Fotografia e verità – Camera Obscura /it/ A blog/magazine dedicated to photography and contemporary art Sat, 03 Dec 2016 22:24:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.8 Fotografia e verità 8: simbolo e interpretazione /it/2008/fotografia-verita-simbolo-interpretazione/ /it/2008/fotografia-verita-simbolo-interpretazione/#comments Mon, 23 Jun 2008 21:20:50 +0000 /?p=492 Related posts:
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Sottoesposizione

Sottoesponendo è possibile scurire una scena particolarmente chiara.

Abbiamo visto nell’ultimo articolo della serie fotografia e verità che durante il XIX secolo l’atteggiamento dominante è stato quello di mettere avanti la somiglianza perfetta fra reale e fotografia, detto in altre parole la sua caratteristica fondamentalmente iconica.

A partire dall’inizio secolo scorso invece l’accento della maggior parte dei fotografi e dei filosofi è stato sulla fotografia come trasformazione del reale. I pittorialisti, impegnati nella loro battaglia per giustificare la fotografia come forma d’arte, non perdevano una sola occasione per elencare i casi in cui la fotografia falliva come rappresentazione mimetica della realtà.

È per me stupefacente pensare che, più di cento anni dopo, ancora bisogna ripetere argomenti simili per convincere le persone che la fotografia può avere un rapporto mimetico con la realtà, ma che questa non è assolutamente una sua caratteristica fondamentale. Insomma, una foto può più o meno assomigliare alla realtà, ma in un certo modo la distorce sempre. Non voglio perderci troppo tempo, quindi sarò abbastanza veloce. Rudolf Arnheim, nel suo libro Film as art, smonta sistematicamente il rapporto mimetico con la realtà, e rimando a questo testo ogni lettore interessato. Per il momento mi limito ad elencare alcune caratteristiche della fotografia, per chiunque abbia fatto un minimo di fotografia e non si limiti a pigiare un bottone, rendono evidente come la fotografia comporti immancabilmente distorsioni della realtà.

La cosa interessante è che la fotografia fallisce nel compito che gli viene affibbiato di avere un rapporto mimetico preciso con la realtà non solo quando ci si sforza di ottenere una resa pittorica, quando si maltrattano le emulsioni o si esplorano le cosiddette tecniche antiche. La fotografia, intrinsecamente, non riproduce in maniera precisa la realtà nemmeno quando la si usa nel modo più diretto e puro possibile.

Aberrazioni obiettivo

Dettaglio (sinistra) di una foto del Mont St. Michel dove sono evidenti i difetti ottici dovuti alle aberrazioni dell'obiettivo.

Per cominciare si possono citare tutti i difetti delle ottiche. Perdita di nettezza sui bordi, resa dello sfuocato ad esagoni (o qualunque poligono disegnato dalle lamelle del diaframma), aberrazioni varie degli obiettivi, vignettatura, distorsioni a cuscinetto e a barilotto. Nessuno quando guarda alla realtà la vede con una perdita di luce ai bordi. Quasi nessuno ha negli occhi delle aberrazioni che pregiudicano la nitidezza della percezione del mondo. La visione umana dello sfuocato è sempre indiretta, appena si fissa lo sguardo in un punto lo si mette subito a fuoco. A meno naturalmente di essere miopi, ma in ogni caso la realtà, di per se, è sempre a fuoco, sono solo le immagini ottiche di questa che possono essere più o meno sfuocate.

Anche la focale degli obiettivi deforma profondamente la realtà. La visione umana corrisponde grossomodo ad una focale di 50mm su una pellicola di 24x36mm. Tutte le focali superiori o inferiori implicano deformazioni importanti dello spazio, della prospettiva, delle distanze. Con un grandangolare spinto si può far sembrare una stanza infinitamente più grande di quello che è in realtà, esasperare le fughe prospettiche, far sembrare le nuvole in cielo un accavallarsi impetuoso di cavalloni di mare in tempesta, gli oggetti vicini diventano smisuratamente grandi e quelli lontani minuscoli e irraggiungibili, il naso di una persona diventa grosso come un pallone e le orecchie piccole piccole. I teleobiettivi invece schiacciano completamente le prospettive, annullando le distanze. Oggetti lontani e vicini sembrano tutti alla stessa distanza dal fotografo. Trucchetto conosciutissimo di tutti i paparazzi, con un obiettivo si riesce a far sembrare che due persone camminano a braccetto quando invece si trovano a diversi metri di distanza l’uno dall’altro.

Del resto con le distanze, le deformazioni e le prospettive si può fare veramente di tutto per ingannare l’osservatore. Un giochetto ben noto a tutti i turisti che durante i primi anni di università ho visto visitare Pisa, tutti a farsi immortalare con la mano alzata come se non ci fossero loro a tenerla su la torre, questa verrebbe giù in un attimo. Più seriamente, lo splendido lavoro di Georges Rousse è tutto basato sugli inganni visivi. Per riassumere un lavoro lungo, complesso e impressionante Rousse dipinge nello spazio delle anamorfosi, che da certi punti di vista sembrano creare inserti su piani e distanze completamente diversi da quelli reali.

Cambiando genere, se si scatta poi con velocità troppo basse si rischia di fare una foto mossa di un oggetto che in realtà non si è spostato di un millimetro. Con le lunghe esposizioni poi le persone si trasformano in fantasmi evanescenti, nelle foto notturne le automobili lasciano lunghe righe rosse. Con le lunghissime esposizioni addirittura si riescono a far sparire del tutto persone e macchine in movimento. Delle primissime foto della storia fatte a Parigi, i primi dagherrotipi, non c’è mai nessuno per le strade, non un passante, non una carrozza, non un cane. Le pose delle prime lastre fotografiche erano talmente lunghe che tutti gli oggetti in movimento non riuscivano a lasciare nessuna traccia visibile. Fra quelle primissime foto fa eccezione un famoso dagherrotipo dove un passante, facendosi lucidare le scarpe, è rimasto immobile abbastanza a lungo da lasciare una traccia sull’emulsione sensibile. Volendo credere al rapporto mimetico della fotografia con la realtà bisognerebbe dedurre che nell’ottocento le strade di Parigi erano completamente deserte, salvo forse un unico personaggio preoccupato dalla patina del cuoio dei suoi stivali.

Sovraesposizione

Immagine volutamente sovraesposta.

A volte capita di sbagliare clamorosamente un’esposizione, e trasformare una stanza riempita da una luce accecante in una dove regna la penombra. Oppure, naturalmente di produrre intenzionalmente immagini scurissime o chiarissime. Una foto notturna, se esposta a lungo, può essere chiara come una scattata di giorno. Chiunque abbia utilizzato seriamente il sistema zonale, un metodo di esposizione in generale particolarmente apprezzato proprio dagli amanti di una presunta fotografia ortodossa, sa benissimo che il punto di partenza è fotografare un muro o una superficie testurata esponendolo in modo che diventi un grigio medio al 18%, questo da la zona V. Poi fare tutta una serie di scatti aprendo e chiudendo il diaframma fino ad ottenere un bianco senza dettagli (zona X) e un nero senza dettagli (zona 0). Dalla serie di film esposti in questo modo è possibile ottenere poi tutta una serie di informazioni che permettono di controllare la gamma tonale delle proprie immagini. Ma quel muro, era grigio, bianco o nero? Oppure, sempre per restare in tema di sistema zonale. Come diavolo è che se una scena ha più di sette zone (o anche un filo di più se si aggiustare lo sviluppo) di differenza di luminanza, alcune parti dell’immagine diventano completamente bianche e altre completamente nere quando nella realtà c’era dettaglio ovunque?

Posa lunga

Tempi di posa lunghi trasformano gli oggetti in movimento.

La scelta della pellicola, tanto del bianco e nero che del colore ha effetti rilevanti sulle caratteristiche della fotografia che viene ottenuta appunto dalla pellicola in questione. Ogni pellicola per esempio ha la sua curva caratteristica. Certe emulsioni sono piuttosto lineari, altre hanno una lunga spalla o un grosso piede. Fotografando la stessa scena con pellicole diverse si ottengono risultati diversi. Senza contare che le emulsioni possono essere ortocromatiche o pancromatiche, ovvero più o meno sensibili a tutte le lunghezze d’onda della luce. Nel primo caso si otterranno dei bei cieli completamente bianchi slavati, e un sacco di foschia nelle valli. Con lo stesso giochetto ma dall’altra parte della gamma dello spettro, ovvero utilizzando pellicole per il bianco e nero sensibili ali infrarossi, è possibile bucare la nebbiolina che rende grigiastre così tante fotografie. La chimica scelta per lo sviluppo di pellicole in bianco e nero influenza enormemente le caratteristiche del negativo. Uno sviluppo più o meno lungo, a due bagni, con una certa temperatura, l’intensità e la frequenza dell’agitazione sono tutte variabili determinanti sulla resa della pellicola. Queste influenzano pesantemente il contrasto, la forma della curva di risposta, la granulosità della pellicola. La realtà che la fotografia sembra riprodurre in maniera così precisa qual’è? Quella dell’HP5 sviluppata 13 minuti in D-76 1+3 a 20°C con10s di agitazione al minuto o quella della Tri-X sviluppata per 10 minuti in HC-110, soluzione B, a 15° con due sole agitazioni durante lo sviluppo? Le combinazioni pellicola sviluppo sono praticamente infinite e danno risultati estremamente diversi fra loro, come decidere quale si avvicina di più alla realtà?

Grana

Tutte le fotografie presentano una grana.

La grana, visto che siamo in tema, se intensa e grosse, crea suggestive e splendide immagini che niente hanno a che vedere con la realtà. Immagini oniriche, sognanti. Dove la gamma tonale sparisce, si riduce alla sua essenza, le forme si scompongono e si ammorbidiscono. Ma le fotografie scattate a 25 iso sono anche loro composte dalla grana, semplicemente è così piccola che l’occhio, ad ingrandimenti normali, non riesce a percepirla. È come se la vedessimo da molto lontano e tutto si impasta creando l’illusione del continuo e dell’immagine liscia e morbida, ma in realtà, nella loro essenza, tutte le fotografie sono granulose come quelle scattate a 6400 iso, è solo la finezza che inganna il nostro occhio creando l’illusione di mimetismo con la realtà.

Per quanto riguarda la fotografia a colori, la situazione è praticamente la stessa del bianco e nero. Diapositive diverse, come il famoso tris della Fuji: Provia, Velvia e Astia; producevano risultati completamente eterogenei, dove la più grossa differenza era la saturazione delle tre pellicole. Ogni fotografo, prima di scattare, decideva se voleva una resa pastello dei colori o una molto sparata, e sceglieva di conseguenza la pellicola che avrebbe utilizzato. Adesso con le digitali e il bilanciamento automatico del bianco ci si dimentica che una volta la temperatura cromatica della luce faceva ammattire i fotografi. C’erano le pellicole calibrate per la luce diurna, quelle per il tungsteno, e tutti i filtri possibili per riscaldare e raffreddare l’immagine, in maniera da avere colori naturali anche in condizioni difficili. La resa dei colori comunque è sempre un’approssimazione più o meno fedele della realtà, ma non sarà quasi mai esattamente la stessa, altrimenti non si spiegherebbero gli sforzi necessari nella gestione del colore per ottenere risultati accettabili quando si cerca di riprodurre un’immagine.

Temperatura cromatica

Utilizzando un'illuminazione con lampadine a incandescenza oggetti bianchi diventano completamente gialli.

Certi “colori” poi sono impossibili da ottenere con le emulsioni fotografiche. Per esempio dell’oro, come sanno benissimo i pittori, è qualcosa di impossibile ad ottenere mischiando fra di loro rosso verde e blu o ciano, magenta e giallo. Per dare la sensazione dell’oro occorre un pigmento che è ottenuto con una polvere metallica riflettente, è necessario riutilizzare la materia stessa, o perlomeno giocare con i riflessi, i colori da soli non bastano. I fotografi di gioielli, uno dei generi di still life più difficili, lo sanno perfettamente e si portano dietro tutta una serie di cartoncini bianchi e neri per disegnare i riflessi che danno forma ai gioielli. Fotografate un anello d’oro dal valore di 30 mila euro in luce completamente diffusa e avrete un orrendo pezzo di plastica gialla.

Si potrebbe continuare su questo tono ancora per molto, ma non ne vale la pena, preferisco tirare subito le somme. La pratica fotografica, per quanto utilizzata in senso “puro”, “diretto” e “incontaminato”, comporta sempre delle distorsioni, modificazioni, approssimazioni e interpretazioni della realtà. Tale deformazione, a pensarci bene, è estrema e implicita nel media. Fino ad ora mi sono limitato a caratteristiche e difetti tecnici del sistema fotografico, ma la sua incapacità a registrare in maniera iconica perfetta il reale è molto più profonda. Semplicemente la rappresentazione fotografica del reale si iscrive in un sistema di percezione del mondo codificata cui siamo abituati, e ormai non ci rendiamo più conto di quanto in realtà le due entità siano profondamente distanti l’una dall’altra. Per dirne una, il bianco e nero, che siamo abituati a leggere come riproduzione della realtà, in realtà è una modifica e distorsione pesantissima di questa. Eppure, secoli di disegno e un centinaio d’anni di fotografia quasi esclusivamente monocromatica ci hanno abituati culturalmente all’idea di una rappresentazione simbolica della realtà in scala di grigi.

Riflessi

Obiettivi o filtri di scarsa qualità producon spesso riflessi indesiderati.

Infine, oltre alle caratteristiche tecniche del tipo di emulsione, bisogna ricordarsi che la fotografia isola un momento e un luogo, per la semplice scelta dell’inquadratura e del tempo di esposizione il fotografo ritaglia dalla realtà qualcosa che non le appartiene più. Senza contare che una fotografia è un’immagine bidimensionale, mentre la realtà ha almeno quattro (la teoria delle superstringhe ne aggiunge ancora un bel po’…) dimensioni: le tre che caratterizzano lo spazio e il tempo. Una fotografia sarà solo una codifica di questa realtà a quattro dimensioni.

Ma si tratta appunto più di un simbolo che di un’icona. In realtà vedremo in futuro che nemmeno l’essere simbolo è la caratteristica fondamentale della fotografia, ma per un primo momento è bene raggiungere e assimilare questa tappa mentale. La fotografia, più che avere un rapporto mimetico con la realtà, la trascrive deformandola secondo un sistema decodificato. Questa visione delle cose ha avuto anche delle conferme scientifiche. Sono noti i casi di persone cieche da lungo tempo o dalla nascita che riacquistano la vista in seguito ad un’operazione agli occhi. Quando ancora non hanno “imparato a guardare” se gli viene mostrata una fotografia di un oggetto rotondo e uno quadrato non sono capaci di associarle visivamente e sono obbligati a chiudere gli occhi. Una volta imparato il procedimento di decodifica il riconoscimento diventa immediato, ma c’è una tappa mentale in più. Un altro caso famoso è quello dell’antropologo Melville Herskövits. Questi mostrò un giorno ad una aborigena una foto del figlio di questa. L’aborigena era completamente incapace di riconoscere nell’oggetto mostratogli il ritratto del proprio figlio, la fotografia non gli comunicava nessun messaggio fino a che l’antropologo non le ha spiegato come leggerla. Questa esperienza dimostrò chiaramente come la fotografia è un dispositivo culturalmente codificato.

Grandangolo

Un grandangolo spinto modifica la percezione degli spazi e fa sembrare le nuvole enormi e bassissime.

Per quanto ci riguarda, volendo anticipare un po’ le cose e mettere qualche altra carta in tavola, facciamo una piccola provocazione. Abbiamo visto che in ogni caso la fotografia, per quanto la si pratichi nel modo più diretto e automatico possibile implica sempre una deformazione della realtà. A partire dalla scelta della pellicola che mettiamo nella macchina avremo due risultati diversi. Perché allora scurire un cielo è una deformazione della realtà considerata da molti non fotografica, mentre scegliere una pellicola diversa sembra esserlo? Questa scala di valori delle distorsioni della realtà che viene usata per stabilire cosa sia lecito e cosa non lo sia è basata su considerazioni razionali o è puramente arbitraria? A questo punto della serie fotografia e verità penso che sia inutile dire come la penso.

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Fotografia e verità 7: la mimesi della realtà /it/2008/fotografia-verita-mimesi-realta/ /it/2008/fotografia-verita-mimesi-realta/#comments Tue, 03 Jun 2008 07:29:47 +0000 /?p=423 Related posts:
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Baudelaire

Charles Baudelaire

Negli ultimi due articoli di fotografia e verità abbiamo visto come la caratteristica in generale considerata fondamentale di interazione della luce tanto fondamentale poi non sembra essere, nel senso che non riesce a determinare in modo razionale cosa sia fotografia e cosa no. Da una parte siamo obbligati a sottolineare che deve avvenire unicamente un’interazione fra luce e materiale sensibile, perché lasciando cadere l’unicità quasi tutto può essere incluso nella categoria fotografia, dall’altra parte però questo esclude dall’ambito fotografico la quasi totalità delle immagini che praticamente tutti consideriamo fotografia. Immagini, è il caso di dirlo, che sono vere e proprie fotografie a tutti gli effetti.

Durante gli ultimi articoli abbiamo parlato brevemente anche di altre presunte caratteristiche fondamentali, che si sono tutte verificate come non essenziali e non discriminanti. Prima di tirare qualche conclusione e chiudere questo primo capitolo della seria, trattiamo rapidamente ancora un’altra proprietà “fondamentale” della fotografia molto importante, fonte di equivoci infiniti. Ovvero il rapporto mimetico della fotografia con la realtà. Detto in parole povere l’idea che la fotografia assomiglia terribilmente alla realtà che rappresenta, sembra uguale, tanto da considerare questa caratteristica non una contingenza, ma un suo tratto distintivo. Il rapporto mimetico fra fotografia e realtà è infatti proprio uno dei motivi principali che hanno portato ad identificare fotografia e realtà come la stessa e unica entità.

Autochrome

Autochrome del 1907

Del resto è proprio questa caratteristica di riproduzione precisa e fedele del reale che attirava e stupiva i pionieri dell’immagine fotografica. I primi uomini a vedere le primissime fotografie rimanevano a bocca aperta e si chiedevano cosa fosse, un disegno perfetto o qualche opera di stregoneria. Si dice che una delle reazioni più comuni di chi per la prima volta guardava una fotografia stereoscopia era allungare la mano per cercare di afferrare gli oggetti che vedeva nello spazio di fronte a se, come se fossero reali.

Io stesso sono stato spesso colpito dalla forza di mimesi che può avere la fotografia. Una delle esperienze fotografiche più intense della mia vita, infatti, fu una mostra alla MEP di diapositive autochrome, un procedimento in tricromia inventato nel 1903 dai fratalli Lumière, rare immagini a colori di inizio secolo su finissime e splendide lastrine di vetro. Lastre di una decina di centimetri di lato, retroilluminate e montate su una parete nera, in una stanza molto buia. Per vederle ci si doveva avvicinare al muro, e mi ricordo che ho avuto la sensazione fortissima di guardare come attraverso un buco, un buco in un muro che si affaccia su un mondo diverso che è dall’altra parte. Per uno strano scherzo della natura il tempo e lo spazio avevano fatto un salto, non c’era più una linea retta, di là dal muro c’erano veramente signorine con cappelli e ombrelli per proteggersi dal sole, signori col cilindro intenti in amabili conversazioni, fanciulle sedute sull’erba immerse nella lettura di un romanzo. Ed erano vere, verissime, quasi le si poteva toccare, il buco nel muro mi aveva riportato letteralmente indietro nel tempo. L’ottocento era li davanti ai miei occhi e sembrava di poterlo toccare. Ne uscii letteralmente con le lacrime agli occhi.

Arafat Rabin

La stretta di mano di Arafat e Rabin

Non solo i fotografi e la gente comune sono stati colpiti dal rapporto mimetico fra fotografia e realtà, ma anche moltissimi intellettuali e personalità di spicco. Soprattutto durante il diciannovesimo secolo, con alcuni strascichi contemporanei. Nel novecento i filosofi e gli analisti poi si resero conto che il rapporto mimetico non era un proprietà fondamentale della fotografia, ma solo una contingenza. La fotografia quindi iniziò ad essere riconosciuta come interpretazione della realtà. Fotografia quindi non come icona ma come simbolo. La cosa andò avanti per svariati decenni, fino a quando finalmente i filosofi si resero conto che la fotografia non è fondamentalmente né l’una né l’altro, né icona né simbolo, ma piuttosto indice. Torneremo in dettaglio su questo argomento, per il momento limitiamoci a ripercorrere rapidamente la storia della percezione delle caratteristiche della fotografia, la percezione come icona e come simbolo. In questa sede l’unica cosa che preme è far capire che l’essere icona della fotografia, il suo rapporto mimetico con la realtà, non è affatto una sua proprietà fondamentale. Questo come dicevo è stato riconosciuto molto presto, ormai da almeno un centinaio di anni, ed è stupefacente doverlo ripetere ora. Ma vista la quantità di persone che ancora si lasciano ammaliare conviene insistere un po’ su questo argomento. Per farlo seguirò in parte l’ottimo libro L’acte photographique di Philippe Dubois, di cui consiglio la lettura a tutte le persone che si interessano alla filosofia della fotografia.

Autochrome

Autochrome

Le prime reazioni del mondo intellettuale di fronte alla novità assoluta rappresentata dalla fotografia sottolineavano con veemenza la rassomiglianza fra fotografia e reale. Questa caratteristica poteva essere portata a prova della grande utilità di questa nuova invenzione per l’umanità, ma anche come dimostrazione che la fotografia in alcun modo poteva e doveva aspirare a diventare qualcosa di paragonabile alla pittura. Famosissimo per esempio è il giudizio disgustato di Baudelaire a proposito della fotografia:

Credono che l’arte è e non può essere che la riproduzione esatta della natura […]. Un Dio vendicatore ha esaudito il desiderio di questa moltitudine. Daguerre è stato il suo Messia. E allora questa [la moltitudine] ci dice “visto che la fotografia ci da tutte le garanzie desiderabili di esattezza (ci credono, gli insensati), l’arte è la fotografia. A partire da questo momento la società immonda si è precipitata, come un solo Narciso, per contemplare la sua triviale immagine nel metallo. Una follia, un fanatismo straordinario si è impadronito di tutti questi nuovi adoratori del Dio sole.

Catalogo

È nota l’avversità di Baudelaire all’idea che la fotografia potesse essere arte. L’idea che la fotografia sia una copia perfetta della realtà e che quindi potesse sostituire la pittura era completamente disgustosa per il poeta, che vedeva l’arte come ispirazione sublime e immateriale. Molte reazioni contemporanee a Baudelaire invece sono invece entusiastiche, vedo l’utilità della fotografia nella sua esattezza, ma si basano sempre sulla stessa identica concezione di una separazione netta fra da una parte l’arte, nobile invenzione della fantasia sufficiente a se stessa, e dall’altra la fotografia, semplice strumento di riproduzione fedele del reale. Utile per riprodurre libri, documentare viaggi e ottenere rapidi bozzetti, ma niente di più di uno strumento automatico. Un contemporaneo di del grande poeta francese, Hippolyte Taine, scrive:

La fotografia è l’arte che, su una superficie piana, con delle linee e dei toni, imita alla perfezione e senza nessuna possibilità d’errore la forma dell’oggetto che deve riprodurre.

Anche un pittore del calibro di Picasso considerava la fotografia come un fedelissimo mezzo di riproduzione del reale.

Perché l’artista continuerebbe a trattare dei soggetti che possono essere ottenuti con tanta precisione con l’obiettivo della macchina fotografica? […] La fotografia è arrivata al punto di liberare la pittura da ogni aneddoto, da ogni letteratura e pure dal soggetto.

Follmi

Fotografia di viaggio
© Olivier Föllmi

Strascichi di questa concezione di rapporto mimetico fra realtà e fotografia, purtroppo come dicevo non si limitano al 1800, ma è arrivata anche ai nostri giorni. Se questo è comprensibile per la gente comune, che ha una visione se vogliamo fresca e innocente come i primi utilizzatori delle prime fotografie, rimane stupefacente che un pensatore salti decenni e decenni di critica storia della filosofia estetica e continui a vedere la fotografia nell’ottica dei primi, accecati, fotografi e pensatori ottocenteschi. Giusto per fare due esempi del ‘900:

La fotografia è cancellazione totale di fronte al reale, con il quale coincide. È il mondo tale e quale, nella sua verità immediata, che riproduce sulla carta o su uno schermo. Roger Munier

Oppure, sempre sulla stessa lunghezza d’onda:

L’originalità della fotografia rispetto alla pittura risiede nella sua obiettività essenziale. […] per la prima volta un’immagine del mondo esterno si forma automaticamente senza intervento creatore dell’uomo, secondo un determinismo rigoroso. André Bazin

E per finire anche il tanto studiato e apprezzato Roland Barthes:

Cosa trasmette la fotografia? Per definizione, la scena stessa, il reale letterale. […] certo l’immagine non è il reale, ma ne è il suo analogo perfetto ed è precisamente questa perfezione analogica che, per il senso comune, definisce la fotografia.

Quello del rapporto mimetico fra fotografia è realtà è quindi uno zoccolo duro della percezione di cosa sia o meno fotografia. È un approccio giustificato, perché in generale è vero che le fotografie assomigliano a quello che rappresentano. È vero che sono icone spesso incredibilmente veritiere dell’oggetto che rappresentano. Del resto la fotografia pubblicitaria funziona perché permette di rappresentare in modo abbastanza fedele l’articolo in vendita. Le foto tessere sui documenti di identità servono a identificarne il possessore. Le fotografie di viaggio mostrano come sono luoghi lontani, che non potremo mai visitare. La stretta di mano fra leader politici viene immortalata con una fotografia.

Il grande errore sta nel considerare la mimesi con la realtà una proprietà fondamentale della natura fotografica. Proprietà fondamentale significa che permette di distinguere la fotografia da altri tipi di immagini, che costituisce l’essenza del fotografico. In realtà le fotografie possono essere icone più o meno riuscite della realtà, ma questo loro essere icone non è assolutamente necessario, come vedremo nel prossimo articolo.

Autochrome

Autochrome, 1920

Inoltre la fotografia segue tutta una serie di codici di lettura assodati. Che i primi uomini a contatto della fotografia non si siano resi conto che non erano tanto icone, ma piuttosto simboli, è dovuto al fatto che la fotografia si iscriveva in un sistema di rappresentazione del reale che segue tutta una serie di costruzioni mentali e simboliche di una traduzione iniziata con il rinascimento. Tradizione tanto assodata da non rendersi conto che, più che mimesi, si tratta di simbologia.

Nel prossimo articolo vedremo quindi come la proprietà di mimesi della fotografia non solo in generale non è necessaria, perché molte fotografie possono non assomigliare alla realtà, ma oltretutto è anche illusoria, la fotografia nella sua essenza è molto più simbolo, codifica della realtà, piuttosto che icona del reale.

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Fotografia e verità 6: quasi niente è fotografia /it/2008/fotografia-verita-niente/ /it/2008/fotografia-verita-niente/#respond Fri, 23 May 2008 08:34:48 +0000 /?p=402 Related posts:
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Ansel Adams

Nello scorso articolo Anche il vento è fotografia di questa nostra serie dedicata al rapporto fra fotografia e verità, abbiamo visto come la proprietà fondamentale di interazione fra luce e materiale sensibile, se viene applicata seguendo un procedimento logico e razionale, porta ad includere nella categoria fotografia moltissimi fenomeni che tutto sono salvo fotografie, almeno secondo il senso comunemente attributo al termine fotografia.

Un lettore attento avrebbe potuto ribadire in questo modo: Non ci prendere in giro! Poco tempo fa ci hai dimostrato che le stampe a getto d’inchiostro non sono fotografie, visto che non sfruttano l’interazione fra luce e materia, non sono costituite da sali sensibili, ma sono semplice inchiostro su carta. La maggior parte dei fenomeni che citi non sono più inclusi nella categoria “fotografia” se aggiungiamo una semplice puntualizzazione alla definizione: è fotografia il prodotto unicamente dell’interazione fra luce e materia sensibile.

La precisazione è estremamente ben posta. Fino a questo momento unicamente è sempre stato più o meno implicito. Di fatto non si può farne a meno, perché altrimenti davvero nella definizione di fotografia ci si può mettere anche il panettone e i frutti canditi. Se si rinuncia infatti a unicamente, dicendo che fotografia è il prodotto di un procedimento che, almeno una volta, ha utilizzato l’interazione fra luce e materiale sensibile, allora le stampe inkjet rientrano automaticamente nella categoria, visto che al momento dello scatto si è utilizzata l’interazione fra luce e supporto fotosensibile, e le fasi seguenti sono semplicemente il seguito del processo. Insieme alle stampe getto d’inchiostro però rientrano subito i dipinti di Chuck Close, visto che anche in questo caso almeno un momento di interazione fra luce e materiale sensibile c’è stato. E naturalmente rientrano anche le fotografie dipinte di Araki, quelle graffiate di François Delandre, i fotomontaggi di Jerry Uelsmann, i mordençage di Elizabeth Opalenik. Oltre a queste, qualunque altro prodotto che derivi in modo più o meno stravagante da un unico attimo di interazione con la luce, diventerebbe automaticamente fotografia: se espongo un negativo e me lo mangio divento io stesso una fotografia vivente. Alla lunga qualunque oggetto, in un modo o nell’altro, ha interagito almeno una volta con la luce, quindi la definizione sarebbe veramente troppo vasta. Ne consegue che questa piccola precisazione è strettamente necessaria: fotografia è il prodotto unicamente dell’interazione fra luce e materiale sensibile.

Porre l’accento sull’unicità dell’interazione fotoelettrica eliminando ogni possibile intervento esterno fa sparire buona parte delle difficoltà esposte nell’ultimo articolo. Il vento che soffia, le piante che crescono in primavera, la malinconia nei giorni grigi d’inverno non sono più fotografie. Restano invece fotografie la pelle abbronzata e gli oggetti che si scolorano al sole, ma questo è abbastanza plausibile anche per gli ortodossi della fotografia pura. Sono entità che non siamo abituati a vedere e considerare in quanto fotografie, ma pensandoci un po’ la cosa si fa accettabile anche per i più scettici.

Aggiungendo quell’unicamente, anche molte delle stampe che utilizzano colloidi e pigmenti non sono più fotografie. Questo può dar fastidio a qualcuno che si diletta con antichi procedimenti fotografici, ma del resto, nelle già citate discussioni infinite se le stampe a getto d’inchiostro sono fotografie o meno, i maghi delle tecniche antiche di stampa riconoscono che spesso le stampe pigmentarie, al pari delle stampe inkjet, non sono fotografie, quindi la cosa è abbastanza assodata anche in un pubblico specialistico.

Riprendiamo con qualche dettaglio per esempio il caso della stampa alle polveri. Per ottenerla si sensibilizza un supporto, in generale della carta nobile come la carta da acquarello, con un misto di gomma arabica, zucchero e bicromato di potassio. Il foglio, una volta asciutto, viene esposto per contatto dietro un negativo. Lo strato di gomma zuccherina diventa più o meno appiccicoso a seconda della quantità di ultravioletti ricevuti. A questo punto, facendo cadere a pioggia un pigmento ridotto in polvere, un poco come lo zucchero a velo spolverato su un dolce, questo aderirà maggiormente nelle zone più appiccicose, generando quindi l’immagine.

È chiaro che una stampa di questo tipo condivide molte caratteristiche con le stampe a getto d’inchiostro, in particolare l’immagine è costituita da pigmenti, e non da un materiale che è stato modificato dalla luce. La vera fotografia in questo caso si limita unicamente alla matrice più o meno appiccicosa in seguito all’esposizione agli ultravioletti, fino a che ci si è limitati ad esporre la carta sensibilizzata si è in un ambito puramente fotografico, l’aggiunta del pigmento fa scivolare immediatamente la stampa in una non-fotografia, spolverare con il colore è un’azione simile a quella di Chuck Close quando ricopia una fotografia, è aggiungere colore su una fotografia.

Mario Stellatelli

© Mario Stellatelli

Limitarsi unicamente all’interazione con la luce però pone i suoi problemi, e anche grossi. Di fatto, seguendo un minimo di logica e portando avanti il discorso in modo analogo, significa per esempio che tutte le fotografie virate non sono fotografie. Il viraggio è una pura e semplice reazione chimica, dove la luce non ha assolutamente niente a che vedere. Del resto si può virare una fotografia su carta baritata anche anni dopo averla fissata e asciugata. Si tratta semplicemente di una reazione chimica fra i sali che costituiscono l’immagine e quelli nella soluzione di viraggio, la luce non ha la minima funzione in questo caso. Le fotogafie che sono state virate allora, seguendo la definizione, non sono più fotografie, ma “altro”. Questo è problematico, perché la stragrande maggioranza delle fotografie analogiche del secolo scorso destinate ad essere esposte nei musei hanno subito almeno un leggero bagno di viraggio al selenio per fini protettivi, visto che questo migliora sensibilmente la stabilità dell’immagine e la sua resistenza all’ossidazione.

Robert Schramm

Viraggio all’uranio
© Robert Schramm

Altri viraggi comunemente praticati, soprattutto durante il primo secolo di storia della fotografia, sono quelli all’oro e al platino, decisamente più costosi di quelli al selenio, ma ancora più stabili dal punto di vista della conservazione. Oltre a questi, sempre durante gli anni dei pionieri dell’immagine fotografica, molti altri viraggi -tanto per fini espressivi che per conservazione- erano diffusissimi e estremamente vari: al piombo, al rame, al ferro, vari ossalati e citrati, persino all’uranio, per ottenere tutte le possibili tonalità, dal seppia, al rosso, al verde, il blu. I viraggi poi possono essere combinati e localizzati per trasformare immagini in bianco e nero in magnifiche e finissime stampe a colori, come dimostrano ad esempio gli splendidi lavori del maestro dei viraggi selettivi: Mario Stellatelli.

Ebbene, tutte queste immagini, la maggior parte delle stampe analogiche esposte nei musei di fotografie e la maggior parte delle fotografie antiche allora non sono fotografie, visto che non sono il prodotto unicamente dell’interazione fra luce e materiale sensibile. Non sono foto allora quelle dei fratelli Alinari, le albumine di Atget, le fotografie di Julia Margaret Cameron, i paesaggi di Ansel Adams. Ancora una volta però, se sopprimiamo quell’unicamente, sono foto anche i quadri ispirati da fotografie, se lo teniamo siamo costretti a considerare non-fotografiche la maggior parte delle stampe che sono sotto i nostri occhi.

François Delandre

© François Delandre

Ma non è finita qui, non è solo sul viraggio che siamo obbligati a puntare il dito. La procedura di stampa della carta al bromuro di argento, per intendersi la procedura di stampa usata probabilmente per almeno il 99,99% delle stampe dagli anni cinquanta del secolo scorso fino all’avvento del digitale, è nota a chiunque abbia praticato un minimo di camera oscura: si espone la fotografia all’ingranditore, la luce sensibilizza i sali presenti nella carta, creando un’immagine latente. La carta viene prima passata in un bagno di sviluppo, i cristalli eccitati dai fotoni reagiscono producendo argento metallico, mentre quelli che non sono stati eccitati rimangono sensibili ma non anneriscono, se si accende la luce si perde quindi la stampa. È necessario allora, dopo un bagno per arrestare l’azione dello sviluppo, procedere al fissaggio, ovvero immergere la stampa in una soluzione che rimuove i sali ancora sensibili presenti nella stampa. A questo punto si può accendere la luce e inizia il lavaggio.

Fratelli Alinari

© Fratelli Alinari

Ancora una volta l’unico momento di interazione fra luce e materiale sensibile è durante l’esposizione all’ingranditore. Il resto è pura e semplice chimica. Il parallelo con l’esempio della stampa alle polveri non potrebbe essere più lampante. In entrambi i casi è un intervento esterno che produce l’immagine, altrimenti questa è solamente latente. Uno strato di gomma arabica più o meno appiccicoso senza nessuna immagine e un foglio di carta baritata completamente bianco, esposto ma non sviluppato. Sono queste, e praticamente solo queste le vere fotografie!

Naturalmente per quanto riguarda i negativi vale la stessa cosa, visto che di fatto quello che si fa con l’ingranditore in camera oscura è fare una foto di un negativo. Anche le pellicole hanno bisogno infatti di essere sviluppate, e anche in questo caso l’azione è puramente chimica, assolutamente senza alcun intervento della luce. Ne consegue che, se vogliamo essere razionali e logici e seguire la definizione data in modo ragionevole, le sole vere fotografie sono i nostri negativi esposti ma non sviluppati, fotografie che nemmeno possiamo guardare. Bel guadagno abbiamo fatto con la nostra definizione di vera fotografia!

Mathew Brady

Abraham Lincoln
© Mathew Brady

Per amor del vero e questioni di completezza devo citare il fatto che esistono delle “vere fotografie” che possono essere viste, delle fotogafie che non hanno bisogno di sviluppo. Un’altra possibile classificazione delle tecniche di stampa è quella che le distingue fra a sviluppo e ad annerimento diretto. La comune carta al bromuro d’argento è a sviluppo, come per esempio la gomma bicromata, il platino, il carbone, il collodio umido. Altre tecniche però sono ad annerimento diretto, come ad esempio la carta salata, l’albumina, il “platino umido”, il Van Dyke Brown. Queste ultime tecniche sono sensibili agli ultravioletti, quindi, anche se non hanno bisogno di sviluppo, vanno fissate se vogliono essere ammirate alla luce del sole. Se vogliamo evitare di fissarle, visto che questo, seguendo la nostra logica di definizioni, le trasformerebbe in non-foto, possiamo comunque vederle sotto una tenue luce gialla. Eccole, le nostre uniche vere foto! Negativi alla carta salata tenuti al buio e osservati, prima che spariscano del tutto, ad una tenue luce gialla!

Nel prossimo articolo ci sarà modo di tirare le conclusioni su questa ricerca di una definizione univoca che stabilisca cosa sia e cosa non sia fotografia. Per ora limitiamoci a sottolineare il fatto che, volendo utilizzare la luce come discriminante, da una parte quasi qualunque cosa che ci circondi appartiene alla categoria di fotografia, dall’altra parte, allo stesso tempo, la maggioranza quasi assoluta di quelle che sono considerate fotografie invece non lo sono.

Se questo non è assurdo…

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Fotografia e verità 5: anche il vento è fotografia /it/2008/fotografia-verita-vento/ /it/2008/fotografia-verita-vento/#comments Sun, 18 May 2008 18:04:23 +0000 /?p=384 Related posts:
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Moholy Nagy

Fotogramma
© Moholy Nagy

Come punto di partenza per questo nuovo articolo della serie fotografia e verità riprendiamo la definizione data in precedenza, ovvero definiamo fotografia come il prodotto dell’interazione della luce con un materiale sensibile. In questo quinto articolo vedremo come tale definizione porta ad includere naturalmente nella categoria fotografia tutta una serie di fenomeni che, per il senso comune, e per chiunque sia appena appena ragionevole, tutto sono salvo che fotografie.

Visto che siamo in vena di definizioni, diamo subito anche quella di fotosensibile (tratta dal vocabolario), in modo da aver fissi tutti i punti di partenza e procedere in modo rigoroso.

1) Fisicamente, chimicamente, sensibile alla luce;
2) di corpo, sostanza o dispositivo le cui caratteristiche siano modificabili dalla luce o dalle radiazioni;
3) biologicamente, di organismo, che reagisce agli stimoli luminosi.

Messe le carte in tavola veniamo subito al primo esempio. È stagione e già si vedono in giro già da un po’ persone dalla pelle arrossata, quindi parliamo dell’abbronzatura. L’esempio può far sorridere, ma basta pensarci un attimo per rendersi conto che tutti gli ingredienti ci sono. L’interazione con la luce, il materiale fotosensibile. Fra l’altro si parla di fotosensibilità chimica, esattamente la stessa delle fotografie su carta baritata.

Ragazze spiaggia

Quattro “fotografie” in fase di esposizione.
© Rooshv (creative commons)

I responsabili della colorazione della nostra pelle, oltre che a proteggerla, dai raggi UV nocivi per l’organismo, sono delle molecole del gruppo delle melanine, ovvero dei pigmenti delle famiglie dei poliacetileni o delle polianiline che hanno la proprietà di rendere bruni i loro copolimeri. Il meccanismo molecolare preciso dell’abbronzatura è ancora dibattuto dai ricercatori, però Wikipedia ci insegna a grandi linee come funziona la tintarella:

Sembrerebbe trattarsi di un’azione forse mediata dall’ormone melanocita stimolante, dalla vit.D3 o suoi derivati. Tale azione è in grado di stimolare la tirosinasi la quale converte poi il substrato iniziale, la tirosina, in dopa e poi in dopachinone. Segue, a cascata, una serie di reazioni ossidative, alcune delle quali potrebbero essere sotto controllo enzimatico, che porta alla produzione dapprima di chinoni e da ultimo, alla sintesi dei polimeri terminali deputati alla pigmentazione cutanea: eumelanina e feomelanina.

Azioni ossidative, che fanno subito pensare a tutte le tecniche di stampa ai sali ferrici, quali van dyke brown, cyanotipo, palladio e platinotipia, tutte tecniche che sfruttano il principio di ossido riduzione, proprio come la tintarella. La stampa al platino, fra l’altro, è una delle tecniche preferite dagli ortodossi della camera oscura, una di quelle considerate “più pure”. Beh, una bella ragazza abbronzata ha, dal punto di vista fotografico, la stessa purezza ontologica di una stampa al platino.

Gli scettici che si stanno agitando sulla loro sedia a causa di tali paragoni poco ortodossi, si chiederanno magari dov’è all’ora il negativo, senza pensare che, a meno la bella ragazza di cui stiamo parlando non sia nudista, al mare si va in genere col costume da bagno addosso.

Anthotipo

Anthotipo
© Hans de Bruijn

Nella definizione originale in ogni caso non si parla di negativo, ingranditore e simili, ma solo di interazione fra luce e materia. Se proprio vogliamo mettercelo sto negativo facciamo un altro esempio. Immaginiamo una casa, una finestra al sole, una tenda e un vaso posato sul davanzale. Dopo qualche mese o al massimo anno sulla tenda rimarrà l’impronta scura del vaso, ed avremo, di fatto, una bella fotografia. Fra l’altro sfruttare la perdita di colore dei pigmenti dovuta al sole è alla base dell’anthotipo, una tecnica fotografica inventata da John Herschel, lo stesso inventore del cianotipo. Un supporto viene colorato con una tintura ottenuta a base di piante, una volta esposto al sole per lunghi periodi il pigmento si scolora permettendo appunto di ottenere l’immagine, proprio come la tenda.

In questo caso comunque ci sono veramente tutti gli ingredienti presenti nella stampa fotografica tradizionale. Non si usa l’ingranditore è vero, ma la maggior parte delle tecniche di stampa utilizzate durante i primi cento anni di storia della fotografia (ancora una volta, quelle considerate “più pure”) non usano ingranditore. I materiali diffusi all’epoca infatti erano talmente poco sensibili agli ultravioletti da rendere inapplicabile l’ingrandimento. Le stampe venivano quindi tutte eseguite per contatto, utilizzando uno speciale strumento per premere insieme negativo e carta, che si chiama torchietto o pressino. Il contatto serve unicamente per riprodurre al meglio i dettagli del negativo, ma non è necessario e non è certo una delle proprietà fondamentali della fotografia. Del resto c’è chi sfrutta gli effetti del mancato contatto fra negativo e carta a fini creativi. Anni fa vidi la mostra di fotografo che metteva una biglia sotto al foglio in modo da avvallare la carta e ottenere una messa a fuoco selettiva. Non ho prove certe, ma in certi casi ho la sensazione che anche Mario Giacomelli e Raymond Meeks hanno fatto qualcosa di simile. Dall’altra parte, il contatto, anche con i migliori pressini, non è mai perfetto, soprattutto se si usano carte testurate, o che hanno la spiacevole tendenza ad imbarcarsi. Ancora una volta una frazione di millimetro in un torchietto o i centimetri del vaso non fanno nessuna differenza dal punto di vista concettuale.

Thomas Bachler

Crime scenes
© Thomas Bachler

Una delle proprietà fondamentali della fotografia citate in aggiunta a quella dell’interazione fra luce e materiale sensibile è quella dell’uso di un “dispositivo fotografico”. Magari si pensa subito alla macchina, con tutto il suo complesso corredo di autofocus, esposimetro, lenti taglienti alla linea per millimetro e via dicendo. Eppure esistono molti modo di fare fotografia ben più rudimentali, dagli utilizzatori delle macchine ottocentesche agli amanti della fotografia stenopeica, un modo di fare fotografia senza lenti, che parte solo dal principio della proiezione di un’immagine su una superficie, che già ha alcune analogie con l’ombra di un vaso proiettato su una superficie. Le macchine stenopeiche, o se vogliamo il dispositivo fotografico, possono essere veramente molto semplici. Thomas Bachler per esempio, per la sua serie Crime scenes, prepara una scatola con la carta sensibile, ci spara contro un colpo di pistola e sfrutta proprio il foro del proiettile per generare l’immagine. Ridotto al minimo il dispositivo fotografico diventa quindi o una foro (o anche fessura) per proiettare l’immagine, oppure un negativo, proprio come nel caso della tenda. L’obiettivo è un terzo modo per proiettare l’immagine, ma appunto non necessariamente l’unico. Anzi, esiste perlomeno un quarto metodo, lo zone-plate, che sfrutta la diffrazione invece della rifrazione per mettere a fuoco l’immagine.

Moholy Nagy

Fotogramma
© Moholy Nagy

Un negativo quindi è sicuramente una delle forme di base di dispositivo fotografico. Il negativo può essere incollato al materiale sensibile o posizionato un po’ lontano da questo, può essere traslucente come le lastre fotografiche al collodio oppure opaco come un vaso, ma sempre di “dispositivo fotografico” si tratta. Fotografie realizzate in questo modo infatti ne esistono a bizzeffe, dai primi esperimenti con piante e merletti che hanno segnato la nascita della fotografia e che sono stati già citati nell’articolo il disegno di luce e la persecuzione dei greci, agli esempi illustri dei radiogrammi di Man Ray, le Schadographie di Christian Schad o i fotogrammi di Moholy-Nagy. Tutti questi noti artisti in ogni caso posavano oggetti su materiali sensibili e ne registravano la traccia lasciata dalla luce sul materiale sensibile.

Radiografia

Radiografia

Un esempio infine di fotogramma cui siamo tutti familiari, un esempio in tutto e per tutto uguale a quello del vaso e della tenda sono le radiografie fatte negli ospedali. In questo caso il negativo sono le nostre ossa (e in parte minore anche i tessuti molli), e proprio come nel caso della tenda queste non sono messe a contatto con la lastra, quella che viene registrata è praticamente “l’ombra” delle nostre ossa.

Naturalmente le tende sono solo un esempio, praticamente tutti i materiali che ci circondano si scolorano alla luce, la plastica polimerizza, la vernice di una porta si scrosta, la segnaletica stradale impallidisce. In pratica siamo circondati da fotografie senza saperlo, quasi ogni oggetto su cui posiamo gli occhi è una fotografia, semplicemente l’esposizione è molto lunga e l’immagine del sole non è quasi mai a fuoco.

Dire che queste non sono foto perché l’esposizione in realtà è troppo lunga non ha molto senso, visto che i tempi di esposizione di qualunque foto, non sono mai istantanei, ma si tratta sempre di intervalli di tempo finiti e quantificabili. Se non fosse così non butteremmo mai via le foto che son venute mosse perché c’era poca luce e abbiamo dovuto utilizzare tempi lunghi. La notte poi la posa può protrarsi molto a lungo, le foto di cinema di Hiroshi Sugimoto durano il tempo di uno spettacolo e alcune fotografie di Michael Wesely addirittura anni, tanto che il titolo è la data di inizio e di fine esposizione.

Retina

Coni e bastoncelli della retina

Un esempio di “fotografie” invece che non hanno bisogno di tempi di esposizione biblici e che, a meno di patologie, non sono sfuocate, sono i nostri stessi occhi. Nella retina infatti si trovano due ricettori biologici alla luce: coni e bastoncelli. I primi, una volta stimolati dalla luce, producono un pigmento chiamato iodopsina, mentre i secondi producono la rodopsina. Quando un fotone colpisce una molecola di uno di questi due pigmenti, questa cambia la sua struttura molecolare. Questo fa partire tutta una serie di reazioni chimiche a catena che produce un’iperpolarizzazione che rende fortemente negativo il potenziale di membrana. In seguito tutta una serie di reazioni nervose hanno come risultato finale la visione del mondo che ci circonda. Quello che avviene nei nostri occhi però, di fatto, ancora una volta ha tutte le caratteristiche della definizione data per fotografia: l’interazione della luce con un materiale chimicamente fotosensibile.

Un altro esempio di fenomeni che rientra nella definizione di fotografia, fenomeni che non sfruttano semplicemente l’interazione di pigmenti e luce sono le foreste e le piante in generale. Una pianta al sole cresce, ovvero modifica se stessa. Ci vogliono i sali minerali e l’acqua perché ciò sia possibile, ma anche alle foto sono necessari i bagni di sviluppo, che spesso non sono altro che sali sciolti in acqua. Di fatto quindi il pratino intorno a casa è lui stesso una fotografia.

Foresta

Tutte le piante "sono fotografie".

A questo punto gli scettici diranno che le foreste non sono un’immagine, sono dei corpi tridimensionali nello spazio. Ancora una volta sarebbe necessario fare delle aggiunte alla definizione, dire che non basta che la fotografia sia un prodotto dell’interazione della luce, ma deve essere un’immagine e bidimensionale. Se proviamo a definire immagine entriamo in un altro vespaio simile a quello che ci ha portato la ricerca di una definizione di fotografia, e in ogni caso ci sono moltissimi esempi di fotografie che non sono assolutamente bidimensionali. La stampa al carbone sfrutta proprio lo spessore della gelatina per costituire l’immagine, anzi, questa è proprio una delle caratteristiche che ne fanno la bellezza e che la rendono così appetibile ai maghi della camera oscura tradizionale. Le stesse fotografie ai sali d’argento e i negativi in un certo senso creano l’immagine grazie allo spessore dello strato d’argento, quindi sono solo macroscopicamente bidimensionali. Lo scarto fra le frazioni di millimetro in gioco in queste fotografie e i centimetri dell’erba di un prato ancora una volta da un punto di vista concettuale non fanno alcuna differenza. È comunque facile immaginare una stampa al carbone fatta con gelatina talmente scarica di pigmento da far diventare le stampe macroscopicamente tridimensionali.

Bene, siamo già nell’assurdo più completo, visto che siamo già arrivati a definire fotografie tutti i materiali che reagiscono alla luce, comprese le piante. Ma cosa succede se prendiamo anche le altre due possibili espressioni di fotosensibilità, ovvero quella biologica e fisica? Nel primo caso, volendo esagerare un po’, la meteoropatia è anch’essa fotografia, quando piove per giorni e ci sentiamo depressi perché ci manca il sole il nostro stato psicologico è pure lui una fotografia. Di fatto, è una razione di un materiale sensibile (noi, il nostro corpo e la nostra mente) alla luce del sole.

Per quanto riguarda la fisica gli esempi comunque sono molto più plausibili. Ogni impianto fotovoltaico allora è una fotografia, la temperatura che aumenta di un secchio d’acqua messo al sole fa di esso una fotografia, un optoisolatore è una fotografia, i ghiacciai che fondono (cambiamento di fase, da solido a liquido) sono fotografie.

Circolazione atmosferica

Schema della circolazione atmosferica globale.

Ma anche il vento stesso è una fotografia. Il motore della circolazione globale sulla terra è infatti il sole. Semplificando si può dire che il suolo si riscalda il suolo diversamente secondo la latitudine: forte flusso termico all’equatore e ai tropici e via via sempre meno se si va verso i poli. Il suolo caldo riscalda anche l’aria a contatto di esso, che diventa più leggera e per il principio di Archimede si innalza verso le parti alte dell’atmosfera. Visto che per continuità quest’aria deve necessariamente essere rimpiazzata da altra aria, si crea, oltre al movimento ascensionale, anche uno spostamento orizzontale di masse d’aria. Poi la rotazione della terra e la forza di Coriolis fa il resto, deviando i venti e creando per esempio gli Alisei, venti che hanno reso possibile le rotte di navigazione del passato. Lo stesso fenomeno ma ha scala ridotta è ben noto del resto ai velisti, la brezza termica ha esattamente la stessa origine, l’unica differenza è che il gradiente di temperatura invece che essere nord-sud è fra mare e terra. Ebbene, il vento alla fine dei conti è il prodotto della luce (energia solare) su un materiale sensibile (il suolo, che reagisce scaldansoi all’irraggiamento solare), quindi a rigor di logica anche il vento è una fotografia!

Si potrebbe obiettare che la risposta biologica e la fotosensibilità fisica niente hanno a che vedere con la fotografia, che è necessaria della fotosensibilità chimica (ancora un’aggiunta alla definizione, alla faccia che la discriminante è quindi la luce). In ogni caso ci si restringe al chimico gli occhi fanno comunque fotografie, la pelle abbronzata, i materiali che stingono restano comunque fotografie. Ma è comunque difficile restringersi solo alla fotosensibilità chimica. Infatti, sebbene non conosca nessuna tecnica di stampa biologica, esistono un discreto numero di tecniche fotografiche (e varianti di queste) che fanno uso di modifiche fisiche del materiale per produrre l’immagine. Le tecniche antiche (utilizzate per decenni prima della nascita della fotografia ai sali d’argento come la conoscono tutti) si dividono infatti in due grandi categorie: quelle ai sali metallici e quelle ai colloidi. In quest’ultima categoria rientrano la già citata stampa al carbone, la gomma bicromata, quella alle polveri e le resinotipie.

Resinotipia

Resinotipia
© Alberto Novo

Nel caso della stampa al carbone e della gomma, un colloide, gelatina nel primo caso, gomma arabica nel secondo, in presenza di dicromato di potassio diventa insolubile. L’immagine viene quindi creata sfruttando lo spessore dello strato di colloide, che trattiene in misura più o meno minore un pigmento aggiunto alla mescola. Nel caso della stampa alle polveri si sfrutta la proprietà della gomma arabica di divenire più o meno appiccicosa. Nella resinotipa, ideata da Rodolfo Namias attorno agli anni 20 del secolo scorso, si sfrutta il rigonfiamento della gelatina, ovvero le differenze di igroscopicità di questa. Esistono poi infinite varianti, stampe alla caseina, alla tempera, all’“uovo intero”, stampe alle polveri o resinotipie di Obernetter, di Sobacchi, Giuseppe Devincenzi etc.

Il meccanismo di cross-linking che porta all’indurimento della gelatina non è ancora noto in dettaglio, ma si tratta di legami fra molecole, che determinano poi le caratteristiche di durezza, viscosità, idrofilia, dello strato della gelatina. Si tratta in parte di modifiche chimiche in parte di modifiche fisiche, ma in ogni caso tutte le tecniche citate utilizzano le caratteristiche fisiche del supporto al fine di creare l’immagine.

Se si accetta poi che le stampe digitali a base di inchiostro sono comunque fotografie anche quelle stampate con una stampante laser lo sono, e questa utilizza un processo fisico e non chimico per produrre l’immagine. Semplificando il funzionamento di una stampante laser infatti è il seguente: un raggio laser viene modulato secondo l’immagine che deve essere stampata e viene inviato su un tamburo elettrizzato che si scarica dove viene colpito dal raggio luminoso. I pigmenti (polverizzati assieme ad altri materiali sintetici) ovvero il toner, vengono attirati grazie all’elettricità statica sul tamburo. Questi poi vengono trasferiti su carta e infine un rullo fonde il toner per fissare l’immagine sulla carta.

 

Concludiamo questo articolo un po’ pazzo anticipando una domanda dei lettori. Sei serio quando dici che anche le piante sono foto e addirittura il vento è una fotografia? Non ti sembra un’assurdità?

Mike Wesely

© Mike Wesely

Certo che è un’assurdità, ma finalmente stiamo entrando nel pieno appunto della nostra controdimostrazione per assurdo. Lo scopo di questo articolo non è voler dimostrare che il vento o la depressione sono delle fotografie, ma piuttosto mettere in luce le difficoltà cui si va in contro cercando di definire in modo univoco la fotografia. Seguendo la logica dell’interazione con la luce le stampe inkjet che si vedono nei musei di fotografia non sono foto ma “altro” mentre il vento che ci soffia in faccia d’inverno è una foto. Più assurdo di così faccio fatica a immaginarlo.

Ogni definizione che si rispetti deve essere breve e sintetica, includere tutte le accezioni possibile e escludere ciò che non deve rientrare nella categoria. La frase lapidaria che vuole la fotografia come unico prodotto dell’interazione con materiale sensibile di per se include un’infinità di fenomeni che chiaramente niente hanno a che vedere con la fotografia. Per venirne fuori si è tentati di aggiungere una serie di distinguo: sensibilità solo chimica e non fisica, tempi di esposizione brevi, spessore al di sotto del millimetro, etc. Questo da una parte mina la brevità della definizione e rende necessari tutta una serie di distinguo, dall’altra è facile trovare controesempi di tecniche veramente fotografiche che non rispettano queste presunte caratteristiche fondamentali della fotografia che ci si vede obbligati ad aggiungere per evitare di includere tantissimi fenomeni naturali nella categoria fotografica.

Tutta la difficoltà nasce dall’eterogeneità e varietà dei procedimenti fotografici. La nostra definizione deve per forza di cose poterli includere tutti, e se vogliamo farlo è necessario essere sufficientemente generali, quindi nella nostra categoria rientrano tutta una serie di fenomeni che poco o nulla hanno a che fare con la fotografia. Nel prossimo articolo vedremo che si ha anche il problema esattamente opposto, volendo essere rigorosi infatti, la definizione data non solo è troppo larga, ma è anche troppo stretta. Non si tratta unicamente delle stampe a getto di inchiostro, vedremo che la definizione non include praticamente niente di quello che si intende generalmente per fotografia!

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Fotografia e verità 4: le non-foto inkjet e le foto-vere di Chuck Close /it/2008/fotografia-verita-chuck-close/ /it/2008/fotografia-verita-chuck-close/#comments Thu, 08 May 2008 19:05:32 +0000 /?p=364 Related posts:
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Chuck Close

Olio su tela
© Chuck Close

In questo quarto capitolo della serie su fotografia e verità, riprendiamo la nostra dimostrazione per assurdo, ovvero cerchiamo di dare una definizione univoca di cosa sia la fotografia, basata su una delle proprietà fondamentali di questa. Mettiamoci per un momento nell’ottica di chi usa tale definizione per legittimare la propria pratica a discapito delle altre, diverse, che disaprova. Questo, di fatto, è proprio l’atteggiamento che vorremmo confutare con tutta questa serie di articoli. L’obiettivo non è stabilire chi ha ragione e chi ha torno, ma vedere meno pregiudizi e una fruizione più rilassata e aperta del complesso panorama fotografico.

Una delle definizioni tentate per la fotografia, anzi, probabilmente la più popolare, è quindi quella che dice: è vera fotografia l’immagine prodotta unicamente dall’interazione della luce con un materiale sensibile.

È una definizione particolarmente congeniale alla maggior parte degli stampatori moderni che usano le tecniche antiche e agli adepti della camera oscura. Spesso infatti questa definizione è usata polemicamente contro la stampa digitale a getto d’inchiostro. In questo caso è evidente l’interesse personale degli stampatori di tecniche antiche nell’adottarla come unica definizione di “fotografia”. Da una parte c’è il loro lungo e complesso lavoro manuale, le ore passate in camera oscura, gli esperimenti, il prezzo esorbitante di certa chimica, come i sali di platino, della carta acquarello, del materiale necessario per mettere in pratica tutta quest’antica arte, tutto questo sapere artigianale. Dall’altra, almeno nell’immaginario degli stampatori di tecniche antiche e dei vecchi guru della camera oscura, visto che in realtà è più complicato, dall’altra parte dicevo, c’è l’idea di premere un bottone e vedere un prodotto che esce direttamente dalla stampante, una stampa completamente meccanica.

Stampante Epson

Stampa a getto d'inchiostro.

Ecco allora la tentazione comprensibile di dire che questa non è fotografia. Il risultato è che il loro prodotto ha un grande valore, si riconosce all’interno di un filone storico importante, con tutte le sue tradizioni e blasoni, dall’altro lato si tratta invece di poco più di una fotocopia, di un prodotto artificiale e poco nobile, senza fascino.

Stiamo al gioco, almeno per un momento. La logica seguita è questa: la stampa digitale a getto d’inchiostro non utilizza in nessun momento l’interazione fra la luce ed un materiale sensibile. L’inchiostro viene finemente spruzzato sulla carta, in un procedimento meccanico tipografico e non fotografico. La stampa a getto d’inchiostro è quindi più vicina alla pittura o alla riproduzione di un quadro in un libro d’arte. Si tratta di un disegno precisissimo fatto da una macchina, il disegno di una fotografia, ma non è una fotografia vera e propria, appunto perché in nessun momento entra in gioco l’interazione fra luce e materiale sensibile.

Shi Xinning

© Shi Xinning

Questo in sintesi, è l’argomento che usano molti stampatori di tecniche antiche o tradizionalisti ortodossi della camera oscura contro la stampa a getto d’inchiostro. Basta una semplice ricerca in forum o mailing-list come apug o Alt-photo-process-l , per trovare pagine e pagine su questo argomento, fiumi e fiumi di inchiostro virtuale versato, per dimostrare che le stampe a getto d’inchiostro non sono fotografie e fregiarsi del titolo di “ultimi veri fotografi”.

La cosa di fatto ha la sua logica. Basta pensare alla tecnica delle griglie usate da Chuck Close, o a molti altri pittori hyper-realisti che hanno lavorato a partire da fotografie, dipingendo su fotografie o utilizzando tecniche di griglie. Una fotografia viene proiettata a forte ingrandimento su una tela di grandi dimensioni, divisa in tanti minuscoli quadretti. Il pittore riempe ogni quadretto con il colore che più si avvicina a quello della fotografia. Una volta finito il quadro questo assomiglia incredibilmente alla fotografia di partenza. Nel caso di alcuni dei dipinti di Chuck Close, che ho avuto modo di ammirare dal vivo, il risultato è così fine da essere virtualmente indistinguibile da una vera fotografia.

L’analogia con la stampa inkjet non potrebbe essere più completa, senza contare che fra le varie griglie usate da Cuck Close ci sono pure le griglie CMYK, esattamente le stesse delle stampanti a getto d’inchiostro. L’unica differenza è la velocità, ma dal punto di vista concettuale i 5 minuti necessari a una stampante desktop e i mesi necessari al pittore non fanno alcuna differenza. In entrambi i casi un colore viene applicato su un supporto, ricalcando una fotografia originale. Questa è interpretata tanto dal pittore, che sceglie il colore ad olio appropriato, quanto dal driver di stampa, che cerca di trasformare nel modo migliore un file RGB in uno CMYK, e la dimostrazione più lampante è l’esistenza dei profili ICC di stampa.

A rigor di logica quindi, se si vuole dire che le stampe inkjet sono fotografie allora anche i quadri di questo pittore lo sono. Ma questa è una difficoltà per chi è di vedute più lasche rispetto ai talebani della camera oscura, per loro inkjet non è fotografia quindi il problema dei quadri non si pone. Anche i grandi fautori della fotografia pura però hanno le loro magagne da risolvere.

Prima difficoltà: la maggior parte delle persone che entrano in una galleria o in un museo e vedono appesa alle pareti delle stampa a getto di inchiostro però le identificano immediatamente come fotografie. Magari è perché sono ignoranti e non sanno cosa sia una gomma bicromata, un kallitype o un’albumina, però difatto, per il 99% della popolazione mondiale, e per la stragrande maggioranza anche dei fotografi, le stampe inkjet sono delle fotografie.

Questo perché le stampe a getto d’inchiostro condividono le caratteristiche fondamentali citate negli articoli precedenti, primo fra tutti l’estrema somiglianza con il reale. Per una definizione che ricalchi il senso comune sembrerebbe quindi necessario non utilizzare un’unica proprietà fondamentale, quella dell’interazione fra luce e materiale sensibile, ma ricorrere anche ad altre proprietà. Il che rende le cose complicate, perché si entra in una marea di distinguo. È facile infatti trovare esempi di fotografie “pure” (nel senso prodotte esclusivamente dall’interazione della luce con un materiale sensibile) che non assomigliano nel senso iconico a fotografie, le stesse gomme bicromate per chi non ha esperienza di tecniche antiche di stampa sono quadri e non fotografie. Il che rende opinabile la dicitura “fondamentale” per questa seconda proprietà. Si dovrebbe dire, insomma, che in certi casi la fotografia ha certe proprietà, in altri meno, in altri quella proprietà li non ce l’ha per niente… e via dicendo. E tutto questo puzza parecchio, le definizioni non possono essere un elenco di casi particolari, eccezioni e classifiche particolari.

Questo è un secondo campanello d’allarme che indica che trovare una definizione unica e coerente è estremamente difficile. La necessità di ricorrere a una moltitudine di definizioni non sempre valide verrà comunque discussa con maggior dettaglio in futuro, per il momento limitiamoci alle stampe inkjet, citando due prime difficoltà: secondo la definizione dell’interazione con la luce non sono fotografie ma molti le percepiscono come tali, il che renderebbe necessario l’uso di una moltitudine di definizioni particolari.

© He Sen

Dal punto di vista visivo quindi, a primo colpo d’occhio e per i non addetti ai lavori, una fotografia stampata utilizzando un ingranditore e una stampa a getto d’inchiostro sono molto simili fra loro. La differenza esistenti come il tipo di carta, la resa dei colori, il contrasto, etc, non sono assolutamente sufficienti a stabilire quale sia una fotografia e quale no, il distinguo è a priori e riguarda il modo in cui queste due stampe sono state ottenute: una tramite un procedimento fotosensibile, l’altra tipografico. Colgo l’occasione per aggiungere che nei musei e nelle gallerie si vede spesso un terzo tipo di stampe: le stampe lamda o più precisamente lightjet. Si tratta di stampe su carta sensibile ma esposte digitalmente, utilizzando dei laser rossi, verdi e blu. Dal punto di vista della definizione basata sull’interazione fra luce e materiale sensibile sono vere e proprie fotografie, ma dal punto di vista operativo non cambia niente per un fotografo se vuol far stampare a getto di inchiostro o lambda, si tratta sempre di un procedimento completamente meccanico e pilotato da un computer, cosa che vanifica i tentativi dei guru della camera oscura di gettare cattiva luce sulle tecniche moderne sfruttando unicamente la definizione originaria della fotografia. Da una parte le stampe all’ingranditore sono fotografie, le lambda pure, le getto d’inchiostro no, cosa stupefacente per la maggior parte delle persone su questa terra.

L’equivoco, almeno in parte, nasce dalla confusione fra stampa e fotografia. Mentre per fotografia si intende generalmente tanto la stampa quanto l’immagine fotografica in sé, indipendentemente dalla tecnica di riproduzione, una stampa a getto di inchiostro non è niente di più e niente di meno che la realizzazione di una stampa tramite una certa tecnica, tecnica non strettamente fotografica secondo la definizione data.

Prima pagina di Repubblica

Le fotografie sui quotidiani e le riviste non sono fotografie.

Quando guardiamo la fotografia di un politico stampata su di un quotidiano, riconosciamo in essa una fotografia, anche se di fatto si tratta di una riproduzione meccanica di cattiva qualità, di quella che dovrebbe essere la vera fotografia. La parola fotografia è stata utilizzata quindi per identificare tanto la fotografia originaria quanto la riproduzione di questa, quanto infine la fotografia in senso astratto.

Dire che fotografia è una stampa realizzata grazie all’interazione fra luce e materiale sensibile equivale a ricondurre unicamente la fotografia al suo supporto, operazione almeno in parte riduttiva.

Questa è una terza difficoltà nel tentativo di dare una definizione univoca. Fra l’altro è una difficoltà intrinseca. Le prime due possono essere messe da parte dicendo che la maggior parte della popolazione mondiale, compresi fotografi, curatori di musei, giornalisti, e via dicendo, non sa cosa sia la vera fotografia (Perdonali o Signore perché non sanno quello che fanno). Chi crede di essere l’unico portare della verità può sempre arroccarsi sulla definizione data e festa finita. Per quanto riguarda questa terza difficoltà invece c’è poco da fare, la definizione identifica completamente la fotografia con la sua stampa.

È fotografia allora la stampa o l’immagine fotografica in se? Come è possibile definire le caratteristiche dell’immagine fotografica indipendentemente dal supporto?

Per quanto mi riguarda ho molte difficoltà a separare la fotografia in senso astratto dal suo supporto, e questo è dovuto al fatto che storicamente si chiama fotografia sia l’una che l’altra. Allo stesso tempo in moltissimi casi si parla di fotografia indipendentemente da questo. Per il momento accantono anche questo problema. Mi limito a segnalare che questa è già la terza difficoltà che incontriamo in questo articolo, una difficoltà fra l’altro intrinseca nel definire cosa sia fotografia utilizzando unicamente la semplicissima definizione di interazione fra luce e materia sensibile.

Queste tre problematiche, per i miei gusti, sarebbero già di per sé abbastanza per finire la mia dimostrazione per assurdo e concludere che non vale la pena disquisire cosa sia o non sia fotografia, utilizzando l’appartenenza a questa classe per dare valore a un prodotto rispetto ad un altro. Non sarebbe più semplice dire che le stampe all’ingranditore sono quello che sono, quelle lambda e inkjet pure, quelle del pittore sono prodotte col metodo eseguito punto e basta? Non sarebbe meglio limitarsi ad ammirare le belle fotografie o quadri, in qualunque modo essi siano stati ottenuti, invece che disquisire cosa sia o non sia fotografia?

Ma continuiamo con la definizione dogmatica e vediamo a che punto arriviamo. Vedremo che da una parte la definizione è troppo vasta e dall’altra invece troppo restrittiva per essere rigorosa e allo stesso tempo includere ciò che per il senso comune, anche del più integralista stampatore di camera oscura, è fotografia. Appuntamento alla prossima puntata.

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Fotografia e verità 3: il disegno di luce e la persecuzione dei greci /it/2008/fotografia-verita-disegno-luce/ /it/2008/fotografia-verita-disegno-luce/#comments Sun, 04 May 2008 09:21:01 +0000 /2008/estetica/fotografia-e-verita-3-disegno-di-luce/ Related posts:
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la prima foto

Probabilmente la prima fotografia della storia.
Joseph Nicéphore Niépce, 1826.

Continuiamo questo viaggio nel rapporto fra fotografia e verità, ricordando che il fine ultimo di questa serie di articoli è il tentativo di mettere in evidenza la difficoltà di dare una definizione univoca di cosa sia e cosa non sia la fotografia con la effe maiuscola. Che l’atteggiamento di sdegno nei confronti di certe pratiche fotografiche sia difficile da giustificare razionalmente, che tanto vale allora accettare in modo aperto le varie contaminazioni offerte oggi dalla fotografia contemporanea.

Prendiamo spunto da uno dei fatti peculiari descritti alla fine dell’ultimo articolo: le fotografie sono immagini ottenute a partire da un’interazione fra luce e materiale sensibile. Fu proprio questa constatazione evidente che dettò il nome fotografia. L’etimologia del termine viene spesso citata per decidere cosa sia e cosa non sia fotografia. Prima di discutere in pratica se l’interazione fra luce e materia permetta di tale definizione vale la pena fare alcune precisazioni sulla questione etimologica stessa.

 

L’origine del termine fotografia è nota a tutti, dal greco phos (genititivo photos) luce e graphia da graphos disegno, dipingo, rappresento.

fotogramma Talbot

Molte delle primissime fotografie sono “disegni fotogenici” di piante e foglie.
William Fox Talbot

Le prime fotografie della storia furono inventate appunto per trovare un modo per disegnare automaticamente con la luce, per fare fotocopie, riprodurre incisioni e in seguito riprodurre il reale. Questo atteggiamento riflette le aspettative di tutta un’epoca. L’idea che la fotografia sia un modo per riprodurre la realtà molto più veloce, preciso e fedele del bozzetto di un pittore.

Il termine disegnare poi non è casuale ed è dovuto probabilmente al fatto che le prime immagini fotografiche fossero monocromatiche -come il disegno appunto- e non a colori come la pittura. La fotografia quindi all’inizio viene inventata da qualcuno che cerca un metodo veloce e preciso per ottenere disegni sfruttando la luce del sole.

L’equivoco che ci proponiamo di confutare con tutta questa serie di articoli nasce proprio qui, alle origini della fotografia. Dall’idea che la fotografia sia una riproduzione estremamente fedele della realtà è derivata l’idea che sia una riproduzione completamente fedele della realtà, tanto da identificarla con la realtà stessa. E dall’idea che tale disegno sia parzialmente automatico è discesa quella che lo vuole completamente automatico.

Bisognerebbe ricordarsi che quello che si cercava di ottenere all’inizio, quello che è contenuto nell’etimologia del termine, era solo un disegno della realtà, non la realtà stessa, quindi sempre un oggetto, e un oggetto che inizialmente veniva appunto identificato con un disegno fatto a mano con straordinaria precisione. E l’etimologia non contiene nessun riferimento all’automaticità del disegno.

foglia Wedgwood

Un disegno fotografico forse antecedente alla nota fotografia di Niépce
Thomas Wedgwood

L’identificazione fra disegno di luce e realtà che esso rappresenta è avvenuta prestissimo, forse quasi in contemporanea con la nascita delle prime immagini fotografiche. Ma tutte le persone che storcano la bocca di fronte agli interventi di ritocco al computer o agli interventi pittorici, rifugiandosi nella definizione etimologica della fotografia per dire che “quelle” non sono foto, dovrebbero riflettere al fatto che in realtà la definizione originale della fotografia non è “copia con la luce” ma “disegno con la luce”. L’identificazione di fotografia e realtà, come l’idea che il disegno di luce avvenga in modo completamente automatico, seppure storicamente si siano radicate rapidamente, sono solo successive. Inizialmente si trattava di disegni, né più né meno.

Lo stesso Fox Talbot, fondando la prima rivista fotografica della storia, gli diede il nome The pencil of nature, ovvero la matita della natura. Certo, Talbot dovette specificare che le illustrazioni della rivista erano prodotte automaticamente dalla luce del sole e non a mano da un incisore. Automaticamente però nei confronti del lavoro manuale di un litografo, in realtà quell’automaticamente nasconde tutto il laborioso (nei confronti della fotografia odierna) procedimento del calotipo.

scopa Talbot

La porta aperta
William Fox Talbot

La ragione per la quale i primissimi fotografi insistevano sul fatto della completa somiglianza con la realtà e dell’automaticità del procedimento va interpretato in luce della realtà storica presente. Nessuno sapeva che cos’era una fotografia ed era necessario spiegare alla gente che non si trattava né di un perfetto disegno a matita, né di un’incisione, ma di qualcosa di molto più rapido e automatico. L’enfasi su queste due caratteristiche a mio avviso era necessaria all’epoca dei primi vagiti della fotografia, ma oggi dovrebbe finalmente essere abbandonata. Si può immaginare lo stupore dei primi uomini che hanno visto le prime fotografie, ma si può immaginare anche la confusione di fronte a questa sconvolgente novità. Attaccarsi oggi all’etimologia per derivare cosa sia o non sia vera fotografia è perlomeno anacronistico.

Fotografia, disegno di luce, è un termine inventato da persone che hanno cercato di inserire una novità assoluta in qualcosa di noto e comprensibile. Nella sua forma originaria in ogni caso non contiene né l’idea di identificazione diretta con la realtà né quella di automaticità pura.

Levati di torno i greci, che vengono sempre a mettere lo zampino dove ormai hanno poco a che fare, vedremo nei prossimi articoli di discutere meglio l’interazione fra luce e materiali sensibili.

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Fotografia e verità 2: uno, nessuno e centomila /it/2008/fotografia-verita-uno-nessuno-centomila/ /it/2008/fotografia-verita-uno-nessuno-centomila/#comments Thu, 24 Apr 2008 14:55:27 +0000 /2008/estetica/fotografia-e-verita-2-uno-nessuno-e-centomila/ Related posts:
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Nasa

Foto scientifica di galassia
© Nasa

Prima di entrare nel merito della questione iniziata col primo articolo di questa serie dedicata al rapporto fra fotografia e verità, mettiamone in luce una caratteristica certo evidente, ma che è necessario e utile sottolineare prima di continuare: la natura estremamente eterogenea e variegata della fotografia.

Fotografia infatti è una parola ormai assolutamente abusata, alla stregua di arte. Ormai è una parola ricorrente sulla bocca di tutti, passa fra le labbra del filosofo come del fotografo, del giornalista come del fotoamatore. È pronunciata da chi scatta col cellulare, dell’astrofisico, dal gallerista che la vende a centinai di migliaia di euro, da chi visita flickr, nei tribunali , negli ospedali, nelle fabbriche e nelle scuole.

Passando di bocca in bocca assume mille significati e sfumature diverse, mille volti, mille identità. A volte la parola fotografia comprende una vasta categoria di concetti, di abitudini e di significati, altre volte invece è estremamente ben definita.

Foto ricordo

Foto ricordo

Migliaia e migliaia di fotografie vengono scattate ogni giorno, ognuna con scopi e destinazioni profondamente diverse, e come naturale conseguenza stile e apparenza.

La fotografia viene utilizzata per ottenere foto ricordo, per fissare un momento che si vuole sottrarre al flusso del tempo, avere un’immagine che si possa rivedere anni dopo, con un sorriso un po’ malinconico sulle labbra. Per inviare una cartolina da una spiaggia del sud della Spagna, per documentare giorno per giorno le facce di un figlio appena nato. La maggior parte delle persone quando si sposano pagano l’equivalente di uno o due dei loro stipendi mensili per poter pagare un fotografo che, alla fine del grande giorno, abbia riempito un album di fotografie sdolcinate e il più delle volte terribilmente stereotipate.

Catalogare

Fotografia per catalogare: moschettoni da scalata

La fotografia poi viene usata tanto per catalogare che per illustrare. Sia per riempire le pagine di un libro di malattie veneree nella biblioteca di un medico, che per illustrare un catalogo con i chiodi prodotti da una piccola fabbrica nella zona industriale di un paese di campagna. Per schedare i detenuti di un carcere o gli iscritti ad un’università. Per mostrare i prezzi delle pietanze vendute in un fastfood o le ragazze compiacenti su un sito a luci rosse. O per illustrare qualcuna delle varie categorie di foto di cui si parla proprio in questo articolo di Camera Obscura.

Fotografia satellitare

Fotografia satellitare

La fotografia può essere utilizzata per scoprire, per fare ricerca. I satelliti per esempio fotografano ogni giorno la superficie degli oceani per ricavarne la distribuzione di clorofilla, la temperatura, il contenuto termico etc. Buona parte della ricerca applicata in astrofisica si basa sullo studio delle spettacolari immagini che arrivano a noi dagli angoli più lontani dell’universo.

Iraq

Fotografia di guerra: Iraq
© Reuters

La fotografia viene utilizzata per testimoniare e documentare. Per determinare chi è arrivato primo ad una corsa di cavalli, immortalare la scena di un delitto prima che le prove vengano contaminate, raccontare la vita in luoghi lontani e inaccessibili. Documentare le guerre che da sempre mietono inutili vittime senza fine, l’incontro fra due leader politici, un evento sportivo.

Infine poi c’è chi fa fotografia per il piacere di farlo, gli appassionati, i fotoamatori, i grandi nomi del mestiere, hanno tutti iniziato probabilmente per la stessa ragione. Il piacere di produrre il bello, l’estasi intellettuale della fotografia concettuale, la comunicazione con gli altri, il mettersi in mostra.

Foto di Gruppo

Foto di gruppo

Naturalmente tutti questi scopi di fare fotografia non sono ben divisi fra di loro, ma confusi e sovrapposti. Una foto può allo stesso tempo esser scattata con intenti multipli e diversi. Può avere lo stile di un’altra categoria, condividerne stilemi espressivi ma non la destinazione. Esistono poi infinite sottocategorie e precisazioni, che si riuniscono fra loro, tanto che è praticamente impossibile dare una struttura tassonomica coerente del mondo fotografico, più che una piramide ben definita è una matassa di fili intricati fra di loro.

cartolina dal giappone

Antica cartolina giapponese

Al di la degli scopi e degli usi “esterni”, nello stesso mondo della fotografia pura e dura, la fotografia fatta per farla, esistono infinità di stili e approcci diversi: il bianco e nero e il colore, il digitale e l’analogico. La fotografia di nudo, naturalistica, concettuale, di paesaggio, persone, animali, street, reportage, charme, erotica, astratta, etc.

Insomma, il termine fotografia indica correntemente un grande insieme di categorie e sottocategorie anche molto diverse fra loro. Questa moltitudine di facce si esplicita tanto negli stili e nel linguaggio espressivo, nell’approccio, negli scopi e destinazioni d’uso dell’immagine fotografica. Non è quindi un entità unica e ben definita, ma un amalgama di mondi più o meno diversi fra loro.

Infine si pone il problema dei supporti. È fotografia l’immagine astratta o il supporto? Nel linguaggio corrente ci si riferisce tanto alle stampe ai sali d’argento, alle riproduzioni tipografiche sui giornali, ai file allegati per mail quanto all’immagine astratta quando si usa il termine fotografia.

Microscopio

Fotografia al microscopio

Eppure cosa ci fa dire a colpo d’occhio che tutte queste immagini sono fotografie e non qualcosa d’altro? Quali sono le caratteristiche che accomunano fra di loro tutte queste immagini? Perché le riconosciamo al volo come appunto fotografie? E ancora: quali sono i punti in comune e le differenze fra immagine fotografica astratta e fotografia stampata?

Le prime risposte che probabilmente vengono in mente a caldo alle maggior parte delle persone sono che, a prima vista, tutte queste immagini:

  • sono state ottenute a partire da un’interazione fra luce e materiale sensibile;
  • sono state prodotte tramite l’uso di un dispositivo, la macchina fotografica appunto;
  • hanno un rapporto mimetico con la realtà, assomigliano incredibilmente al soggetto fotografato;
  • utilizzano elementi reali per la propria generazione. La fotografia può essere astratta e distorcere l’elemento che rappresenta, ma l’immagine è sempre derivata da elementi esistenti.
Calcio Juve-Milan

Fotografia di sport

Nei prossimi articoli della serie “Fotografia e verità” vedremo in dettaglio queste caratteristiche fondamentali della fotografia, cercando di mettere in luce se permettono di stabilire cosa sia e cosa non sia la fotografia. Alcune di queste caratteristiche non solo non permettono di operare questa scelta, ma si dimostreranno tutt’altro che fondamentali, e saranno quindi scartate . Altre invece si aggiungeranno a questa prima lista. Discuteremo poi quali sono le differenze e i punti in comune fra l’immagine astratta e la stampa fotografica.

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Fotografia e verità 1: ma questa non è fotografia! /it/2008/fotografia-verita/ /it/2008/fotografia-verita/#comments Tue, 15 Apr 2008 13:49:04 +0000 /2008/estetica/fotografia-e-verita-1-ma-questa-non-e-fotografia/ Related posts:
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Nobuyoshi Araki

Dipingere sulle fotografie
© Nobuyoshi Araki

– Che splendida immagine, peccato che non sia una fotografia!

Questa è una frase che si sente pronunciare spesso, a proposito dei lavori di tanti artisti contemporanei che mischiano con disinvoltura diverse pratiche più o meno fotografiche, utilizzano la fotografia come punto di partenza per elaborazioni anche molto lontane dello scatto di partenza. Con l’avvento del digitale è una frase pronunciata anche da tantissimi stampatori della vecchia scuola di fronte ad una fotografia che è stata ritoccata al computer in modo evidente. In generale è una frase pronunciata con un’accezione negativa, quando non si sfocia nel vero e proprio sprezzo.

Un atteggiamento di questo genere implica sempre una certa dose di presunzione. Intanto significa che esista una certa definizione universale della fotografia, e che sia nota a chi ha pronunciato la frase. Naturalmente in generale quella che è considerata La Fotografia è esattamente il genere coltivato dal nostro interlocutore, che si auto investe del merito di essere un rappresentante della Vera Fotografia, una specie di messia di una classe sacerdotale investito di illuminazione divina, che deve battersi contro il paganesimo imperante nel mondo.

Spesso chi pronuncia questa frase afferma quindi implicitamente due cose:

  1. che esiste una categoria assoluta, che gode di caratteristiche universali, che determina cosa sia “la vera fotografia”
  2. che tutte le pratiche che differiscono da questa categoria assoluta non sono strettamente fotografiche.
Cupido e centauro

Negativi graffiati
© Joel Peter Witkin

Nel secondo caso si tratta dell’innato rifiuto dell’uomo per tutto ciò che è diverso, estraneo alle regole costituite. È l’atteggiamento reazionario di chi crede di aver tutto compreso e che l’ultima parola sia stata detta. È l’atteggiamento di chi in fondo ritiene di aver sempre ragione. La voglia di bollare quello che non è diverso come estraneo e pericoloso. È un atteggiamento vecchio come la storia dell’umanità, ma per fortuna ovunque e in ogni epoca, oltre alle spinte reazionarie, sono sempre state presenti anche quelle rivoluzionarie, che hanno permesso al mondo di non fossilizzarsi in pratiche ortodosse e pregiudizi. Chiunque esprime un giudizio dettato dallo sdegno su una pratica fotografica che non conosce o non condivide dovrebbe quindi considerare che così facendo sta dichiarando se stare dalla parte dei sacerdoti o dietro alle barricate.

Che questo atteggiamento di rifiuto per il diverso sia irrazionale e spesso deleterio mi sembra abbastanza evidente. Più complesso invece il discorso per quanto riguarda l’esistenza di una definizione univoca dell’ambito fotografico. Nei prossimi giorni pubblicherò quindi una serie di articoli che cercano di determinare se è possibile dare una definizione di fotografia che valga tanto sul piano astratto che su quello concreto, una definizione che sia razionale e teorica ma allo stesso tempo adatta praticamente alle peculiarità del media, una definizione che valga tanto per i filosofi che per i fotografi.

Visto che, al di là delle definizioni, si va a parare sui rapporti fra la fotografia e la realtà, virando sul valore informativo o documentario della fotografia, questa serie di articoli ha un titolo un po’ pomposo: fotografia e verità.

Fotomontaggio

Fotomontaggio
© Emily Allchurch

Vedremo come cercando di dare una definizione univoca si ricade sempre sempre in categorie troppo ampie o troppo strette per essere corrette dal punto di vista filosofico e allo stesso tempo adatte al senso comune e ad un uso concreto della parola fotografia. Forse conviene allora rinunciare a definire univocamente il fotografico e come consequenza accettare apertamente ogni forma di contaminazione piuttosto che arrogarsi il merito di fare fotografia e tacciare tutto il resto con un semplice “ma questa non è una fotografia”.

In realtà non si tratta solo di determinare se la fotografia è difinibile o meno, ma di un ambito più vasto. Quello che è in gioco in ultima analisi è il rapporto fra realtà e rappresentazione. Per questo questi articoli si chiameranno “fotografia e verità”.

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