposto al mio appello di approfondire il discorso sulla fotografia, scrivendo un lungo e dettagliato articolo a proposito del suo portfolio Fade to White.

Una splendida serie -stimolata dalla sua situazione personale- di fotografie in grande formato di persone cieche e delle loro vite. Fotografie narrative condite con un pizzico di ironia, ma allo stesso tempo con tanta empatia e rispetto per le persone fotografate. E poi soprattutto situazioni umane, persone, vite estremamente toccanti. Grazie Charlie per averci raccontato tutte le storie dietro alle immagini, credo che davvero questo aggiunga una dimensione aggiuntiva alle tue bellissime fotografie.

Testo e fotografie seguenti di Charlie Simokaitis.

Fade to White

Vivo tra vaghe forme luminose che non sono ancora tenebre.
Borges, “Ode alle tenebre”

Charlie Simokaitis

© Charlie Simokaitis

Sono sempre stata attirato dalla finzione, e ringrazio di questo il gesuita che ha messo fra le mie mani una copia di “La Peste” di Camus quando avevo 14 anni. Inoltre, dopo aver visto molte rappresentazioni delle opere di Samuel Becket, e più in particolare “Happy Days”, anche “Il Teatro del assurdo” ha per una particolare risonanza. Quindi, quando ho intrapreso questo recente progetto intitolato “Fade to White”, in cui fotografo soggetti non vedenti, ho cercato di inserire una elemento fittizio in più, rispetto a ciò che più frequentemente è stato un soggetto documentarista o “neutralista.” Ho voluto rispondere a queste tradizioni raccontando una storia all’interno di una storia, pur mantenendo l’empatia e il rispetto verso i soggetti fotografati. Migliorando il dialogo in questo modo, il mio unico desiderio è onorare i mio modelli collaborando con loro.

Le fotografie dei ciechi spesso sono più in linea con la fotografia di strada, tuttavia, per questo progetto ho voluto che la comunicazione svolgesse un ruolo centrale nella creazione di queste immagini, rimettendo in discussione i modi in cui uno si aspetta che le persone non vedenti vengano rappresentate in fotografia. Inoltre, ho voluto fare riferimento agli effetti della perdita della vista, rendendo l’atto di vedere/guardare più deliberato, tramite l’uso di una macchina grande formato, e lenti che, per gli standard moderni, sono un compromesso qualitativo. Nel tentativo di articolare con loro come i miei modelli appaiano attraverso il vetro smerigliato, ero profondamente umiliato dal fatto che alcuni dei miei soggetti fossero nati ciechi, rendendo la mia descrizione irrilevante. L’uso della fotocamera grande formato è un riferimento alla fotografia del passato e ai tanti esempi di come le persone non vedenti venivano fotografate storicamente, così come un riferimento ai “quadri fotografici” che erano di moda durante i primi anni della fotografia. Ho allora aggiunto una componente di finzione o modificato molte delle scene, mettendo in discussione, forse in modo irriverente, le aspettative di quello che una fotografia di una persona cieca dovrebbe essere e incorniciando questo lavoro come una forma di ritrattistica narrativa e dalla forma cangiante.

Charlie Simokaitis

© Charlie Simokaitis

Dopo aver visto le immagini dei ciechi di fotografi come Strand, Arbus, Winograd e DiCorcia, ho voluto affrontare il feticismo di altre persone della percezione del dolore e il tabù e la tacita responsabilità di rappresentare una persona cieca. Arbus è stato spinto a fotografare i non vedenti “perché non si può falsificare le loro espressioni. Non sanno come sono le loro espressioni, quindi non vi è alcuna maschera.”

Visto che mia figlia Faye sarà presto cieca lei stessa, ho voluto conoscere le persone che vivono in questa condizione. L’ho fatto scrivendo un annuncio e facendolo circolare attraverso un contatto al Faro di Chicago per i ciechi e in seguito alla Lega di Oklahoma per i ciechi.

In ultima analisi, dopo aver letto questo annuncio, tutti i miei modelli mi hanno contattato con l’intenzione di essere fotografati. Oggi continuo a seguire la mia strada attraverso una lunga lista di persone non vedenti interessate a essere ritratte e ho iniziato a fotografare molti dei miei modelli una seconda volta.

Charlie Simokaitis

Senza titolo, (Donald Hansen)
© Charlie Simokaitis

In questa immagine fatta ad Oklahoma City, ho rimosso il mio soggetto Donald Hansen dal suo ambiente di lavoro reale, in questo caso un ufficio, posizionandolo in questo fabbricato, una centrale elettrica. Ho poi ingaggiato un attore cieco per recitare in una fotografia di un “altro” immaginario, un ragazzo di nome Gary che lavora in una centrale elettrica e che sta andando a pranzare. Con questo sotterfugio invertito l’inganno si svolge nelle mani della persona cieca, di cui lo spettatore ha già tratto le sue ipotesi basate sul tema della cecità. Sfruttando giocosamente il soggetto, la sua cecità che, in virtù della canna bianca, impregna tutta la sua persona, ho cercato di rendere più visibile un uomo cieco, di creare un icona del genere. Ecco, questa è Oklahoma City nel mese di giugno – in una centrale elettrica. C’erano probabilmente 40 gradi e molto rumore. Come Don non poteva vedere o sentire non ho smesso di correre sulla scena per dirigerlo. Un uomo di poche parole, Don ha trovato la cosa molto divertente.

Charlie Simokaitis

Senza titolo, (Mary Abramson)
© Charlie Simokaitis

Nel libro di James Kelman, “Come è tardi, come è tardi”, misteriosamente e improvvisamente il protagonista cieco fa di necessità virtù e costruisce una canna bianca tagliando una vecchia scopa con una sega. Lo fa in modo che altre persone sappiano il motivo per cui brancola e barcolla di qui e di là quando gira per le strade della città di Glasgow, in Scozia. La persona in questa foto si chiama Mary Abramson ed è rappresentata con una canna bianca lunga più di 3 metri e mezzo, fatta con un tassello di legno. Maria è una educatrice che appoggia l’uso della canna bianca e una fedele sostenitrice della vita indipendente per i non vedenti. Come tanti altri membri della Federazione Nazionale per i Ciechi, Maria utilizza diversi stili di canne, che spesso possono essere altrettanto alte che chi le usa. Ovviamente, la canna bianca in questa foto è assurdamente lunga. Quando ho discusso lo scatto con Mary era molto soddisfatta del tono irriverente dell’immagine. Una cosa da sottolineare è che i membri della Federazione sono impegnati con fervore nella politica sulla cecità, come evidenziato da un recente successo in un contenzioso contro AOL, il cui servizio on-line è stato ritenuto estremamente difficile da usare per le persone con problemi di visione. Inoltre, la Federazione ha fatto varie dichiarazioni sulla rappresentazione negativa di persone non vedenti in film di Hollywood. Com’era prevedibile, il rilascio degli ultimi anni del film “Cecità”, basato sul libro vincitore del Premio Nobel di José Saramago è stato biasimato al momento dell’uscita da parte della Federazione. Detto questo, è stato con una certa conoscenza di ciò che è o non è politicamente corretto tra i non vedenti “illuminati”, che l’immagine è stata scattata.

Charlie Simokaitis

Senza titolo, (Steven Herrera)
© Charlie Simokaitis

Steven Herrera aveva 25 anni, quando, da un tipico giovane laureato con un nuovo lavoro, una casa e un’auto è stato trasformato involontariamente in un uomo cieco, durante un’unica notte. I medici sono ancora perplessi sul suo caso e come la retina di Steve si sia staccata mentre dormiva, rendendolo non vedente al 99%. Alla fine Steven è tornato da sua madre, dove ha vissuto negli ultimi 10 anni. Quando Steven è stata colpito dalla cecità ha trascorso mesi a letto, per paura di avventurarsi fuori della sua camera e il rifiuto di credere che la sua visione non riapparisse miracolosamente e improvvisamente così come era scomparsa. Il suo racconto di svegliarsi al mattino prima della sveglia e tentare di guardare intorno nello spazio buio che un tempo era la sua camera da letto è veramente raccapricciante. Una volta trasferitosi dalla madre, questa -prima di andare al lavoro- non solo deve preparare la prima colazione, ma deve lasciare sul comodino accanto al letto anche il pranzo. Una settimana prima del mio arrivo ad Oklahoma per questo scatto, un uomo era arrivato in macchina fino a dove Steven aspettava l’autobus e gli aveva offerto un posto di lavoro. In questa immagine la madre di Steven è un riferimento alla Madre in generale, che guarda verso il cortile per assicurarsi che i bambini che stanno giocando fuori sono contenti e in sicurezza. Catturato nel riflesso del vetro della porta posteriore, Steven è letteralmente e figurativamente il bambino nel cortile.

Charlie Simokaitis

Senza titolo, (Timothy Paul)
© Charlie Simokaitis

Timothy Paul gioca a “baseball cieco”, in cui tutti i partecipanti hanno gli occhi bendati (per, come si dice, “livellare il campo”, visto che molte persone non vedenti possono comunque vedere forme, ombre, e così via) e una palla che emette suoni è lanciata verso i giocatori. Se il battitore colpisce la palla con successo, una delle due basi che emettono suoni segnala al corridore in che direzione correre. La parte affascinante è che in quanto corridore devi correre a piena velocità nel buio totale. Come nel film di Harmony Korine “Gummo”, che fonde con successo personaggi della vita reale e realtà con gli elementi a carico di un intervento artistico, anch’io ho trovato il mio conforto in uno spazio ambiguo tra realtà e finzione. Detto ciò, ho uno sguardo olistico rispetto a questo progetto, ogni immagine è simile a una scena di un film. Elementi o personaggi che, in primo luogo appaiono incongrui, mano a mano che il film va avanti diventeranno motivi precisi.

Charlie Simokaitis

Senza titolo, (Robert Thompson)
© Charlie Simokaitis

Lo scorso anno ho visto “Frammenti” di Becket, regia di Peter Brook, la cui forte illuminazione e la coreografia, per non parlare dell’incredibile filone di emotività e di umorismo, sono citati in molti dei miei ritratti di ciechi. Quando ho incontrato per la prima volta Robert Thompson, mi ha salutato nella hall del suo palazzo e prima che potessimo dirci nulla mi ha consegnato un paio di bicchieri di carta, con un piccolo foro di 5 gradi. Questi occhiali sono stati creati per riprodurre gli effetti della Retinitis Pigmentosa, che si traduce di solito nel restringimento del campo visivo a partire dalla periferia. Siamo poi andati a fare una passeggiata in un vivace quartiere urbano con Robert che mi guidava. E abbiamo riso tantissimo.

Robert è affetto dalla Sindrome di Usher, che l’ha portato ad essere giuridicamente non udente e non vedente. È un amante della musica e la percepisce con una mano su una cassa o sulla radio come le persone presenti nel documentario di Werner Herzog “La Terra del silenzio e delle tenebre”.

simokaitis_6

Senza titolo, (Robert Thompson)
© Charlie Simokaitis

Questa fotografia (prima in alto) è stata scattata sotto al lucernario del mio palazzo – nella parte inferiore di un pozzo nel centro del nostro edificio dove la luce naturale può arrivare nelle stanze e negli appartamenti che stanno sopra. Perché la sindrome colpisce il suo equilibrio, Robert ha un’andatura dal carattere distintivo, che ha portato lo ha portato ad essere fermati dalla polizia in varie occasioni pubbliche per sospetta ubriachezza. Abbiamo dovuto fare attenzione, mentre ci siamo fatti strada attraverso la miriade di tubi e condotti della mia cantina. A Robert è piaciuta tantissimo la posa (può vedere qualche cosa) e ha ritenuto che rappresentata molto bene la sua vita.

Inoltre, Robert è pure cieco nel centro della retina cosicché non si è visto in viso da più di 20 anni. Quando ho fatto le due fotografie nel suo bagno, Robert si stava ancora riprendendo da un morso quasi fatale di un ragno violino, che lo aveva punto sul viso mentre dormiva, cosa che ha avuto come risultato un lungo ricovero all’ospedale. Quando abbiamo fatto le immagini nel dittico ha detto ridendo, “Io di solito la barba me la faccio al buio!”

Charlie Simokaitis

Senza titolo, (Amy Bosko)
© Charlie Simokaitis

Ho fotografato Amy Bosko prima di una tempesta sulle rive di un canale che scorre dietro la casa in cui abita con la madre e il fratello. Ho visto in Amy un surrogato di mia figlia. Ha la stessa età di Faye, anche se la sua cecità è molto più avanzata. Questo scatto è stato fatto durante la prima fase del progetto e non ero ancora pronto a fotografare la mia bimba in questo contesto. Volevo anche avere la possibilità di vedere com’è la vita di un bambino cieco prima di poterlo fare. In molte discussioni che ho avuto con Amy prima di scattare, sono stato colpito dal suo desiderio di essere alla ribalta, al centro dell’attenzione. Come tanti bambini, la sua ambizione numero uno nella vita è quella di “essere famosa”. Ho imparato nelle successive conversazioni delle sulle difficoltà ad essere una ragazza cieca in una classe piena di bambini vedenti, le sfide sociali che questo rappresenta in termini di sviluppo di amicizie. Per me questa immagine rappresenta la solitudine che spesso accompagna un figlio non vedente in un mondo di vedenti. Questo è l’abito che Amy ha indossato al suo recente festa di compleanno, in cui ha festeggiato il suo nono compleanno.

Charlie Simokaitis

Senza titolo, (Jackie Anderson and Coby Livingstone)
© Charlie Simokaitis

Questo dittico è composto da Jackie Anderson e Coby Livingstone, due sorelle non vedenti. Jackie vive a Chicago e Coby è stata fotografata quando ero a Oklahoma City. C’è anche una terza sorella, Wendy che ho in progetto di fotografare nei prossimi mesi. Nell’uso dello sfondo e dell’abbigliamento vi sono riferimenti alla visione inversa/negativa. Questi sfondi mi ricordano sempre vecchie tende e tele del circo, e alludono alla alterità degli artisti circensi e i deformi marginalizzati sfruttati per le loro anomalie. La presenza del topo allude simpaticamente alla nozione di queste sorelle intese come addestratori o scherzi della natura, allo stesso tempo citando anche la famosa filastrocca “i tre topi ciechi”.

Charlie Simokaitis

Senza titolo, (Henry and Faye)
© Charlie Simokaitis

Questa foto è stata scatta il Giorno del Ringraziamento a Milford, Ohio. Qualche minuto prima dello scatto Henry, (a destra) mio nipote, stava divertendo grandi e piccini con il suo repertorio di danza. Quando l’estate scorsa il fotografo Robert Lyons ha discusso il mio lavoro mi ha chiesto perché non avevo ancora fotografato mia figlia, visto che lo slancio del progetto nasce con lei. Come dimostra la sua espressione, si potrebbe indovinare l’atteggiamento di mia figlia a proposito. Ma la storia con Faye è più complessa, visto che è un po’ autistica ed è anche eccezionalmente ribelle, soprattutto quando sente che è come se la si stesse guardando. Non sorprende, dunque, che non ci sono mai state bambole nella sua camera da letto visto che sarebbero state rapidamente buttate fuori.

Charlie Simokaitis

Senza titolo, (Jennifer Justice)
© Charlie Simokaitis

Jennifer Justice, che ho fotografato in precedenza travestita da Santa Lucia, patrona dei ciechi, è in piedi in mezzo alla neve con il suo fidanzato Kevin, pure lui cieco. Jennifer viene da Tuscumbia, Alabama, la citta natale di Hellen Keller, dove una volta è stata selezionata per essere il Grand Marshall della parata annuale di Helen Keller. Il mio intento era quello di creare una sorta di accompagnamento per il dittico di Robert mentre si sta facendo la barba, con la sua calda luce accogliente, un uomo in maglietta che si rade nel limitato spazio di una stanza da bagno. Questa immagine fornisce un contrappunto con la sua tavolozza più fredda; qui i modelli sono vestiti, in modo vagamente formale, per il freddo, in un grande spazio aperto. Mentre passavo la maggior parte di questa triste giornata invernale girellando con Jennifer e Kevin nell’appartamento che condividono, mi ha colpito un profondo senso di ottimismo, grazie ai sentimenti che questa giovane coppia condivide l’uno per l’altro.

 

Le persone che ho fotografato per questo progetto sono state molto generose offrendomi il loro tempo e la loro volontà di aprire le loro case e la loro vita per me. L’universale e genuino entusiasmo per il progetto testimonia la volontà di queste persone non vedenti di diventare più visibile a tutti noi. In ultima analisi, via via che passo più tempo con le persone non vedenti sto sviluppando una perversa parentela con la condizione reale che sarà probabilmente richiesta dalla cecità di mia figlia.

]]>
/it/2009/charlie-simokaitis/feed/ 0
Pornografia e sesso esplicito: l’autonegazione dell’arte contemporanea /it/2009/arte-pornografia-sesso/ /it/2009/arte-pornografia-sesso/#comments Fri, 09 Jan 2009 16:54:08 +0000 /?p=825 Related posts:
  1. Le gallerie di fotografia e arte contemporanea a Barcellona
  2. Le quattro bellezze di Liu Zheng
  3. La città del cubo infinito
]]>
Michaël David André

Nell’articolo su Paris Photo ho già accennato ai rapporti fra sesso/pornografia e fotografia artistica contemporanea. È un argomento interessante, che può essere articolato in vari modi. Da una parte la censura tipo quella cui è stato recentemente sottoposto Bill Henson, dall’altra una forma invece di autocensura un po’ perbenista che si autoimpongono molti fotografi/artisti contemporanei che lavorano sul sesso, o infine i lavori che invece non temono di essere espliciti come quelli di Andres Serrano o Terry Richardson. Piuttosto che fare di tutta l’erba un fascio, scrivendo l’articolo mi sono reso conto che è meglio fare una mini serie di articoli indipendenti.

Quello di oggi è dedicato alla forma di autocensura cui ho appena accennato. Per mettere subito le cose in chiaro sottolineo che non voglio fare nessuna schematizzazione dicendo che tutta la fotografia erotica corrisponde a quanto scrivo. Mi limito solo a rilevare un andamento, che mi pare ben evidente, una prassi seguita da un numero relativamente elevato di fotografi/artisti. E perché tutto sia chiaro sottolineo anche che mi riferisco alla fotografia artistica, dove intendo quella che viene esposta e venduta nelle gallerie e nelle fiere d’arte contemporanea. Fotografia prevalentemente concettuale e intellettuale, sullo stile, per intendersi, di quella che si vede sui blog Hippolyte Bayard o Conscientious. Molti altri fotografi trattano temi erotici, spesso con grande maestria e valore artistico, ma -in una formalizzazione delle categorie fotografiche piuttosto accettata- sono di solito classificati più nella fotografia commerciale e editoriale, glamour/erotica, o come dir si voglia.

La tesi di questo articolo è che esiste una corrente ben nutrita di artisti che fanno fotografia fine-art che, seppur lavorando direttamente sul tema della pornografia e del sesso, finiscono in qualche modo per autocensurarsi, per rendere implicito il sesso esplicito. E la fanno spesso utilizzando espedienti stilistici simili a quelli di cui ho parlato recentemente in La Cina di Yann layma. È stato un presentimento che ho sempre avuto, ma per esempio a Paris Photo 2008 l’impressione è diventata molto più forte. I fotografi che conosco che possono esser raggruppati sotto questo tratto comune sono già relativamente numerosi, ma sarei pronto a scommettere che nei prossimi mesi ne vedrò molti altri che corrispondono a questo profilo.

Nell’articolo su Paris Photo citato poco sopra avevamo già parlato dei fotografi Atta Kim, e Frédéric Delangle e dei loro lavori sul sesso, ottenuti sovrapponendo diversi scatti indipendenti per quanto riguarda il primo, e lasciando l’otturatore aperto per lunghi periodi per il secondo, ma in entrambi i casi avendo come risultato di sfocare e stemperare le immagini fino a renderle irriconoscibili, fino ad eliminare ogni traccia evidente di sessualità. Certo, si riesce ancora ad intuire la struttura dei corpi, una gamba nuda, un braccio, ma al contrario nemmeno l’ombra di un seno o dei sessi dei protagonisti dell’amplesso, dettagli dell’immagine completamente cancellati, o se vogliamo censurati, dal particolare procedimento tecnico seguito dai due fotografi.

Quanto detto è particolarmente vero per quanto riguarda le fotografie Coito di Frédéric Delangle, dove i corpi diventano una nube evanescente di luce, dove sul supporto sensibile alla fine rimane solo l’unione dei corpi, mentre questi spariscono, si fondono, vengono meno, che alla fine è una bella immagine vivida e rappresentativa dei rapporti sessuali. I lavori di questi due fotografi mi piacciono molto, tanto per l’idea che c’è dietro, che per la realizzazione e le immagini che esteticamente trovo particolarmente piacevoli. In questo articolo il focus non è tanto sulla qualità delle opere fotografiche, ma sul fatto che nei lavori che dovrebbero rappresentare il sesso esplicito in generale si fa di tutto per nasconderlo, per renderlo solo intuibile. Senza che questo esprima per forza una scala di giudizio, è solo una constatazione che vuole esser fonte di riflessioni.

Un altro fotografo di cui amo particolarmente il lavoro e che ricorre ad espedienti simili è Michaël David André. Anche in questo caso si tratta di una rappresentazione esplicita di un rapporto sessuale, e anche questa volta tramite il flou si nascondono i dettagli dei corpi e dell’atto stesso. Invece di sfruttare il tempo di posa o la sovrapposizione delle immagini Michaël David André utilizza delle deformazioni ottiche, utilizzando un sistema di lenti che ha messo personalmente a punto. Il risultato personalmente lo trovo splendido, onirico, sognante, a tratti inquietante, fantasioso e veramente solido. Sul suo sito le immagini sono molto numerose e una buona decina sono veramente splendide, attenta visita caldamente consigliata. Lo Insisto sul mio apprezzamento delle foto di Michaël David André perché come prima non discuto la qualità delle immagini, ma il fatto che una serie di fotografie dedicata al sesso non mostri di fatto niente di questo, se non stimolare l’immaginazione dello spettatore.

Thomas Ruff, uno degli artisti contemporanei tedeschi più influenti, ha anche lui lavorato sul sesso, anche lui utilizzando immagini esplicite e sfumandone i dettagli fino a renderli irriconoscibili. In pratica Thomas Ruff ha scaricato dai sito porno su Internet delle miniature di fotografie che rappresentano esplicitamente rapporti sessuali. Ingrandendole poi a dismisura ha creato immagini in cui si riesce sempre ad intuire l’atto sessuale, ma i dettagli dell’amplesso sono completamente sfumati, con il contraddittorio risultato già descritto di alludere esplicitamente il sesso evitando accuratamente di farlo esplicitamente.

Thomas Ruff

© Thomas Ruff

Dal punto di vista concettuale il lavoro di Thomas Ruff è estremamente interessante e se ne potrebbe parlare per ore. Partendo dal rapporto fra il mondo reale e l’universo parallelo rappresentato da internet, passando per l’uso di immagini di terzi come se fosse il materiale grezzo di uno scultore, il blocco di marmo ancora da scavare, per arrivare poi alla decostruzione ricostruzione dell’immagine. Dal punto di vista estetico invece non sono un amante di questo genere di lavori. Intellettualmente mi sento solleticato e ammiro l’idea, ma non comprerei mai per appenderla in casa quella che ai miei occhi non è altro che una brutta foto pornografica, fra l’altro pure sfuocata. In questo preferisco infinitamente le fotografie di Atta Kim, Frédéric Delangle e Michaël David André, che, ad averlo, comprerei e appenderei volentieri sulle pareti di un bel loft di 1000 metri quadrati. Nei loro casi il risultato sono immagini poetiche e sognanti, che, seppure ne velano i dettagli, comunque rappresentano in modo vivido il sesso e certe emozioni che lo accompagnano. Sulle foto di Thomas Ruff, al di la della bella idea, per quanto riguarda la forma continua ad aleggiare l’impressione di pornografia masturbatoria da quattro soldi.

Un altro famoso artista concettuale (suoi sono per esempio i controversi maiali tatuati) che fa uso della fotografia ma che non è possibile qualificare come fotografo è Wim Delvoye. Fra i suoi tanti lavori ce ne è anche uno dedicato al sesso: sexrays. Wim Delvoye ha infatti chiesto ai suoi amici di ingerire oppure, secondo le fonti, di spalmare sul proprio corpo una piccola quantità di bario e poi avere rapporti sessuali in modo da scattare delle fotografie ai raggi x del coito.

Rispetto alle fotografie descritte precedentemente il risultato è certamente più esplicito, visto che in alcune immagini, oltre alle ossa che sono ben visibili, rimane anche una traccia della carne, è possibile riconoscere chiaramente il profilo di un pene, la lingua dei partner, il bordo della pelle. Nonostante questo, l’astrazione rispetto alla realtà, ad una rappresentazione diretta del sesso è innegabile. Quello che si vede sono non è un atto pornografico fra due persone, ma dei teschi che si abbracciano, dei crani intenti in una fellatio inquietante e disumanizzata, un bacio d’avorio scambiato fra denti, mandibole e mascelle. Sembrano quasi più immagini medicali che fotografie erotiche. C’è un famoso test psicologico di un’immagine di donne nude che può essere letta come dei delfini che nuotano in mare. La maggior parte degli adulti riconosce il nudo, mentre i bambini vedono solo i delfini. Sono sicuro che, nonostante le foto di Wim Delvoye siano comunque esplicite, la maggior parte dei bambini vedrebbe solo i teschi e non il sesso.

Edouard Levé

© Edouard Levé

Un fotografo invece che lavora anche lui sul sesso, ma che di questo non mostra assolutamente niente di niente, nemmeno cancellandolo perché di fatto il rapporto non ha nemmeno avuto luogo, è Edouard Levé. Nelle sue fotografie infatti due partner di mezza età, o più spesso gruppi più numerosi di persone, mettono in scena degli atti sessuali totalmente simulati. Completamente simulati perché questi uomini e donne dai volti impassibili e inespressivi, non hanno nemmeno levato i loro vestiti. Le immagini sono di una freddezza totale e asettica, nessuna traccia di emozione o di eccitazione, solo persone come gusci che mimano qualcosa che non c’è. Sono fotografie tristi, perfase forse di quella tristezza che ha l’anno scorso ha portato Edouard Levé a togliersi la vita, subito dopo aver consegnato al suo editore la copia definitiva del suo nuovo libro intitolato appunto “Suicidio”. Fotografie depresse e esteticamente senza nessuna concessione.

A conseguenze simili a quelle di Edouard Levé arriva Benjamin Deroche. Ancora una volta un lavoro che sarebbe sul sesso e il bondage, con un chiarissimo e esplicito richiamo alle fotografie di Araki. Questa volta però non sono le bellissime giapponesi delle fotografie di Araki ad avere la pelle sciupata dalle corde che ne stritola i seni e le cosce, non sono le ragazze orientali piene di grazia ad essere sospese nell’aria, ma dei galletti pronti per essere arrostiti. Come negli altri casi il richiamo sessuale è perfettamente esplicito, ma la sua rappresentazione diretta è completamente assente, tanto ad arrivare ad una sorta di forma di pareidolia visiva. Il sesso di fatto non c’è ma si finisce per vederlo lo stesso. Quando guardo i polli di Benjamin Deroche infatti quello che vedo non sono le carcasse degli animali, ma le splendide fanciulle dagli occhi a mandarla così ben fotografate da Araki, sospese per aria, nella loro elegante danza feticista e sadomaso.

John Haddock

© John Haddock

L’eliminazione formale della pornografia dalle immagini che gli sono dedicate è infine spinta al parossismo da John Haddock. Ancora una volta si tratta di foto porno prese da internet, questa volta però i corpi non vengono sfumati in maniera da nascondere le parti genitali e l’amplesso dei protagonisti, questi vengono direttamente cancellati dalla fotografia con Photoshop. Quello che rimane è una specie di fossile ambientale, come se nella stanza fosse rimasto solo l’odore del sesso dopo che ognuno se ne è andato per la sua strada. Come se da una scena di un delitto venisse volatilizzato il cadavere e tutte le prove venissero pulite, lasciando comunque evidente l’intento di cancellare le proprie tracce, proprio come nella serie di John Haddock.

Un lavoro molto simile è quello di Brandt Botes. Anche lui scarica fotografie pornografiche su internet e anche lui ne fa sparire i corpi. Questa volta però, invece di cancellarli con il timbro clone, li ritaglia, lasciando delle silouette bianche sull’immagine. Stesso discorso valido per tutti gli altri artisti presentati in questa rapida carrellata: allusione estremamente presente al sesso, ma eliminandolo del tutto dall’opera. Possibile però che tutti quanti scarichino foto da internet, facciano sparire la pornografia e dichiarano che è arte?

Brandt Botes

© Brandt Botes

In questa veloce panoramica di autori è evidente come, nella fotografia artistica contemporanea sia presente un folta schiera di autori che lavora sui temi della sessualità e della pornografia, ma negandoli formalmente, lasciandoli solo intuire. Molti altri fotografi e artisti danno del sesso una rappresentazione esplicita e diretta, come vedremo nei prossimi articoli, ma ho l’impressione che per quanto riguarda la fotografia fin-art attuale l’atteggiamento descritto in questo articolo sia dominante.

Resta da rispondere ai perché. Quali sono le motivazioni che hanno portato a questo stato di cose? Perché sembra che fotografia d’arte e pornografia oggi fatichino ad andare a braccetto? Nascondere l’atto sessuale è un modo per rendere le immagini più accettabili ai galleristi e al pubblico? Si tratta di un tentativo di rendere le opere più politicamente corrette oppure di fatto la rappresentazione esplicita del sesso non era nelle intenzioni degli autori?

]]>
/it/2009/arte-pornografia-sesso/feed/ 3
Le nuove gomme bicromate su legno di Massimo Attardi /it/2008/gomme-bicromate-legno-massimo-attardi/ /it/2008/gomme-bicromate-legno-massimo-attardi/#comments Mon, 09 Jun 2008 09:20:32 +0000 /?p=465 Related posts:
  1. Le gomme bicromate di Massimo Attardi
  2. E due
]]>
Massimo Attardi

Gomma bicromata su legno 100x100cm
© Massimo Attardi

Come abbiamo detto nell’ultimo post, l’intervista a Massimo Attardi è in assoluto l’articolo più cliccato di Camera Obscura. I lettori saranno quindi felici di apprendere che poco tempo fa Massimo Attardi mi ha contattato per inviarmi le sue ultime gomme bicromate su legno. Oltre alle riproduzioni delle nuove opere, in una godibilissima risoluzione, mi ha inviato anche un nuovo video che lo mostra al lavoro, un video splendidamente realizzato che ci porta per un attimo nel magico atelier di un artista che stampa gomme bicromate di grande formato (in fondo all’intervista). Con l’idea di presentare tutto questo nuovo materiale ho approfittato per fare qualche nuova domanda a Massimo Attardi.

 

Fabiano Busdraghi: Nel tuo lavoro precedente, rispetto a quello degli scorsi anni, mi sembra di notare dei colori più dolci e pastello, più tenui, più delicati. Le donne sembrano meno aggressive, meno notturne. Me le immagino volentieri nella luce morbida del mattino, quando si sono svegliate da poco. Stai evolvendo verso una rappresentazione più morbida oppure semplicemente in questi tempi sono questi i colori che ti va di usare?

Massimo Attardi: In effetti sto cambiando un po’ l’utilizzo dei colori: cerco di trovare un equilibrio più morbido tra questi e di uscire dal modo tipicamente pittorico di usare la gomma bicromata.

Sto usando delle maschere quando stampo e poi intervengo anche manualmente sulla stampa asciutta. Insomma sto sperimentando.

 

Fabiano Busdraghi: Quando stampi hai un’idea precisa del risultato che vuoi ottenere o la camera oscura è un terreno di gioco e di scoperta? Nel tuo lavoro parti da un’idea, o se vogliamo un’ispirazione, e inizi a tirarla fuori dalla materia poco a poco, come fa uno sculture scavando nel blocco di marmo? Oppure la serendipità è una componente importante del tuo lavoro, sperimenti lasciando l’immagine evolvere quasi da sola fino a che il caso non ti regala una splendida sorpresa?

Massimo Attardi: Beh, il caso è sempre stato una componente di quasi tutto il lavoro artistico, quando questo porta ad un risultato migliore di quello preventivato va bene, a volte, può dare l’indicazione per una ulteriore strada da esplorare, fermo restando però che nel progetto iniziale di un lavoro, c’è già un’idea formata.

Iniziare un lavoro senza avere nessun tipo di linea lavorativa, il più delle volte non porta a nulla. A quel punto è meglio non cominciare neanche a lavorare.

Nel caso particolare del mio lavoro, dopo ogni passaggio, confronto mentalmente il risultato, con il progetto iniziale, dopodiché continuo con i passaggi successivi, oppure apporto delle piccole modifiche.

Se eventualmente, dopo un passaggio, mi venisse in mente un’idea radicalmente diversa, la applico ad un lavoro successivo.

 

Massimo Attardi

Gomma bicromata su legno 100x200cm
© Massimo Attardi

Fabiano Busdraghi: Sento spesso gli italiani lamentarsi del fatto che l’Italia sia rimasta indietro, che ci riposiamo sugli allori di un passato illustre, ma che dal rinascimento abbiamo combinato poco. Che l’Italia è un paese di musei che sanno di stantio, che l’arte contemporanea si fa altrove. Che l’accettazione della fotografia come forma d’arte qui ancora non è arrivata. Che per esporre, nella penisola molto più che altrove, sono necessarie reti e contatti infiniti, conoscenze e raccomandazioni. Che di artisti italiani ce ne sono a decine ma sono costretti a viaggiare e esporre all’estero, un po come la tanto lamentata fuga dei cervelli.

In un certo senso è vero che l’Italia riposa molto sulla sua storia, ma mi chiedo quanto sia poi un rimpastare luoghi comuni. Te cosa ne pensi? Quale ti sembra essere la situazione artistica italiana? E Roma in particolare? C’è una differenza così marcata fra fotografia e le altre arti visive?

Massimo Attardi: Rispondere a queste domande probabilmente non basterebbero molte pagine, per cui, per forza di cose, sarò un po’ sintetico.

L’Italia, purtroppo, è quasi sempre stata colonia, culturalmente, politicamente, artisticamente.

Dico “quasi sempre”, perché per fortuna non è sempre stato cosi’, ma ultimamente mi sembra che l’appiattimento e l’omologazione verso certi modelli artistici non italiani, sia evidentissimo.
L’arte contemporanea si fa anche in Italia, ma è anche vero che la città italiana più a sud dove si “lavora” con l’arte contemporanea è Milano (a parte qualche eccezione a Torino e Roma).

All’estero, può essere più duro lavorare, ma, secondo me, c’è più probabilità di veder riconosciuto il proprio lavoro, (se valido).

Le raccomandazioni e le conoscenze, come “modus” per acquisire notorietà, in questo caso rappresentano un malcostume (purtroppo o per fortuna) non solo italiano, ma, credo, mondiale.
Però riuscire a presentarsi e a proporsi nel modo giusto, è importante. anche se chi fa arte, non sempre è un buon venditore di se stesso.

A Roma, negli ultimi anni, sicuramente qualcosa si sta muovendo. in generale però mi sembra che ci sia sempre la paura di rischiare, appoggiandosi su nomi sempre già abbastanza conosciuti,

Vorrei, prima di continuare su questo tema, specificare chiaramente, che io non sono un fotografo. Io uso la fotografia. Chi fa arte, usa un mezzo. È cosi’ importante quale usa? Non c’è assolutamente nessuna differenza tra la fotografia e le altre arti visive.

Massimo Attardi

Gomma bicromata su legno 100x100cm
© Massimo Attardi

Se le gallerie d’arte contemporanea espongono anche foto, considerandola evidentemente alla pari con altre forme d’arte visiva, che senso hanno le gallerie che espongono solo fotografie? Forse sono proprio queste gallerie che relegano la fotografia in un ambito di pochi, che considerano la fotografia (togliendogli quel respiro che da un bel po’ ha), come cosa a sé stante, diversa, e in qualche modo più “pura”, dall’arte contemporanea. Insomma, mi sembra proprio che quello della fotografia, sia una specie di isolamento voluto, e voluto proprio da chi dice di amare la “fotografia”, che fa mostre, riproponendo un cliché obbiettivamente un po’ stantio, di immagini viste, riviste, se non palesemente copiate. E questo probabilmente è il difetto più grave di un certo ambito fotografico, dove il nero più nero, il bianco più bianco e il grigio più grigio, è più importante di cosa si è fotografato.

 

Fabiano Busdraghi: Sono d’accordo con te, non c’è nessuna differenza fra fotografia e arti visive, come sto cercando di dimostrare con una serie di articoli su Camera Obscura che si intitola “fotografia e verità”. Il problema è che la maggior parte degli artisti, dove intendo “gente che smanetta per produrre qualcosa” usa il procedimento fotografico come potrebbe usare un pennello, uno scalpello, la colla o qualunque altro oggetto o supporto. In modo molto libero insomma. I fotografi, dove intendo chi semplicemente va in giro con la macchina e poi si fa le sue stampe, in genere si sono creati tutta una serie di paletti e di procedure ortodosse che nella loro visione non possono essere modificate, una serie di limiti invalicabili.

Perché succede questo? Credo che originariamente sia dovuto a questo vecchio equivoco di considerare la fotografia come un mezzo di riproduzione fedele della realtà. A me i limiti vanno stretti probabilmente quanto a te, ed è per questo che cerco di far capire ai fotografi quanto sia illusorio. Va detto però che la fotografia può essere utilizzata in tanti modi. Esiste la fotografia artistica, la foto di reportage, la quella di un catalogo pubblicitario, la fotografia scientifica, il ricordo sulla spiaggia, etc. Ognuno ha un linguaggio che gli è proprio e la sua destinazione d’uso, è questo quello che cambia, il metodo di lavoro, il mercato, il pubblico cui si risolve, non la fotografia in se. Questo giustifica in parte la presenza di gallerie dedicate unicamente alla fotografia.

Di fatto, in un mondo ideale, l’esistenza di gallerie unicamente fotografiche si giustifica infatti in termini puramente commerciali. Il gallerista cerca di selezionare tematicamente il proprio lavoro perché si rivolge ad un mercato ben preciso (le gallerie, lo sai probabilmente meglio di me, più che fare “arte” fanno “mercato dell’arte”). Se sa che c’è gente che compra l’immagine fotografica standard, senza ritocchi, montaggi, contaminazioni, etc decide di specializzarsi solo in quella, perché ha un bacino di utenza ben preciso. Oppure può scegliere di vendere della fotografia, diciamo più creativa. Oppure di mettersi in linea con altre gallerie di arte contemporanea dove il mezzo e il supporto non hanno quasi nessuna importanza, e quindi esporre occasionalmente fotografia mista ad altri media. Insomma, secondo me la scelta è puramente commerciale. Il problema è che spesso c’è una grande confusione. Le gallerie espongono un po’ questo un po’ quello. La gente, il pubblico, chi compra, è piena di pregiudizi su cosa sia arte, cosa sia fotografia, cosa sia oggetto e opera, etc. E tutto il casino nasce proprio qui. Idealmente sarebbe semplice no? Ogni fotografo o ogni artista fa quello che gli pare. Se il lavoro è bello lo si vende, chi se ne frega poi di cosa sia e dove lo esponga.

Massimo Attardi

Gomma bicromata su legno 100x100cm
© Massimo Attardi

Per finire, l’ambito fotografico cui fai riferimento, del nero più nero e della precisione tecnica, in generale nelle gallerie e nei musei (almeno a Parigi) per fortuna si vede veramente poco. Ho l’impressione che è più rilegato agli amatori, ai fotografi della domenica, al vecchietto che occupa il proprio tempo, a chi perde giornate sui forum di internet invece di fare immagini. La gente veramente forte fa bei lavori e basta.

Ma smetto di dilungarmi e ti faccio subito un’altra domanda geografica. In passato si è parlato molto di scuole e stili regionali. La fotografia tedesca, la scuola di Dusseldorf. Oggi invece, per dire, si vedono fotografi cinesi che hanno uno stile perfettamente occidentale. Credi che ormai tutte le barriere geografiche siano cadute, che l’arte sia globale, oppure restano delle specificità territoriali? Nel tuo lavoro è possibile riconoscere una certa “italianità” oppure non ha niente a che vedere con il paese in cui sei nato?

Massimo Attardi: Per mia natura, sono contrario ad una idea di confine, anche mentale. Certo l’influenza del luogo dove si nasce o si lavora è inevitabile. La tendenza, per esempio, ad iconicizzare (e ad esorcizzare) il passato del proprio paese, è un passaggio quasi obbligato, dopo però avviene un rimescolamento con tutto ciò che proviene da “fuori”, quindi, la contaminazione, in varie misure, modifica e anche, stravolge l’idea di identità artistica. Fortunatamente!

Per quanto mi riguarda, io non mi sento molto italiano.

Guardo in giro, prendo dove ci sono cose che mi interessano, mastico, metabolizzo, elaboro.
A volte esce qualcosa.

 

Fabiano Busdraghi: A Roma vivi e lavori nel Pastificio Cerere, quindi un luogo comune di artisti Romani. Quanto è importante nel lavoro come nella vita, essere a contatto con una comunità artistica? Ci puoi raccontare il Pastificio Cerere con gli occhi di uno che ci vive?

Massimo Attardi: A parte la mia innata riservatezza, e il conseguente starmene abbastanza per i fatti miei, la vicinanza di artisti di grande valore, è molto importante. Stimola molto, ti spinge a migliorare.

 

Massimo Attardi

Gomma bicromata su legno 100x100cm
© Massimo Attardi

Fabiano Busdraghi: Una domanda che ormai faccio ad ogni fotografo intervistato su camera Oscura. Mi capita spessissimo di vedere una fotografia e perderla, in generale per errori tecnici, mancanza di riflessi, o perché la macchina era nello zaino. Stavo anche iniziando a pensare se tenere un diario di fotografie non fatte, foto mai nate. A te capita? Puoi raccontarci una tua foto non fatta?

Massimo Attardi: Mah? no, normalmente non mi capita, anche perché parto con un progetto di massima, e poi lascio completa libertà alla modella, quindi, invece mi capita di fare foto a cui non avevo pensato.

 

Fabiano Busdraghi: Qualche piccola informazione tecnica. Nel tuo video sembra che già dopo uno strato di gomma ottieni degli ottimi neri. Ci avevi già detto qualcosa sulla mescola di gomma e di dicromato. Che pigmenti usi? In che quantità?

Massimo Attardi: Non è facile ottenere dei colori intensi con un solo passaggio, è un po’ rischioso, metà delle volte il risultato è scadente, conviene sempre fare due o tre passaggi. Nel caso del video, avevo solo un’ora a disposizione, e avevo preparato tre tavole. per fortuna è venuto tutto bene al primo tentativo.

Uso normali pigmenti in polvere, le quantità inizialmente le misuravo con un bilancino elettronico. Ora faccio ad occhio.

Le quantità sono circa 1 grammo di pigmento per 10ml di gomma (350g per un litro d’acqua) cui aggiungo 10ml di bicromato (70g per un litro d’acqua). Ma queste misure sono molto indicative, con alcuni colori aumento o diminuisco la quantità di pigmento.

 

Fabiano Busdraghi: Hai qualche scoperta tecnica sulla gomma dicromata che vuoi condividere? Qualche consiglio, astuzia, un comportamento o un effetto che hai notato recentemente?

Massimo Attardi: No, non ho particolari segreti, credo che tutto quello che riguarda la gomma bicromata, sia già stato sviscerato. Un’unica cosa che a volte mi succede, e di cui mi sfugge la causa, è che a volte l’immagine viene completamente invertita, o solarizzata. Per fortuna non succede quasi mai.

 

Fabiano Busdraghi: Nella scorsa intervista ti avevo già chiesto di un fotografo che fa uso di tecniche antiche e che apprezzi particolarmente e ci hai parlato di Jean Janssis. Stesso gioco, ma se vuoi levo il limite delle tecniche antiche. Quindi un altro fotografo di cui ami il lavoro e perché.

Massimo Attardi: Francesca Woodman, giovane e talentuosa poetessa, scomparsa troppo presto. Perché mi piacciono le sue opere? Vibrano. Emozionano. Sono una melodia silenziosa.

]]>
/it/2008/gomme-bicromate-legno-massimo-attardi/feed/ 2
Le città immaginarie di Giacomo Costa /it/2008/citta-giacomo-costa/ /it/2008/citta-giacomo-costa/#comments Thu, 05 Jun 2008 00:46:43 +0000 /?p=432 Related posts:
  1. The Chronicles of Time, di Giacomo Costa
  2. La città del cubo infinito
  3. E due
]]>
Giacomo Costa

Giacomo Costa è un artista fiorentino che lavora in quello spazio incerto che si trova fra la fotografia, il disegno digitale, il render di spazi e il collage. I lettori assidui di Camera Obscura ormai sapranno che mi interesso principalmente a questo tipo di contaminazioni, che nonostante il blog sia di fotografia lascio moltissimo spazio proprio agli artisti che lavorano in questo senso. Il tema dei palazzi, dei collage e della ripetizione fra l’altro mi è particolarmente caro, come è evidente per esempio nella mia serie sui palazzi infiniti.

Quando iniziai ancora non avevo mai sentito parlare di Giacomo Costa. Oggi, confrontando il mio lavoro con il suo, sebbene il risultato visivo sia molto diverso, come del resto la tematica soggiacente, è inevitabile trovare molte affinità e punti in comune. Giacomo Costa, in un certo senso, diventa allora un mio maestro inconsapevole. Inconsapevole tanto da parte sua che da parte mia, ma comunque un punto di riferimento importante, che mi sento di dover citare quando parlo di quello che faccio.

Giacomo Costa

© Giacomo Costa

È stato quindi un piacere e un onore dare inizio ad una conoscenza più concreta grazie a questa intervista. Tanto più che Giacomo Costa si è rivelato una persona simpatica e ironica, una dote quest’ultima che è fra quelle che apprezzo di più in assoluto. Il risultato è una delle interviste più gustose che ho fatto nell’ultimo anno. Grazie Giacomo!

 

Fabiano Busdraghi: Come hai iniziato a fotografare? Qual’è la tua storia di fotografo?

Giacomo Costa: È una storia contorta, un percorso a zig-zag.

Avevo da anni lasciato la città per vivere in montagna facendo l’alpinista e tutti quei lavori che mi permettevano di sopravvivere. Parte dei miei guadagni derivavano da sponsor tecnici che ci pagavano per indossare e utilizzare i loro materiali durante le nostre scalate. Perciò era necessario che qualcuno di noi, uno della cordata, facesse delle foto. Quel ruolo è toccato a me. La cosa mi piaceva così ho iniziato a fare anche foto di paesaggio, cose da cartolina e da azienda del soggiorno.

Giacomo Costa

© Giacomo Costa

Quando poi quella vita mi aveva stancato e dopo un grave incidente, tornato in città, l’unica cosa “umana” che sapevo un po’ fare era il fotografo. Ho iniziato a lavorare nel mondo della ritrattistica e della musica ma subito ho capito che non era la mia strada, che non riuscivo a lavorare seguendo una direzione artistica, una committenza. Così, dopo aver studiato e ricercato per anni, tra camera oscura, pellicole, obbiettivi, flash e quant’altro ho mollato la fotografia commerciale, avendo però guadagnato una discreta esperienza che mi è poi risultata fondamentale nella nuova attività di ricerca artistica.

 

Giacomo Costa

© Giacomo Costa

Fabiano Busdraghi: Che cosa rappresenta per te la fotografia?

Giacomo Costa: Il modo più efficace di effettuare comunicazione visiva, lo strumento più diretto per mostrare i proprio sentimenti ad un pubblico che non conosce la tua storia né, probabilmente, il tuo mondo.

 

Fabiano Busdraghi: Nel tuo lavoro fotografi individualmente ogni parte della tua immagine. In seguito assembli le varie parti creando un unico grande collage. Da un punto di vista puramente tecnico questo ti permette di ottimizzare ogni parte dell’immagine,fotografare ogni parte in condizioni ottimali. Le immagini inoltre risultano ad alta risoluzione e permettono di stampare molto grande, come appunto fai di solito, mantenendo però una qualità altrimenti ottenibile solo scattando con macchine grande formato.

Questa perfezione formale quanto è importante nel tuo lavoro?

Giacomo Costa

© Giacomo Costa

Giacomo Costa: Questa affermazione è vera per i miei primi lavori, quelli fino al 2000 circa.

In quella prima fase di ricerca mi concentravo sul fotografare ogni singolo palazzo per poi poterlo utilizzare quasi fosse un colore in mano a un pittore. I palazzi erano i miei colori e photoshop il mio pennello. La perfezione formale è tuttora una parte fondamentale del mio lavoro e molto dipende dai miei trascorsi di fotografo diciamo “analogico”. Infatti avendo lavorato tantissimo in camera oscura sono cresciuto con il mito della perfezione, della nitidezza, della pulizia e dell’incisività. Questo bagaglio me lo porto dietro e condiziona molto il mio lavoro. Anche e soprattutto nell’aspetto della composizione dell’immagine, dell’inquadratura seppure virtuale.

 

Giacomo Costa

© Giacomo Costa

Fabiano Busdraghi: Questo tuo uscire dalla sincronicità della fotografia pura, l’inquadratura virtuale come la chiami giustamente, ha anche le sue conseguenze teoriche importanti.

Costruire l’immagine come una moltitudine di frammenti che assemblati ricostruisco il tutto, che impatto ha sulla visione del mondo?

Giacomo Costa: Certamente la mia visione della fotografia adesso è più vicina alla pittura che alla fotografia vera e propria.

Nelle mie immagini cerco di creare una visione emozionale del mondo non documentaristica. La fotografia è, come dicevo prima, un mezzo straordinario per la sua immediatezza di lettura e anche per un senso di verità quasi intrinseca che si porta dentro.

Giacomo Costa

© Giacomo Costa

Il fotomontaggio, anche storicamente, è sempre stato un punto di forza perché lo spettatore è portato, nel dubbio, a dare ragione al lato veritiero della fotografia, in tal modo è sempre stato possibile ingannare e mentire! A me questo aspetto serve per poter comporre l’immagine al fine di testimoniare un mio pensiero in chiave metaforica pur conservando un senso di spaesamento che deriva proprio dal fatto che al primo sguardo lo spettatore tende a cercare di contestualizzare l’immagine anche quando questa è estremamente irreale. Così si resta per un attimo fortemente turbati e coinvolti.

Da questo derivo la mia visione di comunicazione emozionale che solo con un mezzo fotografico sarebbe possibile.

 

Giacomo Costa

© Giacomo Costa

Fabiano Busdraghi: Per ottenere le tue immagini combinando a mano vari elementi eterogenei è necessario tantissimo lavoro e tantissimo tempo. Nell’arte, soprattutto contemporanea, la complessità della tecnica è di solito messa in secondo piano rispetto al risultato finale. Da sempre invece la fotografia si è in qualche modo confrontata con le difficoltà di realizzazione e la complessità tecnica. Immagini ottenute tramite procedimenti lunghi e difficili sembrano spesso avere un valore aggiunto. Lunghe manipolazioni ottenute in camera oscura venivano esposte con orgoglio. Oggi quando in pochi secondi è possibile ottenere lo stesso risultato con un filtro di Photoshop nessuno pensa più di proporre quel tipo di stampe come opere d’arte.

Nel tuo caso, sei interessato unicamente al risultato finale, e passare per il collage è l’unico modo possibile per ottenerlo? Oppure nel processo di collage trovi una tua estetica personale, una sua motivazione intrinseca? Il fatto che sia necessaria una componente manuale, anche se filtrata dall’informatica, modifica in qualche modo il valore dell’opera?

Giacomo Costa

Giacomo Costa: Intanto sfaterei il mito della rapidità dell’elettronica! Le mie immagini di adesso, quelle interamente fatte in 3d, richiedono mediamente un mese di lavoro mentre impiegherei pochi secondi se potessi trovare nella realtà un soggetto del genere.

Il procedimento di costruzione virtuale è complessissimo anche perché, a differenza della pittura, prima costruisco un’intera città e poi, come un vero fotografo, cerco l’inquadratura, il tipo di pellicola, l’esposizione e quant’altro. Così facendo a priori non so quale sarà l’inquadratura finale e quindi sono costretto a disegnare con dovizia estrema di particolari anche ciò che magari alla fine è un minuscolo puntino all’orizzonte.

Questo procedimento potenzialmente dilata il tempo all’infinito.

Giacomo Costa

© Giacomo Costa

Il linguaggio che utilizzo è quindi parte fondamentale del risultato finale, è la mia personalissima cifra, il mio stile. Le mie città non hanno un loro significato intrinseco dal momento che non esistono, ma sono figlie del linguaggio e del pensiero metaforico che ci sta dietro. Il cesellare ogni singolo dettaglio per renderlo verosimile, il concentrarmi su minuscole zone dell’immagine ed intervenirci più e più volte crea in me un feeling estremo con l’immagine, mi fa vivere un’esperienza che forse chi fa velieri nelle bottiglie forse può comprendere. Forse anche chi fa ricamo all’uncinetto…chissà!

Comunque è necessario per me perché alla fine mi fa immedesimare in quella città che alla fine conosco meglio di quella vera in cui vivo e questo mi permette poi di poterla fotografare (seppur virtualmente) esattamente come farei se fossi un vero fotografo e dovessi fotografare una vera città.

 

Giacomo Costa

Fabiano Busdraghi: Il fotomontaggio e le manipolazioni delle immagini sono nate con la fotografia. Lo stesso giorno però è nata anche la diatriba che tutt’oggi divide in due schieramenti i critici, i filosofi e gli stessi fotografi. Banalizzando una situazione estremamente complessa si può che da una parte c’è chi vede la fotografia come riproduzione della realtà, e agli estremi, afferma che ogni intervento esterno rende l’immagine non fotografica. Dall’altra chi vede la fotografia come espressione personale, con agli estremi chi dice che senza interventi esterni la fotografia non può essere un’opera d’arte. E poi tutti i pareri più o meno lucidi o confusi che stanno nel mezzo.

Personalmente penso che la fotografia possa abbracciare tanto un aspetto quanto l’altro, e che fotografi di entrambe le correnti di pensiero abbiano prodotto splendide immagini. Ancora oggi però ci sono forti resistenze e prese di posizione rigide, soprattutto dalla parte di chi vede la fotografia come una riproduzione fedele della realtà.

Cosa pensi di questa divisone dicotomica della fotografia?

Giacomo Costa

© Giacomo Costa

Giacomo Costa: A questa domanda ho precedentemente in parte risposto, ma visto che il tema sta particolarmente a cuore adesso cercherò di approfondire ulteriormente.

La fotografia è per forza di cosa una interpretazione della realtà del tutto irreale. Io di solito, eccetto quando sono molto sbronzo, la realtà la vedo a colori e questo già rende abbastanza surreale tutta la fotografia in bianco e nero. Di solito sento rumori, suoni, profumi, temperature, vento, movimento, che non mi capita spesso di vedere/sentire in una foto! Poi mi capita di percepire che la realtà sia tridimensionale e che il mondo difficilmente possa stare in un foglio di carta!

Queste rozze valutazioni già mi rendono difficile pensare che la fotografia sia una riproduzione oggettiva e non manipolata della realtà e stare a discutere su quanto possa o debba essere la quantità di manipolazione accettabile mi sembra veramente un ragionamento un po’ superato.

Giacomo Costa

© Giacomo Costa

Quello che invece è attuale e forse rappresenta la parte vincente della fotografia, è proprio l’alone di verità assoluta che la fotografia intrinsecamente ha. La foto è comunemente usata e pensata come un prova certa, un documento incontestabile e inconfutabile pur sapendo bene che il fotomontaggio, come dicevi tu, è sempre esistito fin dalle origini. Tuttavia l’immagine stampata colpisce dritta al cuore e al cervello lo spettatore che, incantato, accetta l’inganno. Questo approccio permette al fotografo di guidare abilmente i sentimenti dello spettatore attraverso un costante lavoro di manipolazione, scegliendo un’inquadratura invece di un’altra, determinando il contrasto, la messa a fuoco, creando quindi un’immagine che alla fine è totalmente filtrata anche se rappresenta qualcosa che in quel momento davvero era lì davanti all’obbiettivo. Negare questo o fare delle classifiche di quantità di realtà o di manipolazione mi sembra poco interessante.

Tuttavia sono molto contento che ci siano tanti che credono che la fotografia debba essere specchio della realtà perché questo alimenta un senso comune che poi permette a me di ingannare, mentire ed affascinare il pubblico!

 

Giacomo Costa

© Giacomo Costa

Fabiano Busdraghi: Le tue parole mi rendono estremamente contento. Come forse sai sto scrivendo un libriccino per Camera Oscura intitolato fotografia e verità, dove le conclusioni sono praticamente quelle che hai appena scritto! La cosa che mi piace particolarmente e che mi fa sorridere è questo tuo approccio un po’ canzonatorio. Non solo per te questo discorso è superato, ma lo sfrutti per ammaliare gli spettatori che ancora ci credono. Grottescamente geniale!

A proposito del pubblico, come vengono accolti allora i tuoi lavori? Ti capita spesso di sentirti dire che assolutamente non sono fotografie ma “altro”?

Giacomo Costa

© Giacomo Costa

Giacomo Costa: In generale io sono il primo a dire che le mie immagini sono altro e sarebbe difficile sostenere che siano fotografie rispetto a quel comune modo di vedere la fotografia. Di solito dico di “dipingere in qualità fotografica”, uso la fotografia come mezzo e non come fine. Altero arbitrariamente il mondo e non mi curo di rispettare la realtà. Faccio quindi altro se pensi a Salgado, la stessa cosa se pensi a Man Ray.

 

Fabiano Busdraghi: Le tue fotografie si riconoscono al primo colpo d’occhio, sia per i soggetti che per l’atmosfera dell’immagine. Da anni ormai stai lavorando sul tema dello spazio urbano, del rapporto dell’uomo alla città. Allo stesso tempo in passato hai lavorato su soggetti (e stili) completamente diversi; come paesaggio montano, ritratto e autoritratto. Stavi ancora cercando una tua visione e adesso hai completamente abbandonato questi temi o continui comunque a produrre immagini diverse dal tuo soggetto principale?

Giacomo Costa

© Giacomo Costa

Giacomo Costa: Sul ritratto lavoravo prima di iniziare la mia ricerca artistica mentre sull’autoritratto lavoro tuttora ma solo per un mio divertimento, non ho mai pensato che fossero immagini pubbliche. Parlano dell’altro lato della mia persona, di quello poco serio, sbandato, pericoloso, un argomento che adesso inizia a interessare il pubblico ma che in realtà era molto più privato.

Viceversa il paesaggio montano è parte del mio percorso di vita e di artista ed è sempre presente nei miei lavori, anche in quelli urbani, sia direttamente come nel caso delle “scene”, sia per antitesi in tutte le serie più metropolitane. Vedo la città affollata e caotica perché ho ben in mente e davanti agli occhi il paesaggio rarefatto della montagna.

 

Fabiano Busdraghi: In passato hai lavorato molto sull’autoritratto, e un autoritratto in cui la messa in scena personale assume molta importanza, fotografie che diventano quasi testimonianza di performance. Puoi parlarci un po’ di questo genere, e di quelle che sono le tue motivazioni in merito?

Giacomo Costa

© Giacomo Costa

Giacomo Costa: Quando ho iniziato a studiare fotografia mi usavo come modello anche perché sono paziente e su di me potevo fare interminabili studi di luce che invece rendevano amici e modelli rapidamente insofferenti. Ma anche in questo caso ci ho preso gusto e fotografarmi era diventato un piacevole passatempo.

Come accennavo prima l’autoritratto è una forma di autoanalisi, un modo per ricordarmi che dietro all’artista c’è anche l’uomo e l’uomo, nella sua vita privata, nel suo quotidiano, non necessariamente è un’artista. Si possono avere pensieri cupi ma non per questo vivere in maniera cupa. L’autoritratto mi permette di esprimere la mia ironia che è un tratto fondamentale e forte del mio modo di essere.

Giacomo Costa

© Giacomo Costa

Agli inizi questo tipo di ricerca era principalmente rivolto e dedicato a me, era il lato mio privato e non mi era mai capitato di pensarlo come qualcosa da esporre, usavo i miei autoritratti nelle pubblicazioni perché mi piaceva scherzare su di me e sul fatto di essere così spesso e troppo preso sul serio. Passando il tempo e diventando più conosciuto il pubblico ha iniziato anche ad interessarsi al mio lato privato e quindi gli autoritratti sempre più vengono considerati parte del mio lavoro…io tuttavia continuo a pensare che siano un pensiero leggero e un modo per dire che non c’è niente di peggio che prendere gli artisti troppo sul serio e ancor peggio è quando un’artista si cala troppo nel suo personaggio

Giacomo Costa

© Giacomo Costa

 

Fabiano Busdraghi: Assolutamente d’accordo! Tanti sedicenti artisti dovrebbero scriverselo a caratteri cubitali su un poster da incollare in camera da letto. E se posso permettermi di essere sincero devo confessarti che questo, questa ironia, questo mettersi in gioco e non darsi arie, è il tratto che più mi piace della tua personalità, almeno da quel poco che posso intuire da questa intervista.

Ma passiamo alla prossima domanda. Puoi approfondire il discorso su una delle fotografie che accompagnano questa intervista?

 

Giacomo Costa

© Giacomo Costa

Giacomo Costa: Non so in che maniera potrei farlo e per onorare il primo fondamentale insegnamento del mio primo gallerista che diceva che non c’è niente di peggio di un’artista che parla de suo lavoro, scivolerò via dalla domanda, con eleganza!

 

Fabiano Busdraghi: Va bene, domanda cestinata, anche se la tua risposta è stata interessante lo stesso! Passiamo alla prossima allora.

Hai un sito molto ricco e curato, cosa relativamente inconsueta per un fotografo. Spesso si vedono siti con solo due o tre gallerie, un portfolio ridotto all’osso e raramente aggiornato, minuscole fotografie delle dimensioni di un francobollo.

Giacomo Costa

© Giacomo Costa

Nel tuo caso invece ci sono moltissime immagini, che permettono di ripercorrere l’evoluzione del tuo lavoro negli anni. Alcune serie poi sono molto diverse da quelle recenti, fra l’altro questi lavori li ho conosciuti unicamente grazie al tuo sito.

Quanto è importante una vetrina come la tua su internet? La diffusione dei tuoi lavori segue più le vie classiche: gallerie, esposizioni, pubblicazioni cartacee, etc, oppure è affidata soprattutto ai circuiti artistici su Internet? Che cosa pensi di queste iniziative?

Giacomo Costa: Per me il sito è come un giardino, qualcosa che va curato con amore tutti i giorni, è una sorta di disciplina marziale giapponese. È il mio modo per mostrare il mio lavoro non come fosse un catalogo ma come se fosse la storia della mia vita.

Giacomo Costa

© Giacomo Costa

Agli inizi non mi serviva per diffondere il lavoro: quando si è semi-sconosciuti i metodi tradizionali sono sempre i migliori. Adesso che la mia notorietà, soprattutto internazionale, è molto cresciuta e viaggiare per vedere le mostre è cosa difficile, il sito diviene fondamentale per creare contatti e mantenere vive relazioni.

Credo che ancora la gran parte delle realtà su internet siano più dei contenitori piuttosto che delle forme di ricerca artistica condivisa…ma la rete è talmente grande che non potrei essere più di tanto sicuro di questa mia sensazione.

 

Giacomo Costa

© Giacomo Costa

Fabiano Busdraghi: sei toscano e vivi a Firenze. Spesso si sente dire che per sfondare nel mondo dell’arte contemporanea bisogna vivere in una grande città in pieno fermento artistico, come New York o Berlino. Te sembri essere il controesempio vivente, con le tue foto che vengono esposte nelle fiere di fotografia e nei musei più importanti del mondo.

Il fatto di vivere in una città relativamente periferica rispetto ai grandi centri contemporanei secondo come ha influito sulla diffusione dei tuoi lavori? Ti reputi un’eccezione o di fatto oggi giorno si può benissimo esporre a livello internazionale pur non essendo fisicamente in una città effervescente per quanto riguarda fotografia e arte?

Giacomo Costa

© Giacomo Costa

Giacomo Costa: Credo che vivere in una città frizzante serva ad accrescere la propria conoscenza artistica e permetta di stabilire contatti e relazioni importanti. Se dovessi iniziare di nuovo forse mi trasferirei altrove. Il fatto è che ho iniziato un po’ per caso e a piccolissimi passi scettici e ogni volta mi sembrava di essere talmente indietro e lontano che era ancora presto per trasferirmi e così alla fine mi sono ritrovato a fare mostre a giro per il mondo continuando a vivere a Firenze. Tuttavia ho avuto la fortuna di viaggiare tanto e quindi di potermi creare una rete di conoscenze e di stimoli anche se formalmente risiedevo altrove. Certo che poi internet ha reso tutto molto più facile.

 

Giacomo Costa

© Giacomo Costa

Fabiano Busdraghi: Sul tuo sito pubblichi anche dei brevi testi di tuo pugno. Per te è un mezzo espressivo di pari importanza o è in secondo piano rispetto alla fotografia? Ti capita di “lavorare” sullo stesso tema sia con la macchina che con la penna o esplori universi completamente distinti?

Giacomo Costa: La mia ironia si basa molto sul linguaggio, sulla scelta delle parole, mi diverto molto a parlare e a discutere, sono un logorroico indefesso. Scrivere è per me un piacere divertente che mi permette di esprimere dei concetti articolati che non voglio invece esprimere nella fotografia. Le mie immagini sono dirette, semplici e comprensibili da chiunque anche senza dei particolari mezzi individuali. Nello scrivere invece mi esprimo in maniera più concettuale…ma lo faccio solo per divertirmi!

 

Fabiano Busdraghi: Un fotografo di cui apprezzi particolarmente il lavoro e perché.

Giacomo Costa

© Giacomo Costa

Giacomo Costa: Olivo Barbieri. Amo tantissimo il suo lavoro che, sebbene sia estremamente tradizionale e analogico, ha una cifra assolutamente sua che lo rende vicinissimo alla mia poetica. Se a questo aggiungi che abbiamo lavorato per anni con la stessa galleria, che c’è una sincera amicizia e che adesso, dopo anni di distanza, ci siamo di nuovo ritrovati nella stessa galleria…che volete di più!

 

Fabiano Busdraghi: Giusto qualche curiosità sui tuoi gusti personali. Che libro stai leggendo in questo momento? Che musica ascolti? Quali sono i tuoi film preferiti?

Giacomo Costa: Sto leggendo un libro di meteorologia marina ascoltando un live dei Van Halen. Film preferiti? Tutta la fantascienza della storia!

 

Fabiano Busdraghi: Meteorologia marina? Guarda te cosa leggi! Ma lo sai che io ho una laurea in oceanografia e meteorologia? Anche io ne ho macinate di pagine come quelle prima di andare a letto! Ma sorvoliamo i miei trascorsi da ricercatore…

Una domanda ormai ricorrente in tutte le interviste su Camera Obscura: tutti i fotografi hanno delle “foto non fatte”. Ci puoi raccontare una delle tue?

Giacomo Costa

Giacomo Costa: In realtà tutte le mie foto sono non fatte. Quasi tutte nascono a occhi chiusi, vedo con la fantasia degli scenari meravigliosi che poi mi servono come guida per cercare di realizzarli. Ma siccome è tutto nella mia mente, passo dopo passo mi lascio trascinare dalla corrente e arrivo a traguardi distantissimi dal punto di partenza…e nel cuore mi resta una sensazione che non si è però mai espressa del tutto.

 

Fabiano Busdraghi: Su cosa stai lavorando in questo momento? Come si differenzia rispetto ai tuoi lavori precedenti? Hai qualche progetto per il futuro che non hai ancora iniziato?

Giacomo Costa: Sto lavorando a degli interni, che costruisco per sottrazione invece che per agglomerazione…parto da una stanza e poi inizio a scavare, alzare e spostare finché alla fine ottengo quasi una città in una stanza. Il progetto al quale penso da una vita (artisticamente parlando!) è dar vita alle mie immagini, animarle, farne un film… chissà…

]]>
/it/2008/citta-giacomo-costa/feed/ 7