film – Camera Obscura /it A blog/magazine dedicated to photography and contemporary art Fri, 22 Jan 2016 13:24:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.4.2 Chung Kuo di Michelangelo Antonioni /it/2009/chung-kuo-michelangelo-antonioni/ /it/2009/chung-kuo-michelangelo-antonioni/#comments Tue, 14 Apr 2009 22:58:35 +0000 /?p=1488 Related posts:
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Antonioni Chung Kuo

Da alcuni giorni a Parigi fa caldo, ma il cielo rimane velato e grigio, la foschia a tratti si addensa in nuvoloni grigi e sembra minacci di piovere. Ho accettato con piacere allora quando ieri pomeriggio un amico mi ha proposto di andare a vedere al Champo un documentario sulla Cina di Michelangelo Antonioni: Chung Kuo, Cina.

Michelangelo Antonioni è l’autore di Blow-up uno dei miei film preferiti e la Cina è una delle mie grandi passioni attuali, quindi non potevo assolutamente lasciar passare un’occasione come questa.

Le aspettative infatti non sono state assolutamente tradite. È vero che il documentario è molto lungo, in totale più di tre ore e mezza, e alcune parti -a mio vedere soprattutto quelle nelle scuole- sono un po’ lente. È necessario quindi armarsi di un pizzico di pazienza se si vuole vederlo tutto di un fiato. Ma a parte questo, per il resto devo dire che su tutti i fronti è un entusiastico pollice in su.

Innanzitutto salta agli occhi una caratteristica che, in quanto fotografo, ho apprezzato particolarmente: il film è straordinariamente vicino alla fotografia, mostrando bene come cinema e immagine fissa siano cugini veramente stretti. E per giunta un tipo di fotografia molto vicino a quella che amo. Il film infatti è molto diverso ad altri documentari, come per esempio quelli che ho recentemente visto sulla Cina (vedi La fotografia nei documentari di Hu Jie). In questi ultimi viene costruita una vera e propria storia, principalmente tramite le interviste ai testimoni oculari dei fatti, alle esperienze in prima persona, e viene data molta importanza alla correttezza delle informazioni, a stabilire la realtà e la verità storica.

Antonioni Chung Kuo

Chung Kuo, è certamente un documentario, ma l’oggettività pura mi pare scivoli in secondo piano piano. A parte il fatto che non è chiaro quanto appartenga alla Cina autentica e quanto sia stato preparato e servito dal regime su di un vassoio apposta perché venga filmato, si ha comunque la forte impressione che Michelangelo Antonioni e la sua troupe passeggino per la Cina di allora a caccia di immagini, di impressioni, di storie certo, ma di storie che sono soprattutto il riflesso dei propri pensieri negli occhi delle centinaia di cinesi incrociati, storie che sono più gli appunti e i ricordi del viaggiatore, lo stupore di fronte a tanta umanità sconosciuta, a tanta vita, così varia e diversa. Approccio questo vicinissimo alla fotografia di strada, alla ricerca di chi prende una macchina fotografica e va in giro a cercare i propri aggregati di senso nel caos che lo circonda. Le persone del film poi non parlano quasi mai con il regista, non ci sono mai interviste. Le sequenze sono in generale accompagnate da una voce fuori campo, ma le spiegazioni e i commenti non compongono assolutamente la vera trama dell’opera. Spesso la voce tace, lascia che le immagini proseguano da sole per decine di minuti, i filmati evolvono, si sentono solo i suoni delle città. A parte la componente temporale aggiuntiva, mi pare veramente si possa dire che in questo caso tutto ciò avvicini tantissimo il cinema fotografia vera e propria.

La fotografia del film poi è francamente splendida. Certo, i soggetti sono interessanti e pittoreschi, questa poi è una delle poche testimonianze della Cina all’apice della rivoluzione culturale, ma la maniera di filmare è veramente quella di un maestro. Tantissime numerosissime sequenze sono piccole, magnifiche fotografie animate, in cui si ritrova per certi versi una certa Cina che somiglia a quella fotografata in seguito da Yann Layma. I tantissimi volti estremamente espressivi delle persone che riempono le strade, l’allegra confusione di giunche e navi nel porto di Shanghai, con la sua umanità affollata sugli scafi di mille imbarcazioni, le fabbriche dai macchinari assordanti che sono i perfetti precursori di quelle viste nel film di Burtynsky, il vecchio pechinese che incredibilmente riesce a fare i suoi esercizi di Tai Chi mentre pedala sulla sua bicicletta, le bellissime ragazze che sembrano tutte avere la pelle liscia e perfetta, i capelli annodati nelle due classiche trecce e sembrano essere tutte giovanissime (la voce fuori campo ci informa in seguito che la metà della popolazione cinese ha meno di vent’anni) splendide ragazze sulle quali Antonioni indugia numerose volte, i bei campi coltivati di Henan con i suoi lunghi canali, il fiume che si perde nel cielo rosa dietro all’imponente ponte di Nanchino…

Antonioni Chung Kuo

Piccolo dettaglio tecnico: i colori pastello e un po’ irreali delle vecchie pellicole, mai soprasaturi, con le ombre bluastre aperte e solo di rado veramente dense, le alte luci quasi mai bianche, i cieli grigi, e quella caratteristica curva di contrasto che ne danno il sapore tutto particolare, sono veramente magnifici. Sarà che risvegliano una certa malinconia nostalgica per gli anni 70, sarà che sanno di vecchio e di ciò che non ci sarà più, ma viene veramente voglia di fare fotografie con esattamente quella resa cromatica. Altro che inseguire la fedeltà dei colori, la gamma tonale più ampia possibile e il grano più fine. Purtroppo gli still che accompagnano questo articolo non possono assolutamente rendere giustizia alla bellezza del film, vista l’eccessiva compressione dvix.

Al di là delle considerazioni strettamente fotografiche Chung Kuo di Michelangelo Antonioni è veramente un film che vale la pena vedere. Sicuramente “le guide” avranno convogliato la troupe su percorsi il più possibile prestabiliti e controllati, cercando di dare un’immagine precostituita ed epurata della “nuova Cina”, a volte poi sembra quasi di sentire emergere una punta di pregiudizi italiani nei confronti dell’Asia, quindi è naturale chiedersi quanto sia naturale e oggettiva questa testimonianza. Nonostante questo le storie raccontate e le persone ritratte sono spesso toccanti, costituendo un film colmo di fascino e umanità. Inoltre Michelangelo Antonioni fa spesso prova di grande umiltà, come quando nel ristorante dice “Non è facile accettare l’idea che i cinesi abbiano inventato tutto, anche le fettuccine”. Oppure durante la visita al villaggio che non era preparato, dove nessuno aveva mai visto un occidentale prima, e la telecamera passa da un volto all’altro, visi che sembrano svuotati da ogni sentimento, se non quello della diffidenza. E Antonioni dice:

Presto ci accorgiamo che gli stranieri, i diversi, siamo noi. Al di qua della macchina da presa, restiamo per loro come degli oggetti sconosciuti e forse per loro anche un po’ ridicoli. È un colpo duro per il nostro orgoglio di europei. Per un quarto dell’umanità siamo così sconosciuti da incutere timore. I nostri occhi sono tondi, i capelli ricci, i nasi lunghi e ossuti, la pelle è sbiadita, i gesti stravaganti, la foggia dei vestiti goffa.

Insomma, un altro titolo da aggiungere alla lista degli imperdibili, per chi si interessa alla Cina e alla storia, ma soprattutto per tutti quelli che amano la bella fotografia. In Chung Kuo di Michelangelo Antonioni ce ne è veramente tantissima.

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Il vuoto e il pieno di Qiu Anxiong /it/2008/qiu-anxiong/ /it/2008/qiu-anxiong/#respond Sun, 12 Oct 2008 05:02:57 +0000 /?p=603 Related posts:
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Qiu Anxiong
The new book of mountains and seas, Part I
© Qiu Anxiong

Ieri pomeriggio sono andato a vedere un paio di film del festival di cinema cinese indipendente. Un interessante e toccante documentario di Hu Jie sulla vita Lin Zhao, una brillante libera pensatrice perseguitata e giustiziata durante la “campagna contro la destra” e un film di animazioni di Qiu Anxiong, intitolato “the new book of mountains and seas”.

Normalmente non sono un amante dei cartoni animati, ma in questo caso i disegni erano veramente ben fatti. Anche se il contenuto e il tema è moderno, i quadri si ispirano chiaramente alla pittura tradizionale cinese. Bianco e nero, inchiostro di cina, anche se in certi casi forse con un’aggiunta di tempera o olio.

Ne parlo perché in certi casi la resa mi ha fatto pensare alla fotografia e ai suoi possibili rapporti con la pittura.

Spessissimo in Cina la pittura e la calligrafia si sono limitate ad un unico colore, il nero, mentre in occidente questo era riservato soprattutto al disegno. Con un unico colore è possibile restituire tutte le sensazioni, i colori e le luci della natura, anche un paesaggio innevato. Esattamente quelle che tenta di fare la fotografia in bianco e nero da un paio di secoli.

Dong Hong Oai
© Dong Hong Oai

Nel film, prima di aggiungere i vari elementi all’immagine, come città, animali allegorici dei vari macchinari moderni, tubi e oleodotti, veniva presentato un paesaggio completamente vuoto e spoglio. Un paesaggio fatto di sottili tonalità di grigio e nero, appena appena accennato. Un paesaggio dove le colature dell’inchiostro e i condensati di grigio determinano per l’occhio uno spazio che si perde nel vuoto di ciò che non è stato disegnato. Un paesaggio che si intuisce sempre illimitato, il confine perso nella foschia, una rappresentazione del nulla che, storicamente, in Cina è stata introdotta dall’estetica del buddismo e che ha regalato raffinati e eleganti dipinti di paesaggi mentali.

In questo Qiu Anxiong ha sicuramente fatto un lavoro riuscitissimo. Nebbia, silenzio, il pieno che determina il vuoto e viceversa. Mi ha fatto pensare per molti versi a certe parole e emozioni del bel libro Passagère du Silence di Fabienne Verdier, quando, con il suo maestro di calligrafia cinese, dipingono a quattro mani i paesaggi della pittura tradizionale, rigorosamente in scala di grigi.

Spesso nei fotografi di paesaggio che amo è presente un riflesso di questa concezione dello spazio e del vuoto. Sarebbe però secondo me molto interessante un lavoro di fotografia che ispirato dalla pittura tradizionale cinese. Certo, esiste per esempio lo splendido lavoro di Dong Hong Oai, ma mi piacerebbe vedere una fotografia dove il protagonista è il vuoto, l’assenza di dettaglio, un elemento, leggerissimo, che permette di indovinare quello che non c’è, di determinare lo spazio a partire dalla sua assenza.

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Blow-up di Michelangelo Antonioni /it/2008/blow-up-michelangelo-antonioni/ /it/2008/blow-up-michelangelo-antonioni/#comments Sun, 05 Oct 2008 17:15:14 +0000 /?p=601 Related posts:
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Blowup Antonioni
Blow-up di Michelangelo Antonioni

Erano anni che volevo vedere Blow-Up di Michelangelo Antonioni, e oggi finalmente ne ho avuto l’occasione.

È un film di cui ci si innamora a prima vista, senza riserve. Che si continua a rigirare nella mente, senza posa. Si cerca di capire, di trovare la soluzione che non c’è. Si rivedono le scene più intense, capolavori visivi. Poco a poco emergono dettagli che erano passati quasi inosservati, si capiscono certe allusioni, certi comportamenti.

Non sono una persona che ama trovare nel passato un’età d’oro ormai finita. Basta leggere la storia, la letteratura o la filosofia di qualunque epoca e di qualunque paese per rendersi conto di come sempre, inevitabilmente, il passato è stato visto con rimpianto per i bei tempi andati, per i valori morali ormai svaniti, per la felicità e la bellezza. So benissimo che non è così. Però è inevitabile fare un rapido confronto con il cinema contemporaneo italiano, tanto quello commerciale che quello colto. Un film come Blow-up vince per KO al primo round.

Non voglio fare una recensione del film, visto che se ne è già lungamente parlato e scritto. Per una rassegna molto completa sull’interpretazione dalla parte della critica si può leggere l’articolo Antonioni e Blow-Up nella critica e per una prima analisi (in francese) Blow-up de Michelangelo Antonioni. Mi voglio limitare a consigliarlo a tutti e specialmente i fotografi.

Del canto mio ho amato particolarmente i temi e i modi di affrontarli. Il senso di solitudine, di comunicazione impossibile. La noia per la società, la mancanza di senso del reale, la perdita di significato degli oggetti, le azioni, i comportamenti. I nonsensi, le contraddizioni, le illusioni. La tecnica di ripresa, il ritmo narrativo.

Da un punto di vista di feticcio fotografico è stato un piacere vedere e riconoscere come estremamente familiari gli oggetti e le pratiche, con anche quel pizzico di nostalgia per un mondo che ormai è praticamente sparito. Riconoscere all’istante i modelli di macchine fotografiche che utilizza, le marche delle pellicole, gli oggetti dello studio. Riconoscere nella camera oscura tantissimo materiale identico a quella in cui ho imparato a muovere i primi passi, camera oscura che è ancora la mia ma ormai per poco tempo ancora. Lo stesso orologio, lo stesso ingranditore, le stesse luci, addirittura lo stesso modello di bacinelle di sviluppo e fissaggio. Pensare che quel materiale allora era all’ultimo grido e ora è vecchio e desueto, più di quarant’anni son passati ormai, ti lascia in bocca lo stesso dolce amaro che si prova ad aprire un cassetto e scoprire un oggetto dimenticato dall’infanzia.

Ma oltre a questo credo che sia un film estremamente interessante per i fotografi. Non tanto per vedere materiale e tecniche di una volta, ma per il discorso sulla realtà della fotografia, discorso che ho lungamente abbordato nella serie fotografia e verità. Michelangelo Antonioni in realtà spinge i suoi passi molto più in là, e ci si interroga costantemente su quella che sia la realtà stessa. Quando l’illusione è continuamente dietro l’angolo, come potersi fidare allora della fotografia come prova del reale?

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Shōji Ueda e Ganimé /it/2008/shoji-ueda-ganime/ /it/2008/shoji-ueda-ganime/#respond Fri, 14 Mar 2008 21:19:52 +0000 /2008/mostre-e-esposizioni/shoji-ueda-e-ganime/ Related posts:
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Shōji Ueda
© Shōji Ueda

Le ultime settimane sono state di lavoro frenetico e purtroppo ho avuto pochissimo tempo per visitare mostre ed esposizioni, come faccio di solito. Mercoledì però sono passato alla Maison Européenne de la Photographie per visitare la mostra di Shōji Ueda. Ero contento, perché era da un bel po’ che volevo andare a vederla e avevo paura di non riuscire a trovare il tempo, e poi perché Cōngcōng era insieme a me, e mi è sempre piaciuto andare per musei con qualche ragazza, specialmente alla MEP, dove ho tanti bei ricordi legati alle persone che ci ho portato.

Inutile dire che le fotografie erano magnifiche, Ueda è in assoluto uno dei miei fotografi preferiti. Come al solito ho ammirato a bocca aperta la sua infallibile abilità nel disporre gli elementi nello spazio, il vuoto etereo delle sue foto, lo spazio, le superfici piatte e lisce, i personaggi che volano nel nulla, cieli color carta di riso. Le sue foto sono così estetiche, pulite, spoglie, essenziali, che di fronte a tanta delicatezza, viene ancora una volta voglia di seppellire la propria macchina fotografia e andare a coltivare un campo.

Shōji Ueda
© Shōji Ueda

La cosa che più mi ha stupito è stato il rendermi conto di quanto fossero moderne le fotografie di Shōji Ueda. Le sue fotografie rispondo ad un’estetica così moderna che a volte ci si dimentica quando sono state scattate. Rivedendo poco prima la mostra di Edouard Boubat è stato impossibile non comparare le squisite immagini di Ueda con quelle dei suoi contemporanei europei. Gli umanisti francesi sono tutti fotografi che amo profondamente, senza eccezione. Però non posso fare a meno di dire che Shōji Ueda sul piano puramente estetico era avanti di almeno 50 anni, lo stile delle fotografie è uno stile che sta diventando attuale oggi giorno, e questo non finisce di riempirmi di stupore per la genialità del suo sguardo.

Dopo la mostra sono andato a vedere un incontro dal titolo “À la découverte du Ganimé”, animato da una rappresentante della Toei Animation, la nota casa di produzione giapponese che ha sfornato fra i cartoni animati più famosi della mia infanzia.

Durante l’incontro è stato presentato il progetto Ganimé, dove “Ga” è lo stesso “ga” di Manga, mentre “animé” sta per animato. Un punto di incontro fra immagine fissa e animazione. Dal progetto sono usciti tutta una serie di mediometraggi che vorrebbero essere destinati ad un pubblico adulto, un pubblico il cui sguardo è fine e abituato all’immagine fissa, all’arte, ai lavori d’autore. Creare film di immagini fisse con solo dei leggerissimi effetti d’animazione, appunto fra il manga e l’anime. Fra questi mediometraggi prodotti recentemente uno è ispirato proprio all’opera di Shōji Ueda: “Une goutte de rosée. Une flânerie dans le monde de Shoji Ueda”, 2006, prodotto da Shiro Sano.

Shōji Ueda
© Shōji Ueda

L’idea mi è sembrata divertente, visto che mi piacciono i tentativi sfrontati di rimettere l’arte a contatto con la gente, tirarla giù dal suo piedistallo, prendere a sassate le icone. Il risultato però mi è parso meno soddisfacente. Certo, le foto venivano fatte parlare, cosa cui molti puristi possono essere estremamente restii, qualcuna era anche animata, cosa che potrebbe far raccapricciare i più conservatori, ma nel complesso mi è parso che il file fosse poco più di uno slideshow delle splendide foto di Ueda. Mi sembra che le fotografie siano state sfruttate troppo poco per creare qualcosa di nuovo, un’opera solo ispirata al lavoro di questo grande fotografo. Allo stesso come documentario è deludente, visto che manca tutta la parte informativa, storica, e critica. Insomma, un intento che si annunciava lodevole ma che nella realizzazione mi ha lasciato piuttosto freddo.

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I paesaggi costruiti di Edward Burtynsky /it/2008/paesaggi-costruiti-edward-burtynsky/ /it/2008/paesaggi-costruiti-edward-burtynsky/#respond Wed, 20 Feb 2008 11:32:52 +0000 /?p=2864 Related posts:
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Burtynsky Paysages Manufacturés
Locandina del film Paysages manufacturés (Manufactured Landscapes) di Jennifer Baichwal, un documentario sul lavoro di Edward Burtynsky.

Era da un po’ di tempo che non andavo al cinema e ne ho approfittato per vedere Manufactured Landscapes di Edward Burtynsky prima che sparisse definitivamente dalle sale parigine.

L’impressione nel complesso èstata positiva. Il documentario scorre piacevolmente, con un fluido intercalarsi di commenti dell’autore, diaporama delle sue foto, fasi di preparazione di ogni scatto, interventi esterni, dialoghi con le persone incontrate.

Alcuni passaggi mi lasciano però perplesso.

Per esempio Edward Burtynsky afferma più volte che il suo lavoro non vuole portare alcun giudizio, nessuna critica politica, presa di posizione, niente. Questo avrebbe come scopo di spostare il senso dell’opera sul documentario puro. La valenza artistica come surplus verrebbe allora dal fatto che l’arte è l’amplificatore della percezione umana, rendendo possibile una rivalutazione della realtà al di là delle opinioni soggettive.

Burtinsky deda chiken
Deda chiken processing plant.

© Edward Burtynsky

Si potrebbe disquisire all’infinito su quanto siano neutre e oggettive delle immagini hiperestetizzanti come quelle di Edward Burtynsky, senza contare che in generale qualunque lavoro creativo, in un modo o nell’altro, implica sempre una presa di posizione. Il documento mente sempre, in un modo o nell’altro. Se in più sei un fotografo che diffonde le sue immagini nel circuito della foto d’arte, oggettività meccanica e espressione artistica personale sono perlomeno in controsenso. Oltre a questo mi sembra chiaro fin dall’inizio quale sia il punto di vista di Edward Burtynsky e le sue opinioni in merito alla questione climatica e alla gestione degli spazi occupati dall’uomo. In ogni caso, il continuo insistere sull’imparzialità dell’opera, mi mette addosso perlomeno un senso di sospetto, mi viene da chiedere se non ci sia un po’ di coda di paglia.

Un altro paio di punti che mi lasciano un po’ interdetto sono le due epifanie che ha l’autore durante il film, soprattutto quando guidando si rende conto che il mondo è tutto costituito di petrolio. Bella scoperta, per fabbricare la plastica ci vuole il petrolio. Mi sembrano due passaggi un po’ troppo enfatici e facili.

Burtynsky cankun
Migliaia e migliaia di operai cinesi lavorano nella fabbrica di Cankun.

© Edward Burtynsky

Infine sono rimasto un po’ stupito dal vedere Edward Burtynsky pagare i cinesi in modo che posino come vuole lui (…e l’oggettività del documento?). Nella stessa foto usata nella locandina della versione inglese di Manufactured Landscapes, l’uomo con la bestia da soma era stato pagato e istruito per passare esattamente da quel punto quando Edward Burtynsky avrebbe premuto sul pulsante di scatto (fra l’altro a mio vedere gli è pure andata male, perché nel film si vede bene una terza persona che per caso passa dietro all’uomo con l’asino, creando -per il mio gusto- una spiacevole interferenza visiva con questo).

Tanggu port
Colline di carbone si stendono a perdita d’occhio nel porto di Tanggu

© Edward Burtynsky

A parte questi appunti comunque il film mi è piaciuto molto e il giudizio complessivo è più che positivo. Le parti più impressionanti per me sono tutta la sezione iniziale sulle fabbriche cinesi, con le loro decine di migliaia di operai stipati nei capannoni, la donna che monta la scatola elettrica con due mani ad una velocità assolutamente incredibile. Molto bello anche il capitolo sui cantieri di smantellamento delle navi e naturalmente quello della diga delle tre gole sullo Yangtze (Ch·ng Jiang ) e delle città demolite dai suoi stessi abitanti.

In ogni caso la cosa più bella del fim restano le splendide fotografie di Edward Burtynsky. Le conoscevo praticamente tutte, ma è sempre un piacere riguardarle. Fotografie formalmente semplicissime, frontali, piatte, spoglie. Il senso, la bellezza, lo stupore, vengono soprattutto dall’eccezionalità dei luoghi, il lavoro del fotografo qui è più di ricerca che di composizione stravagante. Ma si riscopre tutto il piacere antico della fotografia, che può essere anche in rapporto mimetico con la realtà, lo stupore bambino di vedere come è fatto il mondo.

 

Ecco il trailer del film:

[youtube Jv23xwe0BoU nolink]

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