Recensione – Camera Obscura /it A blog/magazine dedicated to photography and contemporary art Fri, 22 Jan 2016 13:24:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.5.3 Recensione di East of West LA, di Kevin McCollister /it/2012/east-west-la-kevin-mccollister/ /it/2012/east-west-la-kevin-mccollister/#comments Mon, 09 Jul 2012 08:40:42 +0000 /?p=7612 Related posts:
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Fotografia di Kevin McCollister (8)
Copertina del libro East of West LA © Kevin McCollister
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Non sono mai stato a Los Angeles.

Eppure è una città di cui più o meno tutti abbiamo una mappa visiva, costruita sugli innumerevoli film e serie televisive americane che volenti o nolenti hanno impregnato la nostra infanzia, se non anche l’età adulta. Quando penso a Los Angeles la prima immagine che mi viene in mente sono le palme, e l’azzurro del cielo nelle giornate di sole. Calore e intenso traffico cittadino. Splendide ragazze in abiti succinti, fiammanti macchine sportive. Le classiche ville americane con la piscina dal fondo blu, i barbecue nel giardino. I ricchi e i vip, le star sulla bocca di tutti. E naturalmente la famosa scritta Hollywood che capeggia bianca in cima alla collina, simbolo indiscutibile del sogno americano.

Non sono mai stato a Los Angeles, e non posso dire quanto questa rappresentazione corrisponda al vero. Ma poco importa. Anche i lavori fotografici che mi vengono in mente vanno spesso nello stesso senso, oscillando fra il lusso legato all’industria dello spettacolo e il sole della California. Non che questa sia una critica. Fotograficamente è interessante lavorare sulla specificità di un luogo, esplorare la sua essenza e le sue contraddizioni, gli elementi che lo caratterizzano. Ma è allo stesso tempo interessante avere una visione diametralmente opposta, agli antipodi di quella che costituisce l’immaginario collettivo.

Fotografia di Kevin McCollister (7)
Warehouse © Kevin McCollister
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Il libro East of West LA del fotografo e poeta Kevin McCollister è esattamente questo. Al di là del fatto che buona parte delle foto sono state scattate di notte, la maggior parte dei paesaggi urbani del libro sono tetri e oscuri, come se l’illuminazione notturna venisse risucchiata in modo misterioso, come se i luoghi, le case e le strade volessero negare in qualche modo l’abbagliante radiosità del giorno. Strade deserte, case dalle imposte tutte chiuse, ponti e cavalcavia che si distaccano appena sul cielo notturno, misteriosi costruzioni, luoghi tetri e vagamente inquietanti. I colori sono scuri, la paletta ricorda certi procedimenti fotografici di inizio secolo, alcune fotografie pittorialiste di Steichen, giocate su marroni scuro, ombre profonde, verdi riflessi appena visibili, colori densi e desaturi.

A far da contrappunto ai paesaggi urbani, diversi ritratti, visivamente molto diversi, in stile frontale, moderno e distaccato. Fotografie diurne, dai colori naturali, l’approccio documentario, obiettivo. Fotografie di barboni, marginali, ubriaconi, mendicanti, malati mentali, storpi, musicisti… personaggi particolari o pittoreschi, inquietanti o commuoventi. Perché nessun luogo è tale senza le persone che lo vivono, nessuna città può esser esplorata senza descrivere le persone che la abitano. Ritratti franchi e sinceri, di tutta l’umanità infinita che riempe le strade delle grandi città.

Fotografia di Kevin McCollister (6)
Betty and Darla © Kevin McCollister
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Il libro East of West LA è il frutto di lunghe peregrinazioni di Kevin McCollister, nella città in cui vive da vent’anni. L’atto di camminare, lo spostarsi a piedi, la lentezza del movimento e l’errare senza meta di un viaggio alla ricerca di se stessi è centrale nel libro.

Di solito non ho un programma, cammino seguendo le luci dei semafori, la prima che trovo verde.

L’esplorazione, la fascinazione per il paesaggio urbani, per i misteri della città, sono evidenti. Nella fotografia contemporanea iper-concettualizzata e cerebrale, è un piacere sfogliare un libro dove non si debba per forza fare i conti con un impianto concettuale che di fatto costituisce l’unico valore delle fotografie, indipendentemente dal contenuto formale. East of West LA è semplicemente il ritratto di una città, dove l’aspetto emotivo, la curiosità e la sensibilità di Kevin McCollister sono la linea guida che unifica luoghi, persone e situazioni eterogenee.

Fotografia di Kevin McCollister (5)
LA river © Kevin McCollister
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A mio avviso, al di là del fatto che East of West LA fornisce un’immagine di Los Angeles lontana dai cliché e dall’immaginario collettivo, il vero valore del libro si trova appunto nella visione personale di Kevin McCollister, nel suo modo di interpretare la realtà, di selezionare nella caotica varietà offerta dal paesaggio urbano lo spunto, le storie che decide di raccontare. East of West LA è un libro che si pone all’interfaccia fra la fotografia documentaria e la fotografia artistica, è quindi naturale porre l’accento sulla visione personale del fotografo, sul come il suo approccio modifichi la mappa e la percezione di una città.

All’inizio del libro si trova un breve saggio introduttivo, con alcuni estratti delle poesie di Kevin McCollister. Dove il vagare, il muoversi a piedi costituisce il filo conduttore, il film visivo che si spiega ai suoi occhi durante gli spostamenti da un punto all’altro della città.

Fotografia di Kevin McCollister (4)
Echo Park Boathouse © Kevin McCollister
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Posso sentire la sporcizia
nell’aria e sto
camminando verso nord,
ci sono quasi,
camminando, camminando verso nord.

Personalmente mi sarebbe piaciuto poter leggere più poesie, che le parole e i testi avessero lo stesso peso delle immagini, alternando fotografia e poesia. Ma Kevin McCollister spiega che la fotografia è la naturale evoluzione della sua pratica poetica, che le sue poesie ormai sono le fotografie stesse, versi in immagini.

Fotografia di Kevin McCollister (3)
Jerome © Kevin McCollister
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Per quanto riguarda infine l’aspetto tecnico, East of West LA di Kevin McCollister è un libro di 60 pagine di formato 15x20cm. Molte fotografie hanno una dimensione contenuta, caratteristica che mi piace particolarmente, essendo sempre più attratto dai piccoli formati. Le immagini piccole infatti aumentano la sensazione di intimità e raccoglimento che si sposa benissimo con gli scatti notturni e le atmosfere silenziose che impregnano i paesaggi urbani del libro.

La stampa è ottima, su una splendida carta matte vellutata che restituisce ottimi neri profondi e densi. Sono sempre sorpreso nel vedere quanti libri, anche di fotografi molto noti, siano stampati superficialmente, mostrando in maniera evidente la trama a mezzo tono della stampa, allora che oggi è possibile stampare in ottima qualità ad un prezzo contenuto. Del resto East of West LA di Kevin McCollister costa solo 20$.

Fotografia di Kevin McCollister (2)
Fourth St Arch © Kevin McCollister
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Per concludere, East of West LA di Kevin McCollister è un delizioso libretto di ottima qualità che offre un ritratto alternativo, intimo e personale di Los Angeles, lontano dal bagliore e dal lusso dei cliché, ma perso nei sogni, nella fantasia e nella sottile poesia che nasce camminando da solo nella notte in una città sconosciuta.

 

Grazie a Kevin McCollister per avermi generosamente inviato il suo libro per scrivere questa recensione. Se hai realizzato un libro fotografico e vuoi un articolo come questo, puoi spedirmelo e ne pubblicherò una recensione sulle pagine di CO-mag.

Fotografia di Kevin McCollister (1)
Dedica del libro East of West LA © Kevin McCollister
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Recensione di “Edward Burtynsky”, collana Quaderni CMC /it/2012/edward-burtynsky-quaderni-cmc/ /it/2012/edward-burtynsky-quaderni-cmc/#respond Thu, 12 Apr 2012 19:59:02 +0000 /?p=4954 Related posts:
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Edward Burtynsky quaderni cmc
Copertina del libro "Edward Burtynsky" della collana Quaderni CMC
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Qualche mese fa un amico mi aveva invitato a Barcellona per visitare la mostra di Edward Burtynsky, uno dei suoi fotografi preferiti. Invito che purtroppo dovetti rifiutare. Ieri sera però mi ha almeno fatto vedere il catalogo della mostra.

– Sai, gli ho scritto una mail lamentandomi che non c’erano più copie del catalogo.

– E loro?

– Si sono scusati. Al che io ho insistito, dicendo che era veramente un peccato. Allora me l’hanno spedito.

– Gratis?

– Si, gratis!

Innanzitutto quindi complimenti a Teclasala, facessero tutti così il mondo della fotografia sarebbe decisamente più bello.

Edward Burtynsky (1)
© Edward Burtynsky
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Tiro fuori il catalogo dalla busta e noto che non è scritto né in spagnolo, né in catalano.

– Guarda che non è un semplice catalogo, ma un libro edito dal Centro Culturale di Milano.

Un po’ sorpresi dal fatto che un libro italiano sia finito in una mostra a Barcellona, per poi esser girato al mio amico, ci mettiamo a sfogliare il quaderno, e mi dico che è una buona occasione per scriverne una breve recensione. In passato ne ho già fatte per Camera Obscura, ma solo quando i fotografi stessi mi hanno gentilmente regalato il loro libro in cambio appunto di una recensione: per esempio The Chronicles of Time di Giacomo Costa o Camera Architectura, di Gabor Ösz. Da un bel po’ di tempo invece ho in testa di scrivere una recensione di tutti i miei libri di fotografia, che ho piano piano accumulato nel corso del tempo. Il Quaderno CMC Edward Burtynsky mi sembra quindi la buona occasione per cominciare.

Edward Burtynsky (2)
© Edward Burtynsky
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Innanzitutto le caratteristiche tecniche: il libro è abbastanza piccolo, formato 19,5×22,5cm, 102 pagine e costa 28€. L’impaginazione è sobria e piacevole e la stampa corretta.

Per quanto riguarda le immagini niente da ridire, le fotografie di Edward Burtynsky sono splendide come sempre. In ogni caso nessuna sorpresa, né in male né in bene, si tratta di una specie di piccola retrospettiva di buona parte dei lavori di Edward Burtynsky: mine, cave, fiumi di nikel, deforestazione lungo i binari della ferrovia, demolizioni navi e via dicendo; con in più un estratto del suo lavoro recente sulla fuga di petrolio nel Golfo del Messico. Personalmente non sono un amante delle antologie, preferisco un libro per argomento, ma il Quaderno CMC Edward Burtynsky è comunque un discreto riassunto dell’opera di questo grande fotografo.

Edward Burtynsky (4)
© Edward Burtynsky
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Il libro è inoltre accompagnato da un saggio di Giuseppe Frangi e un’intervista a cura di Enrica Viganò.

Personalmente il saggio non mi entusiasma poi tanto. Sebbene sia ben scritto e molto piacevole da leggere, secondo il mio personale modo di vedere la citazione di Dante e gli aneddoti su Michelangelo nella cave di Massa Carrara poco o nulla hanno a che vedere con Edward Burtynsky. Certo sono riferimenti dotti e fatti affascinanti, ma l’unico legame con il fotografo è il luogo stesso di Massa Carrara, peraltro visitato episodicamente nella totalità del suo lavoro. Allora perché non infilarci dentro anche Botero e tutti gli altri artisti che hanno usato i famosi marmi? In ogni caso, pur lasciando tranquillo Michelangelo, nel complesso -ben inteso sempre a mio vedere- tutto il saggio mi sembra più un esercizio di stile e una raffinata dimostrazione di cultura enciclopedica, più che una vera analisi e descrizione dell’opera di Edward Burtynsky.

Edward Burtynsky (5)
© Edward Burtynsky
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Ben diversa invece l’impressione derivata dall’intervista che accompagna il Quaderno CMC Edward Burtynsky, la maggior parte delle domande sono pertinenti e le risposte del fotografo articolate e sagge. Al di la della posizione molto equilibrata sulla questione ambientale, mi è particolarmente piaciuta l’onesta intellettuale nel descrivere certi aspetti agli inizi della sua carriera:

Neanche mia madre ci credeva: quando all’inizio degli anni ’80 mi sono girato il Nord America a fotografare le miniere mi diceva:”chi potrebbe mai voler comperare queste fotografie per appenderle in casa?”. E in effetti io non sapevo se prima o poi la gente avrebbe comprato le mie opere per appenderle sulle pareti e soprattutto non sapevo se avrebbero mai chiamato il mio lavoro “arte”.

Edward Burtynsky

Mi pare evidente che la creazione artistica sia, innanzitutto, una questione di passione. Immagino il giovane Edward Burtynsky girare per le miniere con la sua macchina tipicamente americana tutta polverosa e piena zeppa di materiale fotografico. Sono pronto a scommettere che lo faceva non tanto perché doveva scattare una nuova serie per la sua galleria a Londra, o perché doveva assolutamente trovare un’idea per creare una nuova ed originale opera d’arte, ma soprattutto perché gli piaceva. Sarà poi la posterità, o perlomeno il lavoro che si è accumulato nell’arco di una vita, a decidere che si tratti di arte o meno.

Una parte dell’intervista invece mi fa un po’ sorridere: quando si disquisisce sull’infinita ricchezza di dettagli delle fotografie fatte col banco ottico. Peccato che le stampe viste a Paris Photo un paio di anni fa fossero abbastanza deludenti da questo punto di vista, tirate troppo grandi per avere appunto la ricchezza dettaglio che meriterebbero.

Edward Burtynsky (3)
© Edward Burtynsky
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La legittimità delle pratiche fotografiche e “One” di Hudson Manilla /it/2011/one-hudson-manilla/ /it/2011/one-hudson-manilla/#respond Sun, 30 Jan 2011 13:54:19 +0000 /?p=4324 Related posts:
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Foto di Huson Manilla (6)
© Hudson Manilla
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Un paio di settimane fa Hudson Manilla mi ha gentilmente spedito una copia del suo nuovo libro elettronico. Oltre a scriverne una breve recensione, colgo l’occasione per discutere un po’ della controversia che nacque sulle pagine di Camera Obscura quando Hudson Manilla inviò il suo saggio Feeling The Moment.

Immediatamente dopo la pubblicazione venne infatti postato un commento al vetriolo a proposito delle fotografie di Hudson Manilla. L’autore dell’intervento, con un certo sprezzo, si chiedeva retoricamente se bisognasse prendere sul serio le fotografie di nudo in questione, e se questa fosse o meno “arte”. Subito numerosi lettori di Camera Obscura (lettori fra l’altro che non commentano regolarmente gli articoli pubblicati) presero le difese di Hudson Manilla, sottolineando la qualità del suo lavoro. Temevo la discussione degenerasse, ma fortunatamente non andò così, forse grazie anche all’intervento pacificatore di Hudson Manilla. Che fra l’altro scrisse:

Foto di Huson Manilla (5)
© Hudson Manilla
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Come sappiamo tutti, i gusti sono soggettivi e l’opinione di una persona di ciò che è Arte non è quella di un altra, i pensieri di una persona non sono identici a quelli di un altra. Il punto cruciale è semplicemente che mi piace fare fotografie. Se piacciono alle persone perfetto… se così non è, va bene lo stesso.

In questa risposta di Hudson Manilla è già contenuto uno dei due punti che vorrei sottolineare.

In primo luogo “Arte”, del resto come “Fotografia” è una parola dal senso indefinito e vago. Si cerca di raggruppare sotto un concetto comune anche pratiche diversissime, luoghi remoti, momenti storici lontanissimi fra loro. Oggi, per fotografia d’arte, si intende soprattutto un certo tipo di fotografia concettuale, spoglia e fredda, che va per la maggiore nel mercato dell’arte. Sempre in quest’ottica, le “belle fotografie” vengono considerate eccessivamente decorative per essere arte. Secondo i fautori di questa visione un’orribile foto sovraesposta di un muro può essere arte, mentre quella piena di pathos e emozione che appare sul National Geographic sicuramente non rientra nella categoria. Eppure si tratta di fotografie bellissime, decisamente artistiche, che probabilmente un non addetto ai lavori considera contenere “più arte” delle fotografie concettuali di cui sopra.

Foto di Huson Manilla (4)
© Hudson Manilla
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Non voglio entrare nella discussione di cosa sia arte e cosa non lo sia, anche perché è facile scadere in chiacchiere sterili e accademiche. Quello che mi interessa sottolineare è la varietà delle pratiche che possono esser considerate artistiche. Nel panorama storico attuale, le gallerie d’arte contemporanea vendono soprattutto un certo tipo di prodotti, solitamente concettuali più che estetici, mentre le fotografie diciamo “estetizzanti” vengono diffuse in altri circuiti. Nello stesso mondo delle gallerie esistono due categorie, naturalmente i cui confini sono mal definiti, di chi vende “fotografia d’arte contemporanea” e “bella fotografia”, quest’ultima soprattutto per arredamento (e lo dico senza nessun disprezzo) e a prezzi molto più bassi rispetto alla prima.

Il secondo concetto che mi preme sottolineare è la vocazione completamente eterogenea di Camera Obscura. Nel senso che mi piace pensare questo spazio come un luogo di discussione della fotografia a 360 gradi, non solo la fotografia artistica contemporanea, ma anche fotogiornalismo, moda, pubblicità, fotografia naturalistica e chi più ne ha più ne metta. La varietà delle pratiche fotografiche è per me estremamente affascinante, e non ho nessuna intenzione di specializzarmi su una sola di esse come succede nella maggior parte delle riviste online o dei blog che leggo. L’equivoco all’origine della discussione a proposito dell’artisticità delle foto di Hudson Manilla nasce probabilmente dal non aver compreso questo punto, o forse dal fatto che non lo renda abbastanza esplicito su queste pagine. Dall’idea che Camera Obscura sia un sito dedicato unicamente alla fotografia d’arte, intesa nell’accezione di cui sopra, ovvero lo stile che va per la maggiore nelle gallerie specializzate. Le fotografie di Hudson Manilla probabilmente non rientrano in questa categoria, ma piuttosto in quella (vaga essa stessa come arte o fotografia) di fotografia erotica. Intenti, stile e contenuti quindi diversi, ma perché dover trovare a tutti i costi delle etichette? Perché non limitarsi a fruire dell’opera di un autore? Perché chiedersi se si tratti di arte o meno invece di godersi le immagini?

Foto di Huson Manilla (3)
© Hudson Manilla
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Personalmente apprezzo certi aspetti delle fotografie di Hudson Manilla, mentre altri mi lasciano meno entusiasta, come è normale e giusto che sia. Per quanto riguarda l’apprezzamento direi che si tratta di un’opera molto consistente, nel senso che è evidente uno stile personale ben preciso, il fatto che si tratti del frutto di un lungo lavoro e non semplicemente di un’infatuazione occasionale. Apprezzo poi l’atteggiamento irriverente e diretto, la ricerca di un’eccitazione senza complessi. Infine, lo scrivo senza vergogna, mi piacciono in generale le fotografie di erotiche, la bellezza femminile.

Dal lato opposto, non condivido sempre l’immagine della donna che mi sembra emerga dalle foto di Hudson Manilla, come del resto non mi piace quella di un grande maestro della fotografia come Helmut Newton, sarò forse un inguaribile romantico ma preferisco le rappresentazioni diciamo più dolci e poetiche. Direi poi che la qualità delle fotografie è inuguale, nel senso che una selezione più severa avrebbe secondo me giovato.

Foto di Huson Manilla (2)
© Hudson Manilla
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Tutto questo, tanto i punti per me positivi che quelli negativi, si ritrova nel libro One di Hudson Manilla. Alle lodi aggiungerei il fatto che solo una fra tutte le ragazze ritratte è una modella professionista, mentre le altre sono persone normali che hanno osato spogliarsi, sia concretamente che metaforicamente, davanti all’obbiettivo del fotografo. Per esperienza personale, so quanto sia difficile per una persona posare con la stessa audacia di una modella professionista. Mi piace inoltre, anche se non mi corrisponde, la già citata attitudine di Hudson Manilla, il voler continuare per la sua strada nonostante quello che possano dire o pensare certe persone. Nei ringraziamenti del libro si legge per esempio:

È bello incontrare e lavorare con persone che vogliono mettersi alla prova e sono abbastanza forti da fottersene se la gente le giudica in maniera ingiustamente dura.

Per quanto riguarda infine il libro in sé, si tratta di un pdf di 130 pagine, con circa altrettante immagini, di risoluzione discreta che ne permette una visualizzazione più piacevole rispetto agli standard dei siti web. Impaginazione semplice e spoglia, priorità totale alle fotografie. Il tutto per qualche euro, che fra l’altro vengono dedotti dal prezzo del libro cartaceo se si decide di acquistarne una copia dopo aver comprato il libro elettronico. Hudson Manilla mi ha promesso di spedirmene una copia, che attendo con aspettazione, visto che non sono molto abituato ai libri elettronici.

Foto di Huson Manilla (1)
© Hudson Manilla
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The Chronicles of Time, di Giacomo Costa /it/2009/chronicles-time-giacomo-costa/ /it/2009/chronicles-time-giacomo-costa/#respond Mon, 20 Jul 2009 16:03:36 +0000 /?p=2231 Related posts:
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Libro Giacomo Costa
The Chronicles of Time, Damiani Editore © Giacomo Costa
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Qualche mese fa Giacomo Costa mi contattò in occasione dell’uscita della sua monografia “The Chronicles of Time” -promettendomi anche una copia del libro- informandomi che nell’introduzione di Luca Beatrice è presente un breve estratto dell’intervista che abbiamo realizzato insieme per Camera Obscura.

Purtroppo durante l’ultimo anno sono stato in Italia solo per 4 o 5 giorni, fra l’altro sempre di passaggio e un po’ di corsa. Una delle prime cose che ho fatto tornando a casa settimana scorsa è stato leggere con attenzione il libro che mi aspettava ormai da qualche mese, per farne una più che meritata recensione.

Più che meritata intanto perché fra tutte le interviste pubblicate su Camera Obscura, quella a Giacomo Costa è probabilmente fra le mie preferite in assoluto. Oltre alle splendide fotografie e render 3d che accompagnano l’articolo, al di là delle risposte esaustive e interessanti al punto di essere avvincenti, mi sembra si riesca ad indovinare una personalità gentile e simpatica, un personaggio allo stesso tempo semplice e speciale. Se tanti artisti si nascondono dietro il gergo altisonante del mercato dell’arte e partono in voli pindarici più o meno convincenti, Giacomo Costa mi sembra si accontenti di produrre le sue opere senza fare tante storie e soprattutto senza mai perdere un pizzico di ironia

The Chronicles of Time è un bel volume, di formato quasi quadrato, quasi 300 pagine, Damiani Editore. È un libro ben stampato, dove i lavori di Giacomo Costa hanno un posto in assoluto di primo piano, al di là della breve introduzione di Norman Foster e di Luca Beatrice, non è presente praticamente nessun testo, i lavori di Giacomo Costa sono i protagonisti assoluti. Il libro è molto completo, viene ripercorsa infatti tutta la storia dell’opera di Giacomo Costa legata alla città: dai primi collage di palazzi e edifici ammonticchiati in un groviglio claustrofobico, alle vaste panoramiche di città post apocalittiche dove spiccano misteriosi monoliti e le rovine si perdono all’orizzonte, passando per gli splendidi orizzonti, i cui semplicissimi blocchi di cemento squadrato mi ricordano con prepotenza gli indimenticabili iceberg dei miei viaggi in Antartide.

Alla fine del libro è presente anche l’ultima serie di Giacomo Costa, “Private Gardens”, che ancora non conoscevo. I questa serie di lavori recenti mi sembra proprio che si possa dire che l’autore ha colto nel segno. In alcuni dei suoi lavori precedenti l’atmosfera fantascientifica è molto presente, e può dare l’impressione di un mondo di plastica o dei fumetti, tanto da far sembrare esagerata o addirittura non piacere l’opera di Giacomo Costa, soprattutto per chi è ancora legato ad una visione tradizionale della fotografia, in puro rapporto mimetico con la realtà, visone lontanissima dalle immagini completamente realizzate al computer da questo autore a mezza strada fra la fotografia e la realtà virtuale. La serie dei giardini invece, pur essendo in linea perfettamente coerente con i lavori precedenti e la visione personale dell’autore, almeno da un punto di vista prettamente formale mi sembra che recuperi una dimensione più vicina al reale, che trovo forse più gradevole e interessante di certe immagini precedenti.

Le città sono sempre presenti, città in rovina e abbandonate. Ma sono come in disparte, come intuite. Rimangono naturalmente il protagonista dell’opera, ma un protagonista che ha cambiato il colore della propria pelle per confondersi nello sfondo, per mimetizzarsi pur conservando il suo ruolo di primo piano. I giardini sono silenziosi e misteriosi, nello scenario di apocalissi sembra però esser tornata la vita. In queste immagini eleganti e affascinanti le piante hanno riconquistato gli spazi, l’assenza umana è ancora totale, ma al di là di un aleggiante senso di mistero e dell’inquietudine legata alla distruzione cui ci ha abituato Giacomo Costa, qui si respira una quiete purissima, un’eleganza silenziosa, un’impressione distaccata di un mondo primordiale come era prima della razza umana.

O forse subito dopo.

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Camera Architectura, by Gabor Ösz /it/2009/camera-architectura-gabor-osz/ /it/2009/camera-architectura-gabor-osz/#respond Sun, 14 Jun 2009 13:02:56 +0000 /?p=2061 Related posts:
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Gabor Osz
Le copertine dei due volumi di Camera Architectura di Gabor Ösz

Un po’ di tempo fa Gabor Ösz mi ha gentilmente proposto di spedirmi il suo libro Camera Architectura per farne la recensione.

Camera Architectura di Gabor Ösz
Editore: monografik éditions
Con il supporto di Loevenbruck e Mondriaan Foundation Amsterdam
2 volumi 108 e 120 pagine, 200 illustrazioni a colori, prezzo 45 euro.
ISBN : 2-916545-05-0

Il libro è in realtà un elegante cofanetto -con custodia esterna in plastica trasparente- costituito da due volumi. Nel primo, “Works” vengono presentate le fotografie organizzate per serie, nel secondo “Manual” si trovano invece le descrizioni dei vari progetti e delle interessanti fotografie di Gabor Ösz al lavoro sulle sue camere oscure di grande formato.

Camera Architectura, in quanto oggetto, è veramente un libro molto bello. Le stampe mi sembrano ottime, la carta degna di un vero libro d’artista, il design sobrio ed elegante. I due volumi si sposano perfettamente, con la loro bella e moderna copertura in plastica trasparente. Si vede che è un prodotto curato e pensato; per esempio in apertura, oltre alle immagini, sono presenti 16 pagine in tinta unita, dal nero al bianco, che formano una scala di grigi che prelude a tutta l’opera, sorta di inno alla luce e all’oscurità, le due condizioni alla base di ogni fotografia.

Per quanto riguarda i contenuti i due volumi coprono diversi progetti recenti di Gabor Ösz, tutti caratterizzati da un’importante riflessione sul tempo ma soprattutto sullo spazio, dalla fascinazione dell’autore verso un’ibridazione di fotografia e architettura. A contatto con l’arte concettuale contemporanea si rimane spesso un po’ interdetti nei confronti di tanti statement artistici che sembrano solo voler riempire il vuoto artistico totale, leggendo le pagine di Camera Architectura di Gabor Ösz invece è esattamente il contrario e viene spesso da dirsi “ma che splendida idea!”. La riflessione concettuale qui è autentica e funzionale, il piacere intellettuale garantito.

Da un punto di vista concettuale infatti tutte le serie presentate sono terribilmente interessanti e tutte estremamente coerenti. Il progetto che però preferisco è The Liquid Horison, perché -oltre alla splendida idea che ne è alla base- le fotografie sono di una grande bellezza anche dal punto di vista puramente estetico. Gabor Ösz ha trasformato i bunker delle coste francesi abbandonati dalla seconda guerra mondiale in enormi camere oscure, esponendo direttamente della carta diapositiva di grande formato, e restando racchiuso all’interno del bunker durante le lunghe ore richieste per l’esposizione, spesso in situazioni tutt’altro che confortevoli. Il risultato sono degli splendidi e silenziosi paesaggi marini dalle tinte slavate e sognanti. I bunker sono stati costruiti per osservare, un po’ come le macchine fotografiche, come loro sono delle scatole vuote con un foro, in attesa che qualcuno le riempa con del materiale fotosensibile. Queste fotografie di Gabor Ösz, sono un po’ una concretizzazione di quello che i bunker, quasi fossero vivi, stanno osservando in silenzio ormai da decenni.

Gabor Osz
The liquid Horizon © Gabor Ösz
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Blow-up di Michelangelo Antonioni /it/2008/blow-up-michelangelo-antonioni/ /it/2008/blow-up-michelangelo-antonioni/#comments Sun, 05 Oct 2008 17:15:14 +0000 /?p=601 Related posts:
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Blowup Antonioni
Blow-up di Michelangelo Antonioni

Erano anni che volevo vedere Blow-Up di Michelangelo Antonioni, e oggi finalmente ne ho avuto l’occasione.

È un film di cui ci si innamora a prima vista, senza riserve. Che si continua a rigirare nella mente, senza posa. Si cerca di capire, di trovare la soluzione che non c’è. Si rivedono le scene più intense, capolavori visivi. Poco a poco emergono dettagli che erano passati quasi inosservati, si capiscono certe allusioni, certi comportamenti.

Non sono una persona che ama trovare nel passato un’età d’oro ormai finita. Basta leggere la storia, la letteratura o la filosofia di qualunque epoca e di qualunque paese per rendersi conto di come sempre, inevitabilmente, il passato è stato visto con rimpianto per i bei tempi andati, per i valori morali ormai svaniti, per la felicità e la bellezza. So benissimo che non è così. Però è inevitabile fare un rapido confronto con il cinema contemporaneo italiano, tanto quello commerciale che quello colto. Un film come Blow-up vince per KO al primo round.

Non voglio fare una recensione del film, visto che se ne è già lungamente parlato e scritto. Per una rassegna molto completa sull’interpretazione dalla parte della critica si può leggere l’articolo Antonioni e Blow-Up nella critica e per una prima analisi (in francese) Blow-up de Michelangelo Antonioni. Mi voglio limitare a consigliarlo a tutti e specialmente i fotografi.

Del canto mio ho amato particolarmente i temi e i modi di affrontarli. Il senso di solitudine, di comunicazione impossibile. La noia per la società, la mancanza di senso del reale, la perdita di significato degli oggetti, le azioni, i comportamenti. I nonsensi, le contraddizioni, le illusioni. La tecnica di ripresa, il ritmo narrativo.

Da un punto di vista di feticcio fotografico è stato un piacere vedere e riconoscere come estremamente familiari gli oggetti e le pratiche, con anche quel pizzico di nostalgia per un mondo che ormai è praticamente sparito. Riconoscere all’istante i modelli di macchine fotografiche che utilizza, le marche delle pellicole, gli oggetti dello studio. Riconoscere nella camera oscura tantissimo materiale identico a quella in cui ho imparato a muovere i primi passi, camera oscura che è ancora la mia ma ormai per poco tempo ancora. Lo stesso orologio, lo stesso ingranditore, le stesse luci, addirittura lo stesso modello di bacinelle di sviluppo e fissaggio. Pensare che quel materiale allora era all’ultimo grido e ora è vecchio e desueto, più di quarant’anni son passati ormai, ti lascia in bocca lo stesso dolce amaro che si prova ad aprire un cassetto e scoprire un oggetto dimenticato dall’infanzia.

Ma oltre a questo credo che sia un film estremamente interessante per i fotografi. Non tanto per vedere materiale e tecniche di una volta, ma per il discorso sulla realtà della fotografia, discorso che ho lungamente abbordato nella serie fotografia e verità. Michelangelo Antonioni in realtà spinge i suoi passi molto più in là, e ci si interroga costantemente su quella che sia la realtà stessa. Quando l’illusione è continuamente dietro l’angolo, come potersi fidare allora della fotografia come prova del reale?

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I paesaggi costruiti di Edward Burtynsky /it/2008/paesaggi-costruiti-edward-burtynsky/ /it/2008/paesaggi-costruiti-edward-burtynsky/#respond Wed, 20 Feb 2008 11:32:52 +0000 /?p=2864 Related posts:
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Burtynsky Paysages Manufacturés
Locandina del film Paysages manufacturés (Manufactured Landscapes) di Jennifer Baichwal, un documentario sul lavoro di Edward Burtynsky.

Era da un po’ di tempo che non andavo al cinema e ne ho approfittato per vedere Manufactured Landscapes di Edward Burtynsky prima che sparisse definitivamente dalle sale parigine.

L’impressione nel complesso èstata positiva. Il documentario scorre piacevolmente, con un fluido intercalarsi di commenti dell’autore, diaporama delle sue foto, fasi di preparazione di ogni scatto, interventi esterni, dialoghi con le persone incontrate.

Alcuni passaggi mi lasciano però perplesso.

Per esempio Edward Burtynsky afferma più volte che il suo lavoro non vuole portare alcun giudizio, nessuna critica politica, presa di posizione, niente. Questo avrebbe come scopo di spostare il senso dell’opera sul documentario puro. La valenza artistica come surplus verrebbe allora dal fatto che l’arte è l’amplificatore della percezione umana, rendendo possibile una rivalutazione della realtà al di là delle opinioni soggettive.

Burtinsky deda chiken
Deda chiken processing plant.

© Edward Burtynsky

Si potrebbe disquisire all’infinito su quanto siano neutre e oggettive delle immagini hiperestetizzanti come quelle di Edward Burtynsky, senza contare che in generale qualunque lavoro creativo, in un modo o nell’altro, implica sempre una presa di posizione. Il documento mente sempre, in un modo o nell’altro. Se in più sei un fotografo che diffonde le sue immagini nel circuito della foto d’arte, oggettività meccanica e espressione artistica personale sono perlomeno in controsenso. Oltre a questo mi sembra chiaro fin dall’inizio quale sia il punto di vista di Edward Burtynsky e le sue opinioni in merito alla questione climatica e alla gestione degli spazi occupati dall’uomo. In ogni caso, il continuo insistere sull’imparzialità dell’opera, mi mette addosso perlomeno un senso di sospetto, mi viene da chiedere se non ci sia un po’ di coda di paglia.

Un altro paio di punti che mi lasciano un po’ interdetto sono le due epifanie che ha l’autore durante il film, soprattutto quando guidando si rende conto che il mondo è tutto costituito di petrolio. Bella scoperta, per fabbricare la plastica ci vuole il petrolio. Mi sembrano due passaggi un po’ troppo enfatici e facili.

Burtynsky cankun
Migliaia e migliaia di operai cinesi lavorano nella fabbrica di Cankun.

© Edward Burtynsky

Infine sono rimasto un po’ stupito dal vedere Edward Burtynsky pagare i cinesi in modo che posino come vuole lui (…e l’oggettività del documento?). Nella stessa foto usata nella locandina della versione inglese di Manufactured Landscapes, l’uomo con la bestia da soma era stato pagato e istruito per passare esattamente da quel punto quando Edward Burtynsky avrebbe premuto sul pulsante di scatto (fra l’altro a mio vedere gli è pure andata male, perché nel film si vede bene una terza persona che per caso passa dietro all’uomo con l’asino, creando -per il mio gusto- una spiacevole interferenza visiva con questo).

Tanggu port
Colline di carbone si stendono a perdita d’occhio nel porto di Tanggu

© Edward Burtynsky

A parte questi appunti comunque il film mi è piaciuto molto e il giudizio complessivo è più che positivo. Le parti più impressionanti per me sono tutta la sezione iniziale sulle fabbriche cinesi, con le loro decine di migliaia di operai stipati nei capannoni, la donna che monta la scatola elettrica con due mani ad una velocità assolutamente incredibile. Molto bello anche il capitolo sui cantieri di smantellamento delle navi e naturalmente quello della diga delle tre gole sullo Yangtze (Ch·ng Jiang ) e delle città demolite dai suoi stessi abitanti.

In ogni caso la cosa più bella del fim restano le splendide fotografie di Edward Burtynsky. Le conoscevo praticamente tutte, ma è sempre un piacere riguardarle. Fotografie formalmente semplicissime, frontali, piatte, spoglie. Il senso, la bellezza, lo stupore, vengono soprattutto dall’eccezionalità dei luoghi, il lavoro del fotografo qui è più di ricerca che di composizione stravagante. Ma si riscopre tutto il piacere antico della fotografia, che può essere anche in rapporto mimetico con la realtà, lo stupore bambino di vedere come è fatto il mondo.

 

Ecco il trailer del film:

[youtube Jv23xwe0BoU nolink]

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